Quando l’ondata di demaniazioni che seguì l’Unità d’Italia fece confluire nei musei dell’Umbria un’ingente mole d’opere che giungevano in massa dalle chiese e dai conventi del territorio, è probabile che subito tra gli storici dell’arte di Perugia s’accesero animate discussioni attorno a una tavola che arrivava dalla sacrestia della chiesa di Sant’Agostino: negli anni Sessanta dell’Ottocento era stata rimossa dal luogo dov’era conservata, e avrebbe poi raggiunto quella ch’era all’epoca la Pinacoteca Civica di Perugia, oggi la Galleria Nazionale dell’Umbria. È qui che il dipinto si può tuttora ammirare, e peraltro coi nuovi allestimenti inaugurati a luglio 2022 la singolarità di quest’opera è stata ben messa in risalto.
Una delicata Vergine dalle lunghe sopracciglia arcuate regge sulle ginocchia un Bambino erculeo, che sta in piedi e tiene con una mano il mantello della madre, d’un blu lapislazzuli intenso. Attorno a loro si dispongono le figure di sei cherubini, tre per lato: singolare l’invenzione dell’autore, che ha rivestito i loro corpi con tuniche verde mare, che si confondono con l’azzurro del cielo e che paiono quasi nuvole che si muovono nel vento. Le figure sono incorniciate entro un’imponente ghirlanda marmorea decorata con festoni di frutta e fiori, dipinta con forti effetti di chiaroscuro per fornire al riguardante l’illusione della tridimensionalità: si guardi l’ombra lunga e cupa che, sulla destra, i festoni proiettano sul fondo in finto marmo. La finzione è completata, ai lati, da due medaglioni che all’interno simulano inserti in breccia dai toni gialli e aranciati, e in basso da un peduccio sul quale il pittore ha sistemato alcuni aranci con le loro foglie, che assolvono allo stesso ruolo della mela e diventano dunque simbolo di redenzione dei peccati e di salvezza. Ai lati, negli angoli, compaiono due angeli biondi, di cui vediamo solo le teste e le spalle, e nei quali occorre probabilmente riconoscere gli arcangeli Gabriele e Michele. A sinistra, un rametto d’arancio si sporge per offrire un ulteriore saggio di virtuosismo illusionistico.
È evidente che ci si trova dinnanzi a un artista che doveva aver conosciuto, e pure bene, l’arte di Andrea Mantegna: l’apertura sul cielo azzurro ricorda l’oculo della Camera degli Sposi, le pieghe quasi metalliche che segnano la manica della veste della Vergine rammentano anch’esse soluzioni mantegnesche simili, e lo stesso si può dire per il profilo scultoreo di tutte le figure, oltre che per l’esattezza dei finti marmi. La stessa forma della ghirlanda è identica a quella delle cornici dei Cesari nella Camera degli Sposi.
La vicinanza di questo dipinto a Mantegna è tale che, nella guida alla Galleria Nazionale dell’Umbria compilata da Giovanni Cecchini nel 1932, il dipinto era classificato come di “scuola padovana” del XV secolo. E pressoché tutti gli studiosi che s’erano cimentati con quest’opera l’avevano avvicinata ad artisti d’area settentrionale: per Richard Hamann era un lavoro di Francesco Bonsignori, per Giacomo De Nicola e Mario Salmi occorreva invece assegnarla alla mano di Gerolamo da Cremona (nome, quest’ultimo, sostenuto tra gli anni Cinquanta e Sessanta anche da Roberto Longhi e Rodolfo Pallucchini). Tuttavia già nel 1863, ovvero quando la Commissione incaricata delle demaniazioni delle opere d’arte per la provincia di Perugia compilò l’inventario degli oggetti provenienti dalle case degli ordini religiosi soppressi, cominciava a serpeggiare il nome d’un artista umbro, Fiorenzo di Lorenzo: questo il possibile arista indicato da uno dei membri della commissione, Luigi Carattoli, e questo il nome che fino ai primi del Novecento continuò a essere assegnato all’autore del dipinto, per poi tornare in auge nel dopoguerra (probabilmente ebbe una certa rilevanza il parere di Federico Zeri, altro sostenitore del nome di Fiorenzo), e infine ribadito da Filippo Todini nel 1989.
Questa tavola, insomma, è sempre stata un oggetto misterioso per chiunque l’abbia studiata. Solo nel 1994 l’enigma è stato probabilmente sciolto: in quel periodo era cominciata un’importante opera di revisione dei cataloghi dei pittori umbri del Quattrocento, e quell’anno Pietro Scarpellini avanzò, seppur in modo molto cauto, il nome di Bartolomeo Caporali, destinato a soppiantare quello di Fiorenzo di Lorenzo grazie anche alla successiva conferma di Elvio Lunghi, secondo il quale la Madonna col Bambino entro una ghirlanda sarebbe inspiegabile senza un soggiorno a Mantova da parte dell’artista, o comunque senza un suo avvicinamento ai modi di Niccolò di Liberatore, detto l’Alunno, che era effettivamente stato a Padova. Caporali fu uno dei massimi pittori perugini del Quattrocento: già iscritto all’Arte dei pittori nel 1442, aveva cominciato ad affermarsi sin da giovanissimo guardando ai risultati di Benozzo Gozzoli, che fu in Umbria negli anni Cinquanta, del Beato Angelico ma anche del conterraneo e coetaneo Benedetto Bonfigli, l’altro grande nome della pittura a Perugia alla metà del XV secolo.
Questa singolare tavola gli è stata assegnata su basi stilistiche: il profilo della Madonna, ma anche lo stesso modo di panneggiare le vesti, sono quasi sovrapponibili a quelli della Vergine che compare nell’Adorazione dei Magi dipinta per il convento delle Clarisse di Monteluce e oggi conservata anch’essa alla Galleria Nazionale dell’Umbria. Opera matura, dunque, se da accostare a quel dipinto: potrebbe risalire agli anni Settanta del Quattrocento. E opera anomala, come s’è già detto: non esiste in tutta l’Umbria un’opera così aderente ai modi mantegneschi, che vengono però stemperati dall’artista con una Vergine dal profilo dolce, delicato, aggraziato pur nell’evidenza scultorea che l’artista decide di conferire alle sue carni. È uno strano incontro tra due scuole, è un’inusuale fusione tra Italia del nord e Italia del centro, in un’epoca in cui non era certo inusuale per un pittore spostarsi anche molto lontano da casa per studiare le novità che andavano diffondendosi fuori dal suo ambito regionale. Non sappiamo per certo di viaggi a Mantova da parte di Bartolomeo Caporali. Potrebbe anche essergli bastata la visione dei codici miniati di Gerolamo da Cremona che avrebbe potuto osservare in città: il cremonese fu profondo osservatore dell’arte mantegnesca, e i suoi codici abbondano di figure scultoree incorniciate da ricche ghirlande. Rimane però sicuramente affascinante l’idea che Bartolomeo Caporali abbia viaggiato a lungo per raggiungere la città dei Gonzaga, e che qui vi abbia conosciuto quel padovano più giovane di lui di undici anni, che poté avergli ispirato, con le sue nuovissime soluzioni, del tutto sconosciute alla natia Perugia, questa tavola che rappresenta tutt’oggi una sorta di hapax nella pittura del Quattrocento umbro.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).