In un passo delle sue Vite, e nello specifico in quella dedicata a Tiziano, Giorgio Vasari elenca alcune opere ammirate nel guardaroba del duca Guidobaldo II della Rovere, al tempo in cui il grande storiografo visitò Urbino, nel 1548: tra questi lavori, Vasari menziona una “testa dal mezzo in su d’una Santa Maria con i capegli sparsi, che è cosa rara”. È da tempo opinione comune che l’autore delle Vite si riferisse alla Maddalena oggi conservata a Palazzo Pitti, opera sorprendente, sensuale, seducente, riprodotta da Tiziano stesso e dalla sua bottega in numerose varianti per soddisfare una clientela altolocata presso la quale ebbe un successo clamoroso. Un’opera amatissima soprattutto nell’Ottocento, tanto da conoscere innumerevoli copie, e che a Firenze si trova con certezza dalla fine del Seicento, ma con tutta probabilità da molto prima. Molte sono le congetture formulate sull’origine della tavola: quella che parrebbe esser la più accettabile la vuole dipinta in un periodo tra il 1533 e il 1535 per il duca Francesco Maria della Rovere, padre e predecessore del summenzionato Guidobaldo II, e stando a quest’ipotesi l’opera potrebbe essere giunta in Toscana nel 1631, in seguito all’accordo di matrimonio di Vittoria della Rovere e Ferdinando II de’ Medici e al susseguente arrivo a Firenze di parte delle collezioni roveresche, che costituivano parte della dote della nobildonna, allora una bambina.
Ma forse, al riguardante che si trovi al cospetto di quest’immagine così carnale, sontuosa e conturbante, poco interesseranno le notazioni di carattere storico: la formidabile invenzione di Tiziano, al primo impatto, è sufficientemente eloquente. La sua Maddalena è ritratta a mezzo busto, girata di tre quarti, colta in un momento di preghiera, con gli occhi rivolti direttamente a Dio, coperta da una pioggia di capelli biondi, mossi, luminosi, morbidi che paiono appena lavati, quasi che la donna abbia trovato il tempo e il modo di trovare un parrucchiere nella grotta, e descritti con la maestria d’un virtuoso intenzionato a evocare immediate sensazioni materiche. Uno splendido Giovan Battista Marino, che vergò una lirica Per una immagine di Maddalena di mano di Tiziano, coniò l’immagine delle “cadenti chiome” che fanno da “aureo monile” alla pelle color alabastro della santa. Le mani trattengono a stento la chioma ramata, che sul petto s’apre per concedere alla vista del malizioso osservatore un seno generoso e due capezzoli rosei e rigidi. Di fianco, l’immancabile vasetto per l’unguento, e dietro un paesaggio montano di notte, col cielo blu oltremare a sprazzi rischiarato da una luna che cerca di trovare, con soverchie difficoltà, una strada tra le nubi che la offuscano.
Tiziano dipinge la sua Maddalena con pennellate pastose che esaltano la sua fisicità imponente e statuaria, con tonalità calde e opulente che ne accentuano la vividezza e la sensualità, e con quel virtuosismo che, secondo Rodolfo Pallucchini, già denunciava “l’imminente crisi dell’artista”, vale a dire quell’impulso manierista che gli avrebbe fatto chiudere quel periodo della sua attività pienamente partecipe del “fermento aristotelico che aveva fecondato la cultura veneta tra il Quattro e il Cinquecento”, e nel quale Tiziano aveva considerato l’uomo e la natura “con ‘olimpica’ naturalezza, in senso ancora classico e rinascimentale”, pur non mancandogli l’occasione di dimostrare quanto le sue composizioni fossero in grado d’aprirsi al dramma, alla tensione.
Tiziano, Santa Maria Maddalena (1533-1535 circa; olio su tavola, 85,8 x 69,5 cm; Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina, inv. Palatina n. 67) |
Questa Maddalena nuda, che vive l’aperta contraddizione del suo erotismo e della sua totale dedizione alla divinità, rappresenta dunque una sorta di cesura tra due distinte stagioni dell’arte tizianesca. La critica s’è interrogata a lungo sulle possibili fonti che potrebbero aver ispirato Tiziano, sulle sorgenti dalle quali il cadorino potrebbe aver attinto preziosi spunti per la sua santa penitente, e molti, a partire da Wilhelm Suida già negli anni Trenta, hanno voluto evidenziare i possibili rapporti con alcune immagini analoghe del Giampietrino, leonardesco lombardo che, una decina d’anni prima, aveva dipinto una Maddalena simile, poi variamente replicata, il cui atteggiamento non si discosta da quello della santa di Tiziano: anche quella del Giampietrino è ritratta a mezzo busto, assume una posa identica, copre le nudità coi capelli ricci e castani, che però nell’operazione riescono meglio di quelli della penitente tizianesca, così che la floridezza delle sue carni risulti per lo più celata alla vista di chi la guarda. Il risultato è che la santa del Giampietrino risulta più castigata, e quella di Tiziano, anche qualora dovesse essere inquadrata in un rapporto di dipendenza con la Maddalena di Giovan Pietro Rizzoli, ne risulterebbe comunque più forte per la modernità della sua intonazione paganeggiante, per la novità dell’irruenza della sua materia e delle sue cromie.
E una possibile discendenza da un modello antico non sarebbe tuttavia sufficiente a dar ragione della portata dell’immagine che Tiziano concepì per il suo committente e, segnatamente, per la sua privatissima devozione. Forse, son da cercare nelle lettere i motivi che portarono Tiziano a immaginare la sua Maddalena.
È noto che Tiziano fosse grande amico di Pietro Aretino: loro due e il Sansovino costituirono quel “triumvirato” ch’ebbe l’obiettivo di lanciare le rispettive carriere presso i potenti del tempo. Nel 2007, la studiosa Élise Boillet ha suggerito una relazione che val la pena approfondire, accostando il quadro di Tiziano a una delle opere religiose dell’Aretino, l’Umanità di Cristo. Nel testo del letterato, la conversione della Maddalena è narrata con accenti immaginifici che richiamano alla mente la tavola del pittore: “Grande è il turbamento che muove tra gli astanti all’uscita della camera: Ella ne lo uscir di camera parve Citerea che uscisse del suo cielo, facendo abbassare le viste che a un tratto ferì con il lume de gli occhi, e con quello de le pietre, di che splendeva superbissimamente: ma rialzatesi le ciglia tenzionavasi se il vermiglio de le gote de la Aurora aveva dipinto le guancie di Maddalena, o se quello de le gote di Maddalena aveva colorite le guancie de la Aurora. Altri smarrito ne la bellezza de i suoi capegli afferma che quelli avevano dato il lucido all’oro, e non l’oro a quelli. Alcuno stava in dubbio se il sole toglieva il lume da i suoi occhi, o se gli occhi suoi lo prestavano al sole”.
L’Umanità di Cristo è un’opera del 1535 e non è dato sapere se rispetto all’immagine della Galleria Palatina abbia la primogenitura, ma poco importa: ciò che interessa è rilevare come il testo dell’Aretino e il quadro di Tiziano siano partecipi della stessa commistione tra elementi sacri ed elementi profani, delle stesse contaminazioni tra immagini dell’apparato divino cristiano e reminiscenze mitologiche: ne consegue una sovrapposizione pressoché perfetta tra la Maddalena e Venere. Una sovrapposizione che, nelle varianti autografe posteriori, sarebbe venuta meno: l’analoga opera oggi al Museo di Capodimonte, posteriore d’almeno una quindicina d’anni rispetto a quella di Palazzo Pitti, ritrae una Maddalena nella stessa posa, ma vestita. Una necessaria concessione all’imperante cultura postridentina. Ma questa contraddizione tra dimensione erotica e dimensione sacra, tra santa e dea pagana, forse non era stata pensata solo per il legittimo sollazzo del suo destinatario. Quest’ambivalenza può trovare, nell’immagine fiorentina, una sua compiuta risoluzione nel tema della penitenza e del pentimento, che consentono alla santa, che per Marino fu “quanto pria del folle mondo errante / tanto poscia di Cristo amata amante”, di mostrarsi a Dio nuda, rinnovata, pura, bellissima.
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERL'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).