“Paese collinoso con cielo che s’infosca”: è la frase che conclude la laconica scheda riservata alla Crocifissione di Andrea Previtali nel catalogo delle Gallerie dell’Accademia di Venezia compilato da Luigi Serra nel 1914. Il paesaggio, in quella scheda, è lasciato per ultimo, ma è forse il primo motivo per cui solitamente ci si perde di fronte a questa tela dell’artista lombardo. È una crocifissione forse piuttosto insolita, anche se la scena che si svolge in primo piano non ha niente d’inusuale. Cristo, com’è consuetudine iconografica tra Quattro e Cinquecento, è al centro della composizione, e stavolta è per di più solitario, neppure gravato dall’ingombro dei due ladroni ai suoi lati, così che la scena è tutta per lui, come accade peraltro in altre crocifissioni d’area veneta coeve. La Maddalena abbraccia il legno della croce e si scioglie in un mesto pianto, san Giovanni è visibilmente disperato, la Vergine allarga le braccia sconsolata, le pie donne stanno in ginocchio esprimendo il loro dolore in modo un poco più compassato. Fino a qua, niente di strano. Eppure è sufficiente volgere l’occhio oltre la collina del Golgota, oltre quei lecci che separano l’episodio sacro da tutto ciò che accade intorno, per entrare in un altro mondo, un modo profondamente diverso e completamente cambiato, per viaggiare lungo i secoli e i luoghi, per lasciare la Gerusalemme del primo secolo ed entrare nell’Italia di mille e cinquecento anni dopo.
Gli altissimi alberi mossi dal vento quasi accompagnano il riguardante verso ciò che succede alle spalle dei protagonisti: un cielo plumbeo, attraversato da minacciosi cumuli, promette temporali. Il rimando allegorico delle nubi non è misterioso: è il cielo che si fa partecipe della tragedia di Cristo. La campagna rigogliosa cede il posto a un borgo turrito sulla sinistra, che culmina col robusto mastio d’un castello che s’intravede tra le fronde delle piante. Più avanti, lungo le strade che conducono alla città, alcune scene che paiono quasi indecifrabili: cavalieri coi loro eleganti destrieri, strani personaggi che s’assembrano attorno a una lunga scala, stendardi che spuntano qua e là.
L’inserimento degli episodî sacri in floridi e verdicanti brani di paesaggio è un elemento tipico dell’arte di Andrea Previtali, e caratterizza la sua produzione fin dagli esordî: si guardi, a tal proposito, quella che allo stato attuale delle conoscenze è considerata la sua opera prima, la Madonna col Bambino in un paesaggio oggi conservata al Detroit Institute of Arts, o il brano paesistico che compare nell’Annunciazione di Ceneda, nel quale Crowe e Cavalcaselle avevano individuato “a fresh green tinge akin to that of Giorgione”, una “fresca sfumatura verde simile a quella del Giorgione”, pittore quest’ultimo cui Previtali, secondo i due grandi storici dell’arte di fine Ottocento, s’avvicinava per via della sua limpidezza, dell’uniformità delle sue campiture, delle sue patinature smaltate. Giulio Cantalamessa, nel 1897, una ventina d’anni la riscoperta della Crocifissione (fu segnalata dagli stessi Crowe e Cavalcaselle nel 1871, nella sacrestia della chiesa del Redentore di Venezia, benché la sua provenienza sia ignota, dacché quella chiesa fu costruita solo a partire dal 1577), si soffermava sul “gruppo di alberi foltissimi, nereggianti nel mezzo”, sul “paese ameno, picchiettato, a sinistra, da soldati a cavallo che per sentiero tortuoso, fra greppi e arbusti, si allontanano; a destra, da ebrei coperti di turbante e di zimarra, da operai e da altri soldati semicoperti dalla linea del poggio, sovra la quale emergono luminose le loro bandiere”.
Andrea Previtali, Crocifissione (1515-1520 circa; olio su tela, 132 x 215 cm; Venezia, Gallerie dell’Accademia) |
Gli elementi dello sfondo, benché possano rischiar d’apparire un inserto che stride con la scena principale, in realtà non sono un’invenzione di Previtali, anche se a lui si deve l’idea di dare un maggior respiro alla composizione sviluppandola in orizzontale e conferendo un’inedita rilevanza al paesaggio. Vedute simili si ritrovano in opere d’altri artisti veneti (in quelle del primo Giovanni Bellini, per esempio): servono per dare un’ambientazione all’episodio della crocifissione. La città, nella finzione, è dunque la stessa Gerusalemme, i cavalieri sono soldati romani (sugli stendardi si noterà la scritta “S.P.Q.R.”), la scala è un chiaro riferimento al martirio di Cristo, e i personaggi abbigliati con vesti dalle fogge orientali, ovvero gli “ebrei” di cui parla Cantalamessa, servono per conferire alla scena quell’esotismo che ben s’addice a un episodio occorso in una terra lontana. I veneti, ai quali è da avvicinare anche Andrea Previtali che a Venezia studiò a lungo, dovettero desumere questo modo di raffigurare la crocifissione dalle opere degli artisti nordici: per esempio, proprio alla Ca’ d’Oro si conserva una Crocifissione di Jan van Eyck, dipinta col concorso della bottega, dove la Gerusalemme che fa da sfondo alla vicenda ci appare quasi come una metropoli dell’antichità, con tanto di torri e grattacieli avanti lettera. E ugualmente nordico è quel perizoma che svolazza in tante volute irrealistiche, mosso dallo stesso vento che piega leggermente gli alberi: lo ritroviamo, identico ma riflesso, nella Crocifissione di Previtali della chiesa di Sant’Alessandro a Bergamo, un dipinto con cui quello di Venezia ha legami del tutto evidenti, così come palesi sono i rapporti con la Trinità con sant’Agostino e il beato Giorgio da Cremona della chiesa di San Nicola ad Almenno San Salvatore, che presenta lo stesso tipo di Cristo, a sua volta derivante, in una serie di continui rimandi di successive filiazioni, da quelli di Cima da Conegliano e di Giovanni Bellini.
Ulteriori suggestioni s’affacciano poi sul dipinto di Previtali: il bergamasco, infatti, aveva conosciuto per certo le incisioni di Albrecht Dürer, che aveva soggiornato a Venezia per un anno, dal gennaio del 1506 al gennaio del 1507. Città cosmopolita, Venezia intratteneva fitte relazioni commerciali (e culturali) con la Norimberga di Dürer, e per il tedesco non dovette esser difficile ambientarsi nell’aperta città lagunare, che divenne terreno fertile per le sue idee, accolte da un gran numero d’artisti, a cominciare dallo stesso Giorgione, che a Venezia rappresentò uno dei principali punti di riferimento per Previtali. L’elemento düreriano ricorre nell’arte del Previtali maturo, e la Crocifissione non costituisce un’eccezione: il paesaggio ha una certa attinenza con quello che compare nel terzo foglio dell’Apocalisse di Dürer, quello con san Giovanni portato in cielo, dove s’apprezza lo stesso motivo della città arroccata su un colle che digrada in diagonale verso il basso. La città di Dürer però è saldamente aggrappata a una scogliera, mentre Previtali risolve con più dolcezza la sua veduta, disponendo i suoi edifici lungo un pendio molto meno ripido e scosceso, e stemperando la ruvida visione düreriana in un paesaggio che ha quasi del pastorale.
Preme sottolineare che in Previtali il paesaggio non è un mero espediente narrativo: è uno dei protagonisti delle sue scene, e lo è soprattutto nei suoi dipinti che guardano alla pittura dell’Europa del nord. È un paesaggio che ha la funzione d’accentuare il carattere espressionista delle sue opere, contraddistinte, specialmente nelle battute finali della sua carriera, da una vena drammatica forte, quasi commovente, che qui viene caricata dalla natura che circonda la crocifissione e che sembra quasi partecipe del dramma di Cristo.
È opera di un pittore “invaghito della macchia lottesca”, affermava Cantalamessa: “c’è del Lotto la macchia facile e risolutiva”, benché non risolta con la stessa spontaneità e la stessa sicurezza del modello. Previtali è tuttavia tanto vicino a Lotto che prima del 1886, quando cioè Giovanni Morelli ristabilì autorevolmente la corretta paternità del dipinto, la Crocifissione era attribuita proprio a Lorenzo Lotto. Nel firmamento di Previtali è però forse la stella di Giorgione quella più luminosa. Si guardi, per esempio, il cielo nuvoloso: si noterà un bagliore sulla sinistra, come quello d’un lampo. Chissà che Andrea Previtali non abbia ricavato questo spunto da un dipinto che oggi il visitatore delle Gallerie può ammirare poche sale più in là: la Tempesta.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).