Quanto di più inestimabile al mondo. L'Immobile esistenza di James Ensor


Un viaggio a Ostenda per scoprire l’esistenza di James Ensor, tra le spiagge della città fiamminga e la casa dove visse il grande artista.

Livido e immobile, il Mare del Nord si estende come una distesa di piombo fuso, avvolto in una foschia grigia che sfuma nell’infinito. Le onde sono piatte, prive di vigore, quasi sospese in un eterno crepuscolo e riflettono un cielo carico di malinconia. Questo paesaggio, intriso di una silente desolazione, era laboratorio di studi e scoperte per l’artista James Ensor che dipinse spesso tempeste brutali e luci drammatiche, così simili alle ultime opere di William Turner e alla contrappuntistica musica di Richard Wagner. In una lettera al poeta Pol de Mont scrisse: “Mi chiedete, signore, se ho una devozione particolare per tale o tal altro maestro. Rembrandt mi è piaciuto tantissimo inizialmente, ma le mie simpatie sono andate, molto più tardi, a Goya e Turner. Fui affascinato dal trovare due maestri amanti della luce e della violenza”.

All’età di sedici anni, nel 1876, dipinse un piccolissimo olio su cartone dal titolo Badkoets op het strand (“Carretto sulla spiaggia”). La composizione, semplice e lineare, presenta una piccola cabina bianca su quattro ruote che riflette la luce siderea e malinconica del Nord Europa, mentre sullo sfondo si apre il paesaggio marino di Ostenda. Non ci è dato sapere se questa particolare carrozza fosse abitata o abbandonata, ma si può intuire fulmineamente come non sia solo una fredda imitazione del reale, quanto piuttosto un paesaggio interiore che cattura un’essenzialità quotidiana, in cui le delicate pennellate si aggrovigliano a una tensione psicologica, filtrata attraverso la personalità dell’artista.

Qualche anno più tardi, Ensor fece un sogno in cui si trovava a vivere in quella cabina vicino al mare: la pelle leggermente abrasa dal sole, la peluria del corpo ricoperta di salsedine e il cuore leggero. Il piccolo alloggiamento era completamente rivestito di madreperla e, ogni notte, si assopiva al fianco di una bellissima ragazza. Questa, però, fu solo una dolcissima fantasia. L’artista belga non prese mai moglie, mentre la sua unica figlia fu quella luce del Nord che permeava insistentemente in ogni dipinto. In un discorso del 1932 affermò: “Non ho figli, ma la luce è mia figlia, luce unica e indivisibile, luce pane per l’artista, luce mollica per l’artista, luce regina dei sensi, luce, luce, illuminaci! Dateci vita, indicateci delle nuove strade che conducono alla gioia e alla felicità”.

James Ensor, Badkoets op het strand (1876; olio su cartone, 17,5 x 22,5 cm; Anversa, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten)
James Ensor, Badkoets op het strand (1876; olio su cartone, 17,5 x 22,5 cm; Anversa, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten)
James Ensor, I bagni di Ostenda (1890; olio, guazzo e matite su tavola, 37,4 x 45,4 cm; Gent, Museum voor Schone Kunsten)
James Ensor, I bagni di Ostenda (1890; olio, guazzo e matite su tavola, 37,4 x 45,4 cm; Gent, Museum voor Schone Kunsten)

È il bagliore che, improvvisamente e senza fronzoli, si appropria delle sue opere, ci rimbalza dentro trovando comodamente il suo spazio e trasforma ogni luogo caricandolo di emozione e nostalgia. Ensor lasciò innumerevoli articoli, lettere e pamphlet sull’argomento in cui inseguiva sempre le stesse parole chiave che si ripresentano ossessivamente: “luce”, “libertà” e “visione”. Quest’ultima non dovrà essere letta in maniera esoterica, quanto piuttosto con occhio curioso, come lente attraverso cui guardare e immaginare il mondo e così: “La prima visione, quella volgare, è la linea semplice, secca, senza ricerca del colore. Il secondo momento è quello in cui l’occhio più allenato distingue i valori dei toni e le loro delicatezze”, afferma nelle sue Réflexions sur l’art del 1882, pubblicate su Le Plume nel 1889. “L’ultima è quella in cui l’artista vede le sottigliezze e i numerosi giochi di luce, i suoi piani e le sue gravitazioni”.

Ensor viveva a poche centinaia di metri dalla spiaggia e, forse per questo o per le continue passeggiate sulla costa nutriva un amore profondo e viscerale per il suo mare. Ripercorrendo i passi dell’immobile esistenza dell’artista, dovremmo dimenticare tutto ciò a cui siamo comunemente avvezzi in Italia: il suo è un pelago di onde cerulee che accarezza la lunghissima costa, un luogo piatto e livido che suscita un senso di monotonia e smarrimento, rievocando quel concetto di sublime kantiano che si manifesta proprio nella smisurata estensione rispetto al soggetto umano. Ma le imponenti dune, con l’aumento del turismo balneare, furono ben presto rimosse per fare spazio a piatti moli, passerelle di legno e distese infinite di cabine. L’artista protestò ferocemente, chiedendo più e più volte la cortesia di non deturpare il suo amato mare ma, come possiamo constatare oggi passeggiando sui 67 chilometri di costa belga, non fu mai ascoltato. La tanto odiata confusione permeò, così, l’opera a olio e matite colorate del 1890 I bagni di Ostenda, in cui è rappresentato un infinito numero di cabine da bagno e ancor più uomini, donne e bambini bloccati per sempre in un fugace momento di ozio e divertimento. Lo studioso di letteratura André De Ridder, scrisse come Ensor unisse “centinaia di questi invasori, insultando il mare, con i loro difetti e le loro grottesche, in una folle danza nell’acqua”. Realizzò una commedia dell’assurdo in cui sono messi in scena uomini, donne e bambini in pose grottesche ed equivoche che sembrano rievocare i Giochi di Bambini o i Proverbi di Pieter Bruegel il Vecchio. Arrampicatisi in cima alle cabine, tre uomini armati di binocolo scrutano le belle donne in riva al mare, mentre tra i bianchi fabbricati sono riportati discreti riferimenti al numero 69: uno di essi, infatti, porta il numero 68 e altre due cabine da bagno hanno come numeri un 6 e un 9. Il disegno, come prevedibile, suscitò grande scalpore all’epoca e fu ritirato durante un’esposizione de La Libre Esthétique à Bruxelles. Nel corso di una visita alla mostra, alla presenza degli artisti, il Re Leopoldo II si avvicinò ad Ensor e, secondo il suo stesso racconto, incuriosito e, dopo aver osservato attentamente l’opera, chiese al designer Octave Maus di esporlo in un luogo ben visibile all’interno della mostra. L’afflusso continuo di turisti non fece altro che enfatizzare il malcontento dell’artista solitario e incline alla critica sociale, che detestava il caos e la volgarità che i villeggianti portavano con sé.

Spiaggia di Ostenda. Foto: Francesca Gigli
Spiaggia di Ostenda. Foto: Francesca Gigli
Spiaggia di Koksijde. Foto: Francesca Gigli
Spiaggia di Koksijde. Foto: Francesca Gigli

L’odierna Ostenda deve la sua vocazione turistica alla cultura del bagno in mare come processo curativo, introdotta dagli inglesi quasi due secoli fa. Inizialmente, lo sviluppo del turismo fu graduale, favorito dalla creazione di nuove linee ferroviarie e tranviarie, ma ben presto i cittadini di Ostenda colsero l’opportunità di trarre profitto da questo crescente flusso di visitatori. La città si trasformò così da modesto porto marittimo a importante centro balneare e persino la famiglia di James Ensor, che gestiva un curioso negozio di souvenir, iniziò ad affittare stanze durante i mesi estivi per accogliere i turisti. Il padre dell’artista, James Frederic, era un distinto uomo inglese, colto, appassionato d’arte e musica, ma irrimediabilmente alcolista, mentre la madre, Marie Catherine Haegheman, era una piccola borghese fiamminga ostile all’attività creativa del figlio. La famiglia di lei gestiva, grazie soprattutto all’aiuto dell’instancabile nonna alla quale Ensor era estremamente legato, un negozio di curiosità, conchiglie, maschere, bibelots, e oggetti importati dall’Oriente.

A pochi passi dal litorale, percorrendo per soli cento metri la grigissima Vlaanderenstraat e girando verso van Iseghemlaan, ci si imbatte nell’edificio, ormai interamente ricostruito, ove il pittore creò il suo primo studio. Al piano terra si trovava il negozio di souvenir gestito dalla madre e la nonna, ma la morte fu cara amica dell’artista. Nel mezzo della Prima Guerra Mondiale, prese sua madre, solo un anno dopo, nel 1916, si appropriò del cuore della sorella, mentre nel 1917 le scivolò tra le braccia l’anima curiosa dello zio che abitava di fronte alla casa d’infanzia e allo studiolo dell’artista e che possedeva, anch’egli, un negozio di souvenir.

Ensor rimase irrimediabilmente solo, ma ereditò ogni cosa e si trasferì al numero 27 di Vlaanderenstraat, nella grande dimora dello zio, abbandonando sia la casa materna che il luogo dove creava le sue opere. L’edificio si distingue per le grandi vetrate che nascondono velatamente il bizzarro negozio di souvenir dove s’incontrano pesci palla rigonfi appesi come lampadari, ninnoli e conchiglie di ogni tipo, piatti, foto dell’artista, oscure maschere di carnevale e inquietanti diorama. Mentre si vaga nella penombra del negozio ci si troverà faccia a faccia con oscure sirenette dal corpo di pesce e volti mostruosi dai denti aguzzi, create assemblando tra loro parti di animali differenti.

Non risulterà certo un esercizio impossibile quello di infilarsi nei panni dell’artista mentre si sale all’interno dell’edificio e si scoprono gli arredi ricostruiti dopo un attento restauro, un riallestimento e l’estensione dei vari spazi. Nevrotico, bugiardo, schiavo dei propri incubi e affetto, sembrerebbe, da una misantropia patologica: questo era Ensor, e la sua casa pare riflettere la sua durezza respingente e il suo aspetto fortemente critico nei confronti dell’arte “borghese” del tempo. Gli spazi che abitava si propongono così: folli, ossessivi, sgarbati, eccentrici, ma allo stesso tempo colti ed estremamente eleganti. Continuando a girovagare tra le stanze della mente del pittore ci si ritrova dinanzi alla riproduzione dell’Entrata di Cristo a Bruxelles nel 1889 del 1888 (l’originale risiede al J.Paul Getty Museum di Los Angeles). Il dipinto venne appeso da James Ensor in quel salone blu dalle pareti apparentemente strette per ospitarlo con dignità. Ma venne fissato lì molto tardi. Prima della sua esposizione al Palais des Beaux-Arts rimase dapprima rinchiuso e arrotolato nello studio dell’artista senza che nessuno sguardo potesse profanarlo, se non quello di una manciata di amici e, solo quando ereditò la casa dello zio nel 1917, lo espose nel soggiorno.

James Ensor non rimase rinchiuso per tutta la vita nella piccola Ostenda, ma viaggiò senza mai allontanarsi troppo e visse per un periodo a Bruxelles per frequentare l’Accademia di Belle Arti che, purtroppo, si rivelò immediatamente una grande delusione. Nonostante egli avesse scelto come soggetto l’ingresso di Cristo a Gerusalemme durante la Domenica delle palme, ambientandolo nella conosciuta Bruxelles, il suo interesse non risiedeva tanto nella fede religiosa o in particolari questioni esistenziali, quanto piuttosto nei problemi sociali e umani. Cristo fa il suo grande ingresso nell’indifferenza della folla e risulta solo una delle tante figure confuse e senza volto. Incede a dorso del suo asino mentre attorno a lui militari, clero e persone mascherate, si dedicano a pratiche oscene. Cristo è Ensor, o meglio il suo autoritratto, che passa attraverso il modo senza creare troppo rumore, troppi sguardi ed è incalcolato, incompreso, invisibile: un lillipuziano che si confonde tra un’infinità di volti insulsi e banali.

Casa Ensor. Foto: Francesca Gigli
Casa Ensor. Foto: Francesca Gigli
Casa Ensor. Foto: Francesca Gigli
Casa Ensor. Foto: Francesca Gigli
Lo studio di Ensor
Lo studio di Ensor. Foto: Francesca Gigli
Souvenir shop
Souvenir shop. Foto: Francesca Gigli
Sirenette souvenir
Sirenette souvenir. Foto: Francesca Gigli

Anche gli interni, nella sua arte, risultano riflessioni dell’anima, tra luci e ombre, in bilico perenne tra rifugio e palcoscenico. La sua casa è musa silenziosa, all’interno della quale il belga orchestrava un’intensa sinfonia cromatica, plasmando il suo stile. Gli interni non solo riflettono, ma sfidano e mirano a superare l’Impressionismo. Sono un’arena ove l’artista esplora la psiche umana, sondando le profondità dell’animo con pennellate di luce e colore e le quattro mura diventano un cosmo dove la realtà si mescola all’immaginario e il quotidiano al trascendentale. Ensor ci invita a varcare la soglia, a perderci tra le pieghe della luce e dell’ombra e continuare il percorso tra le stanze. Le quantità di fotografie, lettere e riproduzioni risultano quasi disturbanti e l’occhio, stremato, non riesce ad aggrapparsi ad alcun dettaglio perché subito viene rapito da un altro quadro, un altro fantoccio, un altro strano lampadario o un’altra bambola inquietante. Ci si ritrova così sgarbatamente strattonati in quanto di più inestimabile esista al mondo: in quella mente di un artista che viaggiò ovunque, fra gli interni borghesi e le fitte e intime trame della mente, senza mai allontanarsi troppo dalla sua Ostenda.

Cambiando piano, si entra in più saloni asettici che differiscono fortemente dal resto della struttura, in cui si sono conservate le fotografie dell’artista, dove l’occhio trova momentaneamente un artificiale ordine. A differenza del suo nemico Fernand Khnopff, Ensor non realizzò mai delle fotografie che potessero servire, negli anni a venire, come documenti, ma quelle che egli utilizzò come fonte di ispirazione erano scattate da altri. Una delle sue prime opere basate su una fotografia (scattata dal fotografo di Ostenda, Louis Ferdinand Le Bon) fu il disegno Mio padre morto del 1887, oggi conservato al KMSKA di Anversa, di cui realizzò una versione a puntasecca l’anno successivo. Anche l’incisione del 1889, Il mio ritratto come scheletro, si basava su una fotografia (questa volta scattata da Ernest Rousseau Jr.) in cui l’artista si trovava nel retro della casa Rousseau a Bruxelles durante una delle sue tante visite.

Continuando l’esplorazione, sparse qua e là s’incontrano delle grandi case di bambola entro cui si può timidamente sbirciare e scoprire, per esempio, lo studio e la casa d’infanzia dell’artista, le cui mura si possono oggi intravedere volgendo lo sguardo verso una delle finestre che affacciano a nord sulla van Iseghemlaan. In quell’edificio, che oggi è stato demolito per fare spazio a un palazzo più alto e a specchio, Ensor dipinse le sue opere più famose, come Pittore di scheletri nel suo studio.

Nello squarcio urbano ov’è nato il suo sguardo, egli si rappresenta come uno scheletro pensieroso in una mansarda, in quello che fu il suo nido d’artista. Anche questa tela copia fedelmente un’istantanea che apparve per la prima volta a pagina 38 di La Plume, ma ne muta la posa: si rappresenta eretto davanti al cavalletto, con le gambe accorciate e in uno schema piuttosto classico. A distorcere l’ambiente, però, è il suo farsi ossa e polvere in un un luogo che ricorda il negozio di souvenir. Il sottotetto è pieno di maschere, teschi e oggetti insoliti. Tutte le opere presenti nella fotografia sono raffigurate, con minuzia, una per una sulla tela in una sorta di autocelebrazione della propria arte, dove aggiunse un solo dipinto non presente nello scatto: Dangerous Cooks.

Amava il suo vecchio atelier posto al di sopra della casa di famiglia, amava la sua rarefatta calma, il suo caos composto e le sue bizzarrie, ma soprattutto da lì poteva dipingere serenamente i tetti di Ostenda e l’occhio poteva perdersi in quella città che si stava trasformando con una velocità insopportabile a causa del turismo. Ensor, per tutelare il paesaggio e i monumenti pubblicò innumerevoli scritti e definiva i danni inferti, dai borghesi prima e dal turismo di massa poi, simili alla blasfemia e come “crimini contro la bellezza”. Sebbene fosse misogino, irriverente e nevrotico, egli manifestava una fervente passione e ammirazione per la natura, tanto che nella sua vita si prodigò per la difesa degli animali e contro la vivisezione. Era l’uomo ad essere corrotto dal vizio e dalle devianze ed era anche per questo che l’artista lo mascherava.

Ciò che doveva essere ricreato erano le percezioni, le esperienze o dati sensoriali esistenti solo nella cavità oscura del cranio di ogni persona. Come affermò il filosofo Hippolyte Adolphe Taine: “la percezione esterna è un sogno interno che dimostra di essere in armonia con le cose esterne: e invece di chiamare l’allucinazione una falsa percezione esterna, dobbiamo considerarli insieme”. E ciò che più mi colpisce, forse, di Ensor è proprio la rapidità con cui ha portato quest’idea alla crisi, notando, con chirurgica precisione, che l’intimità della percezione implica l’intelligibilità narrativa della pittura.

Una sua opera interessante, Les Masques scandalisés del 1883, trasforma un aneddoto familiare (il problema dell’alcol del padre di Ensor e l’effetto sulla madre) in una farsa mascherata mettendo in scena il conflitto, concentrandosi sugli occhiali neri della maschera femminile e sulla vacua sorpresa di quella maschile. I finti volti si appropriano del dramma interiore, ne sono inquietanti protagonisti, risultando esagerati ma freddamente impassibili. Simile è l’uso che Ensor fa del teschio che assomiglia quasi sempre a una maschera posta sopra un corpo in costume, privo di riferimenti moralistici e in nettissimo contrasto con colleghi come Arnold Böcklin o Max Klinger.

James Ensor, Mio padre morto (1888; incisione, 131 x 92 mm; Gent, Museum voor Schone Kunsten)
James Ensor, Mio padre morto (1888; incisione, 131 x 92 mm; Gent, Museum voor Schone Kunsten)
James Ensor, Il mio ritratto come scheletro (1889; incisione, 116 x 75 mm; Gent, Museum voor Schone Kunsten)
James Ensor, Il mio ritratto come scheletro (1889; incisione, 116 x 75 mm; Gent, Museum voor Schone Kunsten)
James Ensor, Pittore di scheletri nel suo studio (1896; olio su tela, 80,7 x 70,5 cm; Anversa, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten)
James Ensor, Pittore di scheletri nel suo studio (1896; olio su tela, 80,7 x 70,5 cm; Anversa, Koninklijk Museum voor Schone Kunsten)
James Ensor, Les Masques scandalisés (1883; olio su tela, 135 x 112 cm; Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique)
James Ensor, Les Masques scandalisés (1883; olio su tela, 135 x 112 cm; Bruxelles, Musées Royaux des Beaux-Arts de Belgique)

Nel settembre 1890, il drammaturgo simbolista e poeta belga Maurice Maeterlinck pubblicò su La Jeune Belgique un interessante pezzo di teoria letteraria dal titolo Menus propos sur le théâtre, in cui affermava come proprio il teatro fosse scenario miserabile e come “è la maschera provvisoria sotto cui ci affascina l’ignoto senza volto”. L’attore, secondo Maeterlinck comunica l’opera mediante la sua soggettività contingente e casuale, creando una contraddizione nella rappresentazione e trasformando il palcoscenico in un luogo di disgregazione del dramma. “La poesia desidera liberarci dal dominio dei nostri sensi e far prevalere il passato e il futuro, mentre l’uomo agisce esclusivamente sui nostri sensi e cerca di eliminare l’invasione”. Per questo venivano utilizzate le maschere fin dal teatro greco: per ovviare a un problema che Ensor demolisce. Le sue maschere sono intime, personali, ma contemporaneamente irraggiungibili e sberleffo a un pubblico che lo derideva. La loro genesi, però, è ben precisa e risale all’année terrible del 1887, quando morirono la nonna materna e poco dopo, in circostanze misteriose, il padre.

Le sue maschere attinsero a piene mani da artisti che tanto ammirava come Bosch, Brueghel e Goya. Ma Bosch metteva sotto il microscopio un’umanità peccaminosa, Brueghel quella senza filtri e Goya studiava la profonda oscurità dell’animo umano. Quelli di Ensor erano ridicoli e falsi volti che aveva conosciuto fin dall’infanzia. Grazie proprio al mestiere di famiglia, erano infinite le persone che, specialmente durante il carnevale, facevano la fila nel souvenir shop della madre per comprare dei travestimenti e provare a vincere il premio della città per la maschera più bella. Per quanto, come affermato più volte in queste pagine, quella di Ensor fosse una personalità controversa e introversa, non disdegnò mai di partecipare a quel concorso cittadino che vinse per due volte.

Potremmo ora immaginarci l’artista passeggiare tra le vie di Ostenda e guardare il divertente carnevale, mentre il suo cuore oscilla tra disprezzo e ammirazione. Non ebbe mai moltissimi amici, e gli artisti che bussavano alla sua porta venivano spesso accolti in maniera glaciale e sprezzante, ma qualcuno che gli fece compagnia durante la sua esistenza ci fu, come la famiglia Rousseau ed Emma Lambotte che scrisse al pittore molto spesso. In una lettera, in cui sembra condividere con Ensor la noia trasmessa dalle persone poco interessanti, descriveva gli ospiti di una cena in casa sua come “un gruppo di vecchi uomini grigi e le loro mogli altrettanto grigie". Era simile all’uomo di Ostenda per indole e idee e i due riuscivano a parlare sempre facilmente, per questo avrebbe voluto averlo accanto durante quelle tediose soirée. Ma almeno, con lei ad Anversa, in un posto ben visibile nella sala da pranzo, c’era il suo autoritratto, che poteva guardare durante la cena, immaginando le loro conversazioni.

Nonostante gli amici del pittore belga si potessero contare su una sola mano, sarebbe un esercizio assolutamente sbagliato, quello di immaginarlo costantemente solo e rinchiuso nella penombra del suo studio mentre intratteneva assurde conversazioni con le sue bambole e le sue maschere. Non si potrebbe essere più distanti: Ensor amava passeggiare tra le vie della sua città e, sempre a pochi passi da casa, nel 1928 divenne cofondatore di un cineclub (oggi smantellato) in cui venivano proiettati film d’avanguardia e dove poteva confondersi tra la gente, spiando i più giovani ed entrando nei loro pensieri. Amato e odiato, misantropo e dolcissimo, spigoloso e dal cuore d’ostrica, tanto si racconta di Ensor, ma mai troppo spesso si ricorda che era un uomo fatto di carne, ossa, sangue, bugie, maschere e contraddizioni, come ogni altra persona al mondo che mai si svela completamente, ma sceglie sempre oculatamente quale travestimento indossare. Era un uomo “simile a una statua”, si diceva all’epoca, poiché il suo incedere era deciso, ma rilassato e vestiva sempre di nero, come a voler divenire ombra o buco nero che cattura ogni luminescenza. Sedeva quasi ogni giorno, con alcuni conoscenti, nel Café Falstaff sul lato nord della Wapenplein (gravemente danneggiato durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale e divenuto oggi una pokeria, in continuità a quella costante spinta verso il turismo convulso), sorseggiava scotch o porto, a seconda delle giornate, e si perdeva ad ammirare e disprezzare i passanti, mentre il mare mormorava in lontananza.


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