L'arte di fermare il tempo: i ritratti di Ugo Mulas


Un viaggio nella ritrattistica di Ugo Mulas: la sua fotografia vive in un tempo sospeso e riesce a prolungare un gesto all’infinito. Le sue opere si possono vedere a Milano, a Palazzo Reale, alla mostra “Ugo Mulas. L’operazione fotografica”, fino al 2 febbraio 2025.

Da sempre, nella storia dell’uomo, le mani si sono rese eterne protagoniste, strumenti antichi e insostituibili che plasmano, trasformano, creano e distruggono con la sola forza del gesto. Nel laboratorio fotografico di Ugo Mulas, proprio questi abili strumenti, incisi da sottili tracce di esperienza, compiono un rito di alchimia visiva che si disvela nel silenzio della camera oscura e, lontane dalla luce invadente del giorno, diventano l’epicentro di ogni azione, la guida silenziosa di un processo che converte l’immagine in ricordo tangibile ed eterno. Ogni piega, ogni ruga, ogni imperfezione racconta storie di gesti assiduamente reiterati, di tocchi precisi e misurati che danno vita alla visione del fotografo danzando in equilibrio tra chimica e ombre delicatissime.

È proprio nel controllatissimo buio di questo spazio intimo che prende forma uno dei tanti esperimenti di Mulas che, con rigore analitico, dà vita alla settima delle sue Verifiche, Il laboratorio, dedicata a sir John Frederick William Herschel, lo scopritore dell’iposolfito di sodio utilizzato per il fissaggio delle immagini. “È la mia verifica del laboratorio”, scrive Mulas, “un’operazione in cui la macchina fotografica è esclusa e vengono messi in rilievo lo sviluppo e il fissaggio: un’operazione che volevo priva di ogni emozione e di una estrema secchezza e chiarezza, quale si può cogliere nell’appunto scientifico lasciatoci da Herschel”. In queste parole risiede la pura essenza della pratica fotografica, priva di emozioni e inutili orpelli, abbandonata nuda nella sua precisione estrema, ma donandoci un ritratto preciso e lucido dell’artista.

Mulas, nella freddezza di questo scatto mai realizzato, racconta di sé ancor meglio che in qualunque altro autoritratto: narra di un uomo estraniato da se stesso, che mai si vede, ma che guarda il mondo con un insaziabile bisogno di comprenderlo. E, così, nel suo laboratorio tutto si compie con le mani: sollevano i fogli facendo prendere loro luce, li posano sotto l’ingranditore, regolano la messa a fuoco con movimenti calcolati, li immergono nello sviluppo e poi nel fissaggio. Non vi è macchina fotografica a guidare questa operazione, e solo le mani sono le vere protagoniste che tracciano sul foglio l’impronta dell’immagine, ed “è per questo che, in una coppia di fotografie, ho voluto renderle unico soggetto: una mano immersa nello sviluppo, l’altra nel fissaggio, per dividere il foglio in due emisferi, ciascuno in un proprio stadio di creazione. La mano che partecipa allo sviluppo appare subito, in chiara definizione; l’altra emerge solo in seguito, quando il fissaggio rende eterna la metà bianca e immutabile la metà oscura”.

Nel 1970, a Ugo Mulas viene diagnosticata una malattia che lo porterà alla morte in soli tre anni e questo evento diviene solo la prima miccia che lo porta a condurre velocemente una profonda riflessione su un percorso già avviato, ma mai portato a piena realizzazione. Il fotografo, abbandonando il lavoro di documentazione, si dedica alla creazione di opere autonome che culminano nella celebre serie delle Verifiche. In questa ricerca estrema ogni scatto è un’indagine intima sulla natura stessa della fotografia: qui, l’oggetto si pone in contatto diretto con il negativo, e le fasi di sviluppo sono ridotte all’essenziale, spogliate di ogni artificio. Per Mulas, autodidatta dalla lunga esperienza, questa si rivela un’urgenza di chiarezza per giungere a una verità oggettiva, che si traduce in una riflessione sul gesto fotografico come atto puro. Così, nelle Verifiche, ogni scatto si svincola dalla mera funzione documentaristica per trasformarsi in oggetto di ricerca autonoma, dove elementi quali il negativo, la superficie sensibile e l’atto dello sviluppo sono elevati a simboli di una realtà poetica, ma autentica.

Di tale serie fanno parte L’operazione fotografica. Autoritratto per Lee Friedlander e Autoritratto con Nini. A Melina e Valentina (esposti assieme a molti altri ritratti, fino al 2 febbraio 2025, alla mostra Ugo Mulas. L’operazione fotografica al Palazzo Reale di Milano). Nella prima opera il fotografo mostra se stesso, o meglio la sua macchina, allo spettatore non più come narratore imparziale, ma come cantastorie del reale. Egli si pone dinanzi a una finestra ove è collocato uno specchio; la luce del sole crea l’ombra di un montante sulla parete, e, insieme, proietta anche l’oscurità creata dal corpo dello stesso artista. La macchina fotografica gli copre il volto, celandone i lineamenti e trasformandosi in omaggio a colui che, più di ogni altro, ha percepito il problema della macchina come barriera, e ha cercato di superare quel limite che il mezzo stesso impone nel processo di conoscenza e creazione: Lee Friedlander. “Forse”, afferma Mulas, “qui come nel successivo autoritratto con Nini, c’è l’ossessione di essere presente, di vedermi mentre vedo, di partecipare, coinvolgendomi. O, meglio, è una consapevolezza che la macchina non mi appartiene, è un mezzo aggiunto di cui non si può né sopravvalutare né sottovalutare la portata, ma proprio per questo un mezzo che mi esclude mentre più sono presente”.

Ugo Mulas, Verifica 7. Il laboratorio. Una mano sviluppa, l’altra fissa – A Sir John Frederick William Herschel (1970-1972). Fotografie Ugo Mulas© Eredi Ugo Mulas. Tutti i diritti riservati. Su concessione di Archivio Ugo Mulas, Milano – Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli
Ugo Mulas, Verifica 7. Il laboratorio. Una mano sviluppa, l’altra fissa – A Sir John Frederick William Herschel (1970-1972). Fotografie Ugo Mulas© Eredi Ugo Mulas. Tutti i diritti riservati. Su concessione di Archivio Ugo Mulas, Milano – Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli
Ugo Mulas, Verifica 13. Autoritratto con Nini. A Melina e Valentina (1972). Fotografie Ugo Mulas© Eredi Ugo Mulas. Tutti i diritti riservati. Su concessione di Archivio Ugo Mulas, Milano – Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli
Ugo Mulas, Verifica 13. Autoritratto con Nini. A Melina e Valentina (1972). Fotografie Ugo Mulas© Eredi Ugo Mulas. Tutti i diritti riservati. Su concessione di Archivio Ugo Mulas, Milano – Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli
Allestimenti della mostra Ugo Mulas. L’operazione fotografica. Foto: Giorgio Galimberti
Allestimenti della mostra Ugo Mulas. L’operazione fotografica. Foto: Giorgio Galimberti
Allestimenti della mostra Ugo Mulas. L’operazione fotografica. Foto: Giorgio Galimberti
Allestimenti della mostra Ugo Mulas. L’operazione fotografica. Foto: Giorgio Galimberti

Non sapremo mai con certezza se questo incessante bisogno di esserci, diventando spettatore e voyeur di se stesso, nasconda il timore di una morte già scritta e imminente; eppure, appare chiara la volontà di dar vita a opere d’arte autentiche, che superano il tormento tipico del fotografo e si aprono a pensieri estremamente lucidi, immersi in una foschia intensa e nell’urgenza febbrile del creare. Così, come volto sfocato e inaccessibile, contemporaneamente assente e presente si rappresenta nell’Autoritratto con Nini, in cui la moglie si staglia lucente dal nero che la circonda mentre il fotografo, in quel buio, sembra essere totalmente immerso senza alcuna volontà di emergere. “È a fuoco perché ero io a fotografarla, la vedevo così e così volevo vederla, perché voglio sempre vedere col massimo di chiarezza quello che mi sta davanti, e fotografare è vedere e voler vedere, prima di tutto”, afferma Mulas con quel volto per sempre fumoso, “perché c’è una sola parte del mondo sensibile che l’uomo, che può vedersi mentre guarda, secondo Merleau-Ponty, non riesce a vedere di sé: il viso”. A tale enigma, l’individuo può solo rispondere con immagini frammentarie: il ricordo di altre fotografie, il riflesso in uno specchio, qualche dettaglio casuale, ma resta sfuggente, come un’ombra sottile, una presenza che non può mai compiutamente afferrare ed è l’immagine di sé. Anche nel momento in cui il fotografo lascia la fotocamera per mettersi dall’altra parte dell’obiettivo, quella realtà non cambia, poiché continua a non poter cogliere interamente se stesso. Quando regola la messa a fuoco, tutto ciò che si trova davanti a lui appare perfettamente nitido, egli possiede il mondo e lo comprende, ma il suo viso resta assente, quasi a voler dimostrare che l’atto di conoscersi e guardarsi è per natura costantemente incompleto.

Esattamente come il filosofo Maurice Merleau-Ponty, Mulas esplora l’intreccio indissolubile tra il vedere e l’essere visti, tra il corpo e il mondo. E mentre il francese elabora il concetto di “carne” per definire la continuità tra il percipiente e il percepito, Mulas, attraverso la serie delle Verifiche, cerca di svelare l’essenza del mezzo fotografico come atto unico di esistenza e visione. Merleau-Ponty mette in fortissima discussione l’idea del mondo fisico come realtà oggettiva e fissa e sottolinea come la percezione originaria di ogni singolo individuo resti sempre fluida e mai riconducibile alla fredda razionalità cartesiana intesa come res extensa, distinta dalla res cogitans. Egli descrive come, ogni volta che sbatte le ciglia o muove gli occhi, il mondo sembri mutare leggermente, attribuendo tali rapidissimi cambiamenti a se stesso piuttosto che agli oggetti osservati e suggerendo una perpetua connessione tra percepito e percipiente, senza un filtro estraneo tra il corpo e la realtà. Il mondo e il soggetto, nel pensiero di Merleau-Ponty, così come nelle opere dello stesso Mulas, rimane intimamente e indissolubilmente intrecciato nel “legame della carne”, evidenziando come il corpo sia parte del mondo e punto di incrocio tra il visibile e il sentire, e come ogni percezione sia inseparabile dalla corporeità. Ed è proprio grazie a questa mancanza di separazione netta tra io e altro, tra dentro e fuori, che nelle opere del fotografo si crea costantemente un rapporto che integra vicinanza e differenza come accade con i famosissimi ritratti agli artisti e alla vita che scorre tra i tavoli del bar Jamaica a Milano.

Il fotografo si ritrova sempre a creare dei “tasselli di memoria” donando alle sue immagini un perpetuo senso di immobilità, poiché in esse il vivere si trasforma in assoluta e rarefatta quiete. Così egli si fa critico e interprete dell’arte del suo tempo riuscendo a spiegare, con piena chiarezza, chi siano tutti quegli artisti celati dietro le loro opere.

Sempre spinto a immortalare la banalità della vita, ritrae ora Piero Manzoni al bar di Brera nel 1953, ora lo scrittore Luciano Bianciardi e il fotografo Carlo Bavagnoli in una piccola camera da letto, intenti a scoprire la presenza malcelata del fotografo e infine un Joan Miró nel 1963 accanto al famoso Ritratto di giovane dama del Pollaiolo esposto al Museo Poldi Pezzoli. “Quando si fa il ritratto a una persona”, rivela Mulas, “si può assumere un’infinità di atteggiamenti verso chi fotografa. Non c’è ritratto più ritratto di quello dove la persona si mette là, in posa, consapevole della macchina, ciò verso il fotografo, come per ingannarli, dire: io sono qui, ma fingo di non sapere che voi ci siete, così la mia finzione sarà più credibile”.

La fotografia, quindi, non è solo un documento, ma deve essere una chiave di lettura, un atto di comprensione del mondo ove il fotografo ha il compito di trasmettere attraverso l’obiettivo ciò che percepisce, cercando di decifrare l’opera in un solo scatto. In questo senso, i ritratti di Duchamp non si limitano a essere semplici ritratti, ma hanno lo scopo di rendere visibile il suo atteggiamento mentale nei confronti dell’arte, quell’approccio che si manifesta in un silenzioso rifiuto del fare di un artista che sceglie coscienziosamente il silenzio come forma di espressione, che rifiuta il concetto di produzione incessante, trasformando il suo tacere in una nuova forma di creazione. Fotografare un tale soggetto, dunque, diviene una contraddizione poiché la fotografia, per sua natura, implica un atto di esistenza che Duchamp, con il suo distacco, rifiuta. Per questo, Mulas, preferisce catturarlo mentre cammina, poiché il camminare rappresenta l’essenza stessa della vita, un atto primordiale, libero dal bisogno di produrre e capace di esprimere l’essenza propria dell’esistere.

Ugo Mulas, Bar Jamaica, Milano (1953 - 1954). Fotografie Ugo Mulas © Eredi Ugo Mulas. Tutti i diritti riservati. Su concessione di Archivio Ugo Mulas, Milano – Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli
Ugo Mulas, Bar Jamaica, Milano (1953 - 1954). Fotografie Ugo Mulas © Eredi Ugo Mulas. Tutti i diritti riservati. Su concessione di Archivio Ugo Mulas, Milano – Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli
Ugo Mulas, Piero Manzoni, Bar Jamaica, Milano (1953 - 1954). Fotografie Ugo Mulas © Eredi Ugo Mulas. Tutti i diritti riservati. Su concessione di Archivio Ugo Mulas, Milano – Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli
Ugo Mulas, Piero Manzoni, Bar Jamaica, Milano (1953 - 1954). Fotografie Ugo Mulas © Eredi Ugo Mulas. Tutti i diritti riservati. Su concessione di Archivio Ugo Mulas, Milano – Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli

Tra gli scatti più iconici vi è quello di Duchamp anziano, seduto a un tavolo di cemento a Washington Square, davanti a una scacchiera priva di pezzi. Duchamp non la guarda nemmeno: essa diventa simbolo, segno che trascende il contesto abituale, colpita dalla luce che illumina un volto sereno ma consapevole della presenza del fotografo. In questi scatti, Mulas sembra voler catturare la natura dell’artista, che osserva la propria esistenza da lontano, più spettatore che attore, quasi a dimostrare quella sua indifferenza verso il fare.

Quando lo fotografa in visita al MoMA di New York, tra le sue stesse opere, Duchamp appare come un uomo fuori dal tempo, sospeso in un ponte tra passato e presente e quelle creazioni, che un tempo gli appartenevano, ora sembrano non essere più sue: Duchamp osserva da lontano, come se fosse divenuto parte dell’arte che ha contribuito a definire.

A New York, Mulas, parte da solo, con il desiderio di comprendere e testimoniare inoltrandosi negli studi senza conoscere la lingua, comunicando a malapena, cercando di non disturbare, di non intralciare il lavoro degli artisti. Ogni scatto per lui rappresentava l’opportunità di scoprire qualcosa di più profondo, di evitare quel consueto ritratto formale per cercare una visione più autentica del personaggio: la sua intenzione era di cogliere il legame tra l’artista e la sua creazione, cercando di intuire quale gesto o quale atteggiamento fosse cruciale nel processo che portava al risultato finale dell’opera. Nel caso di Newman, per esempio, il fotografo si rese conto che ritrarlo mentre dipingeva non sarebbe stato sufficientemente rivelatorio, poiché ciò che più di tutto lo colpisce è il rituale che precede la sua pittura: quell’ordine meticoloso con cui preparava lo studio e il suo modo paterno di proteggere la tela dai residui di colore. Anche il più semplice e banale dei gesti parla di una personalità rigorosa e curata, dall’eleganza del suo abbigliamento alla precisione dei suoi movimenti.

Totalmente differente è l’agire di Andy Warhol che dai racconti di Mulas “sembra sempre non fare niente” in quel suo studio dove regna il caos e in cui l’eccentrico artista “si muove con fare indifferente. Eppure è chiaro che tutto gira intorno a lui”. Per la prima volta questo atteggiamento accondiscendente, aperto a ogni proposta e pronto a farsi manipolare, mette in bilico ogni certezza del fotografo che si scopre intrappolato nei milioni di possibilità. Così, inizialmente intimorito, prende coraggio e utilizza l’artista come un manichino posizionandolo dapprima in mezzo alla serie Flowers sparsa alla rinfusa nella Factory, poi dinanzi a un grande specchio dove il protagonista sembra essere più lo stesso fotografo che il soggetto da rappresentare. D’altronde l’arte, come la fotografia, ormai è diventata qualcosa di differente che non si rifà solo alla superficie in cui risulta fissata, ma si appropria degli spazi mentali e gestuali rinunciando a una forma tradizionalmente imposta: è il gesto che produce l’opera e sono proprio quelle costellazioni di movenze che Mulas imprime per sempre nella storia, creando nitidi ritratti di artisti come Fontana, Calder, Burri e molti altri.

Ugo Mulas, Roy Lichtenstein, New York (1964). Fotografie Ugo Mulas © Eredi Ugo Mulas. Tutti i diritti riservati. Su concessione di Archivio Ugo Mulas, Milano – Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli
Ugo Mulas, Roy Lichtenstein, New York (1964). Fotografie Ugo Mulas © Eredi Ugo Mulas. Tutti i diritti riservati. Su concessione di Archivio Ugo Mulas, Milano – Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli
Ugo Mulas, Edie Sedgwick e Andy Warhol, New York (1964). Fotografie Ugo Mulas © Eredi Ugo Mulas. Tutti i diritti riservati. Su concessione di Archivio Ugo Mulas, Milano – Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli
Ugo Mulas, Edie Sedgwick e Andy Warhol, New York (1964). Fotografie Ugo Mulas © Eredi Ugo Mulas. Tutti i diritti riservati. Su concessione di Archivio Ugo Mulas, Milano – Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli
Ugo Mulas, Lucio Fontana, l’Attesa, Milano (1964). Fotografie Ugo Mulas © Eredi Ugo Mulas. Tutti i diritti riservati. Su concessione di Archivio Ugo Mulas, Milano – Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli
Ugo Mulas, Lucio Fontana, l’Attesa, Milano (1964). Fotografie Ugo Mulas © Eredi Ugo Mulas. Tutti i diritti riservati. Su concessione di Archivio Ugo Mulas, Milano – Galleria Lia Rumma, Milano/Napoli

I ritratti di Lucio Fontana ci porgono la testimonianza di un gesto che Mulas sentiva la necessità di comprendere. Quello che a un pubblico meno attento potrebbe sembrare un taglio veloce e distratto su una tela, rivela invece la personalità di un uomo che attende, a volte settimane intere, prima di aprire la superficie. Rivela la storia di un uomo che non riesce a regalare quell’azione così intima e personale agli occhi del fotografo suo amico, il quale rimane costretto a crearne una calcolata messa in scena. “Se mi riprendi mentre faccio un quadro di buchi”, rivela Fontana al fotografo, “dopo un po’ non avverto più la tua presenza e il mio lavoro procede tranquillo, ma non potrei fare uno di questi grandi tagli mentre qualcuno si muove intorno a me. Sento che se faccio un taglio, così, tanto per far la foto, sicuramente non viene... magari, potrebbe anche riuscire, ma non mi va di fare questa cosa alla presenza di un fotografo, o di chiunque altro. Ho bisogno di molta concentrazione. Cioè non è che entro in studio, mi levo la giacca, e trac!, faccio tre o quattro tagli. No, a volte, la tela, la lascio lì appesa per delle settimane prima di essere sicuro di cosa ne farò, e solo quando mi sento sicuro, parto, ed è raro che sciupi una tela; devo proprio sentirmi in forma per fare queste cose”. Mulas allora convince Fontana a fingere di fare dei tagli e così i due posizionano una tela nuova sulla parete, e “Lucio si è comportato come quando aspetta di fare un taglio, col suo stanley in mano, appoggiato alla tela, in alto come se il lavoro iniziasse in quell’attimo: lo si vede di spalle, si vede una tela dove non c’è ancora niente, c’è soltanto una tela e lui nell’atteggiamento di chi comincia a lavorarci sopra. È il momento in cui il taglio non è ancora cominciato e l’elaborazione concettuale è invece già tutta chiarita”. Solo dopo quella prima foto, in cui Fontana osserva la tela in religioso silenzio, e quella messa in scena di un taglio mai avvenuto, Mulas capisce con incontrovertibile certezza come la concentrazione, la cura e l’attesa del momento giusto definissero il vero significato dei suoi tagli, delle Attese. Subito dopo, sostituiscono la tela bianca con un quadro finito, segnato da un solo grande taglio. Fontana posiziona la mano nel punto terminale del taglio e, in una delle foto, la mano di Fontana viene mossa, “come se avesse proprio in quel momento completato la corsa: non si capisce che quella foto è stata appositamente creata”, in cui il taglio esiste già prima della fotografia.

È il grande gioco dell’arte: raccontare senza mai svelare pienamente tutte quelle trame sottili che vengono segretamente nascoste tra le pieghe di una tela. In un ritratto del 1968, sempre a Lucio Fontana, il fotografo crea una traccia della propria biografia utilizzando un primissimo piano sul grande occhio destro dell’artista che diviene un universo incastonato nel suo volto segnato dal tempo, un orizzonte in cui si leggono i capitoli della sua vita e ogni linea risulta la somma perfetta di tutte le attese. Nel profondo nero di quell’occhio, il fotografo appare come un’ombra riflessa, un visitatore in una dimensione intima e segreta, imprigionato in quel pozzo di memorie passate, come se il vecchio occhio l’avesse assorbito per un istante eterno, trattenendolo in un limbo in perenne lotta tra passato e presente. La fotografia, d’altronde, per Mulas vive in un tempo sospeso e riesce, più di qualsiasi altra arte, a fissare e prolungare un gesto, un ricordo, uno sguardo all’infinito, creando un istante immobile, ma mai lineare. Un’azione che, come sottolinea il saggista Roland Barthes ne La camera chiara, fa pensare alla morte poiché chi viene fotografato “non è più soggetto né un oggetto, bensì un soggetto che si sente diventare oggetto”.


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