di
Federico Giannini, Ilaria Baratta
, scritto il 07/11/2020
Categorie: Opere e artisti / Argomenti: Arte contemporanea - Novecento
Al MAMCO di Ginevra dal 1994 si trova la fedele ricostruzione dell'appartamento del critico e collezionista Ghislain Mollet-Viéville, che trasporta in Svizzera un brano della fervente Parigi degli anni Settanta.
Non sono molti i musei dentro ai quali si può trovare un intero appartamento. Uno dei casi più noti in Italia è il cosiddetto Appartamento Albini che si trova all’ultimo piano del Museo di Palazzo Rosso a Genova: il grande architetto razionalista Franco Albini lo allestì negli anni Cinquanta come abitazione dell’allora direttrice dei Musei Civici di Genova, Caterina Marcenaro, che l’avrebbe usato sia come abitazione sia come spazio di rappresentanza. Quando ci si trova dinnanzi a casi come questi, solitamente è perché tra il museo e l’abitante dell’appartamento c’è un rapporto solidissimo: è quello che accade a Palazzo Rosso ed è quello che accade in un altro singolarissimo caso di appartamento dentro un museo, quello del critico d’arte e collezionista Ghislain Mollet-Viéville (Boulogne-Billancourt, 1945) che trova spazio al terzo piano del MAMCO (Musée d’Art Moderne et Contemporain) di Ginevra, in Svizzera. La differenza principale tra l’Appartamento Albini di Palazzo Rosso e L’Appartement del MAMCO, al di là della natura delle opere che vi sono conservate e naturalmente dello stile degli arredi, sta nel fatto che quello di Palazzo Rosso fu effettivamente adoperato, mentre quello del MAMCO è una ricostruzione fedele dell’appartamento in cui Mollet-Viéville visse, dal 1975 al 1991, al numero 26 di rue Beaubourg a Parigi.
Mollet-Viéville ama tuttora definirsi un “agente d’arte”, ovvero una sorta di agente di commercio che però, invece di promuovere prodotti di altra natura, promuove opere d’arte, e nello specifico arte minimalista e concettuale, attraverso conferenze presso musei, università, aziende, attraverso articoli sulla stampa, organizzazione di mostre e tante altre modalità. Il suo stesso appartamento era stato centrale per le sue attività, dal momento che veniva regolarmente aperto al pubblico e ospitava spesso mostre degli artisti che Mollet-Viéville intendeva promuovere. L’idea di questo stravagante collezionista aveva un preciso fondamento: fare quello che i musei non facevano. E il perché è piuttosto chiaro: in un’intervista del 1992, Mollet-Viéville ricordò che, nel 1975, ospitò un’azione di uno dei più discussi e sovversivi artisti della Parigi di quel tempo, il rumeno André Cadere, attorno al concetto di “disordine stabilito”. La performance, ha ricordato Mollet-Viéville, “non senza una sua logica terminò con una rissa scatenata dall’arrivo di un drappello di musicisti rock nell’appartamento. Un museo avrebbe avuto difficoltà a organizzare un’azione di questo tipo, vale a dire presentando le vette più avanzate del pensiero su un dato problema e contemporaneamente la sua più infima manifestazione, in tempo reale”. Per Mollet-Viéville, i luoghi della cultura istituzionale hanno dei limiti, primo tra tutti il fatto che il pubblico s’avvicina all’opera d’arte secondo i canoni dell’esposizione, che finiscono per “intrappolare le opere”, con la conseguenza che spesso i visitatori faticano a capire le opere e le azioni di artisti che escono da certi canoni che tipicamente associamo all’arte.
Poi, nel 1992, il trasferimento nel nuovo appartamento, al numero 52 di rue Crozatier alla Bastiglia, un’abitazione che, al contrario di quella di Beaubourg, non vede la presenza di neppure un’opera d’arte: “al momento non ho niente da mostrare e lo sto mostrando”, come da titolo d’una sua mostra del 1985. La collezione che faceva parte della casa di Beaubourg è dunque finita al MAMCO di Ginevra fin dalla data d’apertura del museo, il 1994 (data che coincide con l’apertura al pubblico de L’Appartement), e poi tra il 2016 e il 2017 le opere sono state in gran parte acquisite del museo ginevrino. Si tratta di un insieme di 25 lavori di artisti della prima generazione dell’arte minimalista (Donald Judd, Carl Andre, Dan Flavin, Daniel Buren, John McCracken e altri) e dell’arte concettuale (come Joseph Kosuth, Sol LeWitt, Lawrence Weiner, Robert Barry, On Kawara, André Cadere). Dunque, da una parte, artisti che propongono un’arte totalmente slegata da qualsiasi intento non soltanto figurativo ma anche narrativo, fondata sulle forme elementari, mentre dall’altra artisti che sfidano le convenzioni con opere la cui idea assume una rilevanza maggiore rispetto al contenuto estetico.
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L’appartamento di rue de Beaubourg negli anni Settanta
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Ghislain Mollet-Viéville nell’appartamento di rue de Beaubourg negli anni Settanta
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L’Appartement del MAMCO di Ginevra, salone. Ph. Credit Annik Wetter
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L’Appartement del MAMCO di Ginevra, salone. Ph. Credit Finestre sull’Arte
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L’Appartement del MAMCO di Ginevra, ingresso. Ph. Credit Finestre sull’Arte
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“Rispetto alle altre sale del MAMCO dove sono proposte diverse modalità espositive delle stesse forme d’arte”, ha scritto la critica d’arte Valérie Mavridorakis, “l’appartamento mette alla prova queste ultime attraverso l’inserimento in un universo privato quotidiano. Così, quando i suoi abitanti effimeri, ovvero i visitatori, entrano in questo spazio, possono stabilire con le opere relazioni più intime, a margine dell’esperienza dello spazio museale pubblico”. Sono sostanzialmente tre, secondo Mavridorakis, i criterî che hanno guidato le scelte di Ghislain Mollet-Viéville nella creazione del suo universo estetico: in primo luogo, le opere si trovano in una sorta di habitat naturale, abbandonando tutti i classici criterî espositivi (spazio, illuminazione, basi, cornici) dando luogo a un’esperienza più libera e più immediata. In secondo luogo, il collezionista ha basato le sue scelte cercando di dar vita a un lessico di forme elementari e logiche che rifuggono completamente il figurativismo e la narrazione. Da ultimo, “quest’arte”, spiega Mavridorakis, “stabilisce protocolli che sono al contempo vincolanti e liberi: i neon possono essere sostituiti, i disegni murali cancellati, le fotografie distrutte e ritirate, se ci si attiene alle indicazioni dell’artista. Così, il collezionista diventa in parte un produttore. Tornano in gioco il fare e il saper fare. E spetta al collezionista dar forma alle sue opere nel contesto della loro esistenza”.
L’Appartement è stato allestito in accordo con le idee di Mollet-Viéville, per risolvere in parte l’evidente contraddizione generata dalla presenza di un appartamento all’interno di un museo (e che viene dunque visitato da un pubblico che si muove secondo le dinamiche di un museo, sebbene il MAMCO di Ginevra sia un moderno museo d’arte contemporanea in continua evoluzione): si tratta dunque di uno spazio sobrio, spoglio, quasi completamente vuoto come lo era la dimora di rue de Beaubourg, dove ciò che conta sono soprattutto le idee, affinché l’appartamento ricostruito a Ginevra continui a essere quel fervido luogo di scambio, di discussione, di confronto e anche di anticonformismo che era l’appartamento vero a Parigi. Ed è proprio per queste ragioni che L’Appartement sfida l’idea stessa di museo, come ha ben spiegato il direttore del MAMCO, Lionel Bovier. “Paradossalmente”, afferma il direttore, “l’appartamento riunisce una collezione in un ambiente piuttosto domestico all’interno di un museo di tipo industriale”. Il MAMCO ha infatti sede dentro un edificio che era un tempo una fabbrica di meccanica di precisione, e quando fu aperto si decise di non intervenire in maniera massiccia sulla struttura (i visitatori noteranno, per esempio, che i pavimenti e le scalinate non sono stati toccati, sono ancora quelli della fabbrica): si tratta pertanto di uno spazio che è molto coerente con le opere esposte nell’appartamento. L’idea di Christian Bernard, direttore del MAMCO quando cominciarono i lavori di allestimento dell’Appartement, spiega Bovier, “era quella di introdurre il dubbio all’interno del percorso museale, ricostruendo l’appartamento di un collezionista. In altri termini, ha spostato uno spazio di cui molti francesi, incluso il collezionista, avevano fatto esperienza negli anni Settanta (un’esperienza rimarchevole, perché si trattava di uno dei pochi luoghi in Francia che difendevano allo stesso tempo l’arte minimalista e l’arte concettuale). E lo spostamento di questo spazio all’interno del museo da una parte ristabilisce quell’esperienza, ma dall’altra mette in discussione il museo. Ovvero, ci si trova in un museo di tipo industriale, con le sue sale ‘white cube’, e improvvisamente ecco tappeti, mobili e finestre che ricordano, assieme alla disposizione delle sale, un appartamento. Dal mio punto di vista, non si tratta di un gioco intellettuale: è un’esperienza pragmatica e strutturale che in genere viene percepita dal pubblico come un elemento di disturbo della visita, un cambio di stato della visita".
Ed è proprio questo uno dei punti salienti della visita all’Appartement oltre che uno dei suoi aspetti più interessanti. “Si tratta di regole e aspettative che normalmente vengono cancellate dal discorso del museo. Quindi se riusciamo a esporre le opere nel miglior modo possibile e nello stesso tempo a rendere tangibile e visibile il fatto che facciano parte del museo e che alla loro base esiste una narrazione ed esiste un preciso contesto, credo che abbiamo svolto un lavoro intelligente”. E in effetti si tratta di un luogo che stravolge il normale percorso del museo, perché entrandovi sembra di lasciare il museo ed entrare in uno spazio di tutt’altra natura: c’è un portone d’ingresso, ci sono i mobili, c’è un grande divano (dove ci si può anche sedere), c’è una camera da letto, c’è la televisione. E le opere sono esposte secondo il gusto di Mollet-Viéville: “niente quadri, niente basi, niente cornici, niente faretti. I ‘dipinti’ direttamente appoggiati al muro, le scultura a terra. L’ideale sarebbe stato presentare opere di Barry, LeWitt, Weiner realizzate direttamente sulle pareti”. Col risultato che anche le opere vivono in maniera diversa: quest’arte, afferma Mollet-Viéville, “viene percepita come un’arte intellettuale destinata unicamente ai contesti asettici delle gallerie o dei musei, ma in realtà può essere anche, in un certo modo, arte da vivere”.
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L’Appartement del MAMCO di Ginevra, salone. Ph. Credit Annik Wetter
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L’Appartement del MAMCO di Ginevra, salone. Ph. Credit Annik Wetter
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L’Appartement del MAMCO di Ginevra, sala da pranzo. Ph. Credit Annik Wetter
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L’Appartement del MAMCO di Ginevra, sala da pranzo. Ph. Credit Julien Gremaud
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L’Appartement del MAMCO di Ginevra, camera da letto. Ph. Credit Annik Wetter
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Ma quali sono, nel dettaglio, le opere che il visitatore incontra durante il suo giro nell’Appartement? Si viene accolti da una scultura di Carl Andre (Quincy, Massachusetts, 1935), intitolata 10 steel row: una sorta di tappeto di metallo creato con dieci semplici lastre di acciaio industriale, che non hanno altro compito se non quello d’invitare l’ospite all’interno della casa, attraverso una struttura a cui Andre è molto legato perché i moduli che la compongono non hanno tra loro rapporti gerarchici di posizione o di volume e qualunque modulo si può sostituire senza problemi. Di fronte, sulle pareti, è Riflesso di Daniel Buren (Boulogne-Billancourt, 1938), strisce di tela rossa dipinta applicata direttamente sugli angoli formati dai muri: un’opera che, come l’affresco di un edificio antico, dipende totalmente dal luogo che la conserva perché ogni elemento è in rapporto con quelli situati sugli altri angoli. Si passa dunque nel salone, il cuore dell’appartamento, dove s’incontrano alcune delle opere più note: le più appariscenti sono di sicuro i due Incomplete Open Cubes di Sol LeWitt (Hartford, 1928 - New York, 2007), dei quali esistono diversi esemplari conservati in varie collezioni di tutto il mondo. LeWitt aveva anche affermato che “la più interessante caratteristica di questi cubi sta nel fatto che sono opere relativamente poco interessanti. Paragonata a qualsiasi altra forma tridimensionale, il cubo manca di qualunque forza aggressiva, implica assenza di movimento, e poiché è una forma standard non è richiesta alcuna abilità da parte dell’osservatore. Si capisce immediatamente che un cubo rappresenta un cubo, figura geometrica di per sé incontestabile”. Eppure, anche un cubo può invece diventare un oggetto interessante: intanto, perché la sua struttura può essere scomposta (tanto che, con l’aiuto di alcuni matematici, LeWitt trovò più di un centinaio di possibili variazioni). E poi perché il cubo incompleto suggerisce alla nostra capacità immaginativa di ricomporre la struttura completa. E nell’appartamento, peraltro, i cubi sono sistemati in maniera da essere in linea col tavolino del salone, in perfetta continuità di forme.
Dalla forma geometrica si passa alle parole: sulle finestre troviamo un’opera concettuale di Lawrence Weiner (New York, 1942), In and out - Out and in - And in and out - And out and in, che riporta questa sequenza di parole sui vetri. Si tratta di una delle opere più note dell’artista statunitense, anche perché alla sua base sta uno degli elementi fondanti dell’arte concettuale: “quello che fa un’opera d’arte è più importante del modo in cui è stata fatta”, afferma l’artista. E in questo caso la dimensione su cui il lavoro si concentra è il rapporto tra esterno e interno, tant’è che Mollet-Viéville ha deciso d’installarla direttamente sulla finestra (con la parola “In” incollata sul vetro interno e “Out” sul vetro esterno), che almeno dal romanticismo in poi è simbolo di tutte le tensioni che attraversano la soglia tra dentro e fuori. Il salone ospita poi Neon di Joseph Kosuth (Toledo, Ohio, 1945), una delle classiche opere concettuali dell’artista statunitense che riflettono sul significante e sul significato: tuttavia, mentre nella maggior parte dei casi lo fanno in tre momenti separati (l’oggetto vero, la sua riproduzione e la parola che lo definisce), in questo caso l’oggetto è tutto assieme, vale a dire il neon in quanto oggetto, in quanto definizione verbale, e in quanto luce che da esso promana e che dunque riflette sulla parete una riproduzione in tempo reale dell’opera. Ci sono anche quadri: sulla parete che conduce verso la sala da pranzo troviamo 100% Abstract dell’inglese Mel Ramsden (Ilkeston, 1944), un’opera astratta nel vero senso della parola dato che l’artista, invece di raffigurare una scena o un oggetto, riempie la tela con la descrizione verbale dei materiali adoperati per creare l’opera.
Si passa poi nella sala da pranzo, dove troviamo una delle barre colorate di André Cadere (Varsavia, 1934 - Parigi, 1978), le opere che l’artista era solito lasciare alle inaugurazioni delle mostre dei colleghi per disturbare e sovvertire il milieu culturale della Parigi degli anni Settanta, e poi un altro dipinto di Ramsden, Guaranteed painting (una specie di certificato che invece che garantire l’autenticità dell’opera... garantisce le sue misure) e un’opera monocroma di John McCracken (Berkeley, 1934 - New York, 2011), un grande rettangolo di resina di poliestere verde, oggetto a metà tra dipinto e scultura che studia le relazioni della forma e del colore con lo spazio che li accoglie. Dopo la visita al locale adibito a ufficio si torna nel salone da dove si passa poi nell’anticamera: qui, la parete è decorata con un’altra opera di Weiner (From white to red - From wood to stone - From sea to sea), e con un neon di Dan Flavin (New York, 1933 - 1996), intitolato Blue and red fluorescent light, dove la superficie dell’opera è determinata anche dalla luce che viene emessa dal neon, facendo sì che l’opera risulti dunque delimitata dallo spazio che la ospita, e che lo spazio a sua volta venga invaso (e quindi trasformato) dall’opera d’arte, con l’obiettivo di abolire qualsiasi barriera tra l’ambiente e l’oggetto che l’ambiente espone (così che non si abbia più un’opera, bensì una “situazione” o, come direbbe Mollet-Viéville, “un luogo di esperienze percettive legate allo spiazzamento dell’osservatore”). In più, al contrario delle opere d’arte tradizionali, quella di Flavin, essendo in parte composta di luce, rimuove il concetto di contatto con l’opera, introducendo di fatto la sua smaterializzazione.
Si giunge dunque, infine, alla camera da letto. Sulla parete troviamo appesa, intanto, una sorta di mensola, opera di Donald Judd (Excelsior Springs, Missouri, 1928 - Manhattan, 1994), intitolata Stainless steel, ovvero “acciaio inossidabile”, il materiale di cui è composta: è uno dei tipici volumi geometrici tridimensionali, in forme elementari e realizzati con materiali industriali, che popolano l’arte di Judd e che costituiscono la sua risposta ai secolari problemi della storia dell’arte (“le tre dimensioni”, scrisse l’artista nel 1967, “sono uno spazio reale. Questo risolve i problemi d’illusionismo e dello spazio letterale, lo spazio che circonda o che è contenuto nei segni e nei colori: il che significa che ci siamo sbarazzati delle reliquie più rilevanti e più discutibili di tutta l’arte europea”). Sulla parete contigua, compare uno dei cosiddetti date paintings del giapponese On Kawara (Kariya, 1932 - New York, 2014), opere che affrontano il tempo attraverso la riproduzione, sulla tela, della data stessa in cui il dipinto viene prodotto (e in cui dunque il tempo viene fissato), modalità attraverso cui il pittore intende fermare il presente e consegnarlo al futuro. Infine, sul comodino, si noterà la presenza di una barra in acciaio lucido: si tratta di High energy bar di Walter De Maria (Albany, 1935 - Los Angeles, 2013).
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Carl Andre, 10 Steel Row (1967; dieci moduli d’acciaio, 1 x 300 x 60 cm; Ginevra, MAMCO)
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Daniel Buren, Riflesso, une peinture en 5 parties pour 2 murs (settembre 1980; strisce di tela rossa e bianca, dimensioni variabili in funzione del muro, qui 183,5 x 140 cm; Ginevra, MAMCO)
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Sol LeWitt, Incomplete Open Cube. Seven Part Variation n° 1 (7-1) (1973-1974; alluminio laccato, 105 x 105 x 105 cm; Ginevra, MAMCO)
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Joseph Kosuth, Neon (1965 circa; neon, 10,5 x 35,5 x 4,5 cm; Ginevra, MAMCO)
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Mel Ramsden, 100% Abstract (ottobre 1968; ingrandimento su tela, 48 x 64 cm; Ginevra, MAMCO)
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André Cadere, Barre de bois rond (25 gennaio 1976; 52 segmenti di legno rotondo laccati di nero, rosso, blu e bianco, 208 x 4 cm; Ginevra, MAMCO)
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John McCracken, Spiffy Move (1967; resina di poliestere su fibra di vetro e legno, 264,5 x 46 x 8 cm; Ginevra, MAMCO)
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Dan Flavin, Senza titolo (Blue and Red Fluorescent Light) (1970 circa; neon, 122,5 x 61,5 cm; Ginevra, MAMCO)
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Donald Judd, Stainless Steel (1965; acciaio inossidabile, 15,2 x 68,2 x 61 cm; Ginevra, MAMCO)
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Walter De Maria, High Energy Bar n° 78 (1966; acciaio inossidabile, 3,7 x 35,7 x 3,7 cm; Ginevra, MAMCO)
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Ma per quali ragioni Mollet-Viéville ha finito per trasportare il suo appartamento da Parigi a Ginevra decidendo di ricostruirlo in un museo? È lo stesso “agent d’art” che ha ricordato le circostanze in cui cominciò quest’avventura, nell’intervista rilasciata a Lionel Bovier e Thierry Davila per la pubblicazione L’Appartement, al momento la più monografia sullo spazio del MAMCO, pubblicata nel febbraio del 2020. “Era il 1993”, ricorda Mollet-Viéville, “e Christian Bernard venne da me perché dovevo prestargli alcune opere della mia collezione. Stava preparando l’apertura del suo nuovo museo, il MAMCO, e desiderava ottenere dei prestiti dai collezionisti per dar vita a un allestimento mirato. Alla sua richiesta gli risposi dicendo che poteva scegliere dalla mia collezione tutto ciò che voleva perché, nel mio nuovo appartamento alla Bastiglia, non avrei messo alcuna opera, al fine di mostrare l’estetica di uno spazio vuoto, testimone di un arte non più legata alla natura convenzionale dei suoi oggetti. La reazione di Christian fu immediata. Voleva prendere in prestito tutte le opere che aveva visto nel mio appartamento di rue Beaubourg e, logicamente, mi diceva che l’ideale sarebbe stato ricostruire lo spazio in cui vivevo per presentare la mia collezione in quanto opera globale. Per puro caso, al terzo piano del museo, ci sono tre grandi finestroni vetrati che somigliano alle finestre del mio appartamento di rue Beaubourg ed è a partire da loro che è stata disegnata e realizzata la ricostruzione delle pareti e dei mobili”.
La ricostruzione fedele al 100% non era possibile, ma il grado d’approssimazione è elevatissimo: Mollet-Viéville ha dichiarato che i suoi amici che erano stati a casa sua, visitando il MAMCO per la prima volta sono rimasti stupiti dal grado di verosimiglianza della ricostruzione. La configurazione degli spazî è infatti identica a quella dell’appartamento di Beaubourg, i mobili (che Mollet-Viéville vendette nel 1992) furono riprodotti in forme uguali a quelle degli originali, la disposizione degli oggetti nell’appartamento seguiva, ovviamente, quella che il collezionista aveva immaginato per la sua casa. E alla fine, L’Appartement è finito per diventare lui stesso un’opera d’arte concettuale, dove l’idea è più importante dell’aspetto esteriore, ma dove quest’ultimo concorre a esprimere le idee del suo creatore: “un insieme coerente col mio stile di vita e coerente con le opere d’arte minimalista e concettuale della mia collezione”. E quell’appartamento che negli anni Settanta ospitò gli artisti e le personalità dell’aggiornatissimo contesto culturale parigino dell’epoca, oggi è a disposizione di tutti coloro che passano da Ginevra.
Bibliografia essenziale
- Lionel Bovier, Thierry Davila, Patricia Falguières, Ghislain Mollet-Viéville, L’APpartement, Les Presses du Réel, 2020
- Pierre-Nicolas Ledoux, Ghislain Mollet-Viéville, Alain Pacadis, Jacques Serrano, GMV. Is there any Ghislain Mollet-Viéville?, Les Presses du Réel, 2011
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