L'anticonformismo scomposto dell'Annunciazione di Girolamo Mazzola Bedoli


Apprezzata ma anche stroncata dalla critica, l’Annunciazione di Girolamo Mazzola Bedoli, ora al Museo Nazionale di Capodimonte, è comunque un dipinto molto affascinante, tra i prodotti più singolari del manierismo più intellettualistico.

Gli occhi di chi arriva nella sala 12 del Museo Nazionale di Capodimonte sono tipicamente catturati dallo sguardo misterioso e ammaliante dell’Antea del Parmigianino, o da quello fisso e penetrante del Galeazzo Sanvitale che le sta appeso a fianco, altro capolavoro del fantasioso parmense. S’indugia poi sugli altri lavori del giovane Mazzola, ci si sofferma su quelli del Correggio, e poi si scorrono per dovere di firma le minuterie di Dosso Dossi e del Garofalo appese sulla parete opposta. Qualcuno magari si sorprenderà nel constatare che il Ratto della Sabina al centro della sala è un bronzetto del Giambologna. Chissà quanti invece si lasciano incantare dall’anticonformismo scomposto e seducente dell’Annunciazione di Girolamo Mazzola Bedoli, che se ne sta appesa in mezzo ad altri cinque quadri, e compare quando i passi del visitatore sono già indirizzati verso i bagliori dell’enorme Madonna di Annibale e Agostino Carracci, il potente “d’après Correggio” che chiude la sala dedicata alla grande pittura emiliana della collezione Farnese. Chissà quanti ne ammirano la composizione così ardita e balzana, quanti apprezzano la minuzia lenticolare di certi dettagli, la bellezza cristallina dell’angelo e della Vergine, chissà quanti vengono conquistati dallo spettacolare brano di controluce che s’impone come manifesto dell’estro anticlassico della sua pittura, sfida contro qualunque convenzionalismo.

È, in effetti, una delle opere più interessanti della collezione, anche se spesso rischia di passare inosservata, perché attorniata da capolavori dei più grandi nomi della storia dell’arte. Oltre che da opere meno forti, ma sicuramente più risolte, più chiare, più orientate anche verso il gusto dell’osservatore contemporaneo. Pensare che nel 1970 Evelina Borea, nella voce dedicata a Mazzola Bedoli nel Dizionario biografico degli italiani, nel classificare l’Annunciazione tra i capolavori del pittore cinquecentesco, oltre che tra “i dipinti più significativi […] del filone più intellettualistico della maniera”, lamentava il fatto che questa e altre opere fossero trascurate dalla critica. Eppure poche opere incarnano meglio le sue qualità: grande amico di Francesco Mazzola detto il Parmigianino, Girolamo Bedoli ne aveva sposato una cugina ed era diventato suo parente, finendo così per aggiungere il cognome Mazzola al suo. Non ha ottenuto la stessa fama del Parmigianino perché, nonostante avesse qualche anno più del cugino acquisito, per tutta la sua carriera guardò al giovane collega e alla rivoluzione dirompente che le sue opere avevano inaugurato. Fu poi un pittore molto discontinuo, capace di lampi folgoranti come di lavori talvolta stanchi e ripetitivi, perché richiestissimo da una committenza locale, e spesso poco aggiornata, che Mazzola Bedoli cercava sempre di soddisfare, non sempre riuscendo bene. Altre volte cercava invece di strafare: tanti hanno letto così l’Annunciazione di Capodimonte, cioè come un’opera che finisce per sembrare bislacca e irrisolta.

Girolamo Mazzola Bedoli, Annunciazione (1555-1560; olio su tela, 228 x 157 cm; Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte)
Girolamo Mazzola Bedoli, Annunciazione (1555-1560; olio su tela, 228 x 157 cm; Napoli, Museo Nazionale di Capodimonte)

Ha scritto Heinrich Bodmer, uno tra i primi studiosi a dedicargli uno studio approfondito, che Mazzola Bedoli “riprende il problema del movimento, della distribuzione delle luci e delle ombre, della proporzione delle figure nello spazio che le circonda e della vitalità psicologica al punto in cui Correggio e Parmigianino l’avevano lasciato da decenni, per battere però ben presto nuove vie”. E in questa ripresa, l’artista riusciva a congiungere (“impensatamente”, si premurava di sottolineare lo studioso svizzero) “vecchio e nuovo, visioni formali da molto tempo superate ad idee che rappresentano un grande progresso, e da questi elementi, che in parte si contraddicono, risulta un’arte che non manca d’originalità”. Eppure, malgrado questa originalità, si potrebbe dire che la fama di Mazzola Bedoli sia sempre vissuta nell’ombra di quella del Parmigianino. Anche Vasari, nelle sue Vite, pur avendo conosciuto di persona Mazzola Bedoli, parlò di lui solo nella biografia del cugino, nell’edizione del 1568. Ed è interessante notare che proprio nelle Vite si trova la prima attestazione dell’Annunciazione napoletana: Vasari ricorda come Girolamo Mazzola Bedoli e Francesco Mazzola, entrambi poco più che ventenni, nel 1521 lasciarono la loro Parma, dove rischiava d’avvicinarsi la guerra tra Carlo V e Francesco I, per trasferirsi a Viadana, città nella quale Girolamo “fece in San Francesco, luogo de’ Zoccoli, così giovanetto come era, in una tavolina, una bellissima Nunziata, e un’altra ne fece in Santa Maria ne’ Borghi”.

L’Annunciazione di “Santa Maria ne’ Borghi” è quella finita a Napoli: fu dipinta dall’artista per la chiesa dell’Annunziata di Viadana, e rimase lì fino al 1713. Poi accadde che un duca parmense, Francesco Farnese, la vide nella chiesa, credendola peraltro un’opera del Parmigianino, e la volle per sé: i preti di Viadana probabilmente non ci pensarono due volte e cedettero l’opera al duca, che la condusse con sé a Parma, e da allora la pala ha seguito le vicende delle raccolte farnesiane, finendo dunque a Napoli all’epoca in cui Carlo di Borbone, figlio di Elisabetta Farnese, portò sulle rive del golfo il ricco patrimonio ereditato.

Il soggetto è uno dei più frequentati dalla pittura sacra, il modo in cui Mazzola Bedoli lo affronta è invece del tutto originale. L’incontro ha luogo in un interno, nella camera della Vergine: il baldacchino del letto, alle sue spalle, è mosso da alcuni angioletti curiosi che sbirciano la scena, probabile suggestione del neopaganesimo correggesco della Camera di San Paolo a Parma. Anche l’arcangelo, appena librato in volo, pare quasi un Hermes: girato di schiena, ha in capo un diadema, indossa eleganti sandali di cuoio, la veste è tenuta ferma da una cintura d’oro e pietre preziose, come quelle che andavano di moda tra le dame del tempo, e sopra una delle gemme, finezza da orafo, si nota la scritta “Ave”, saluto alla Madonna, alla quale porge un giglio, simbolo della sua purezza, con una torsione innaturale della mano destra. Lei, che fino a un attimo prima dell’arrivo dell’angelo c’immaginiamo seduta sulla sua sedia, per lo stupore è caduta, e col ginocchio s’appoggia a terra per non sbilanciarsi. Ha un volto adolescenziale come quello di colui che le sta recando l’annuncio. Il modo di dipingere i panneggi, con sottili cangiantismi, trasparenze che fanno intravedere le forme del corpo e pieghe che si muovono in tutte le direzioni, giunge direttamente del Parmigianino. Davanti a lei, la statua d’un putto, quella col brano di controluce ch’è il primo elemento del dipinto che si nota, è in realtà un leggio, sul quale è poggiato il libro dal quale la Vergine sta leggendo. Davanti a lei una finissima natura morta: la cesta col materiale per il cucito, incluso un bellissimo fazzoletto ricamato già pronto. Dietro, ecco invece un tavolino con una clessidra e, poco più distante, un candeliere con un cero acceso, che però non illumina perché l’ambiente è già rischiarato dall’apparizione dell’angelo.

Una composizione originale, artificiosa, quasi bizzarra. Pose improbabili, azzardate, ai limiti della fisica, coi personaggi in una scala eccessiva che finiscono per comprimere lo spazio. Virtuosismi di luci artificiali e di contrasti tra zone d’ombra e aree messe in rilievo da lumi forti che conferiscono un’evidenza quasi statuaria a certi elementi. Una gamma cromatica ampia, brillante, traslucida. La cura attenta e scrupolosa per certi particolari. Il recupero dei modi del Correggio e del Parmigianino interpretati secondo un gusto e un’inclinazione del tutto personali. Bodmer non era convinto dell’Annunciazione di Capodimonte: riteneva che la modellazione dei corpi, dura e precisa, rendesse troppo taglienti i contrasti di luce, rendendo così impossibile qualunque effetto atmosferico delicato. Per Adolfo Venturi addirittura l’opera è “tutta sgangherata e scomposta nelle linee e negli effetti di luce”. Al contrario, per Evelina Borea la pala di Viadana è un “vivido esempio” di quegli “effetti luministici di una preziosità rara sulle materie inseguite nei loro vari accidenti” di cui Mazzola Bedoli s’era dimostrato capace. Non c’è troppo da girarci attorno, insomma: o s’apprezza l’intellettualismo smoderato della sua Annunciazione, oppure è un quadro che si rifiuta. Non è un dipinto da mezze misure.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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