Il celebre scrittore e poeta francese Raymond Queneau (Le Havre, 1903 – Parigi, 1976) coniò nel 1949, nel suo saggio Joan Miró ou le poète préhistorique, un nuovo termine per riferirsi alle opere pittoriche dell’artista catalano Joan Miró (Barcellona, 1893 – Palma di Maiorca, 1983): miroglifico. Secondo Queneau, nella produzione di quest’ultimo ricorrevano segni ed elementi costanti, arrivando ad affermare che il miró fosse “una lingua che bisogna imparare a leggere e di cui è possibile fabbricare un dizionario”. Similmente ai geroglifici, i miroglifici, come caratteri di una scrittura ideografica, potevano essere associati a oggetti o a idee, traducibili attraverso un alfabeto o un dizionario di convenzione a cui fare riferimento.
Tuttavia, il progetto di Queneau di fabbricazione di un vero dizionario miroglifico rimase solo un’idea, in quanto ignorava l’esistenza di un significativo repertorio di disegni che l’artista aveva consegnato nel 1975 alla Fundació di Barcellona, istituita da lui stesso: quasi cinquemila schizzi, abbozzi, prove frammentarie, bozzetti di approfondimento, studi e bozzetti preparatori di opere in cui era evidente una scrittura enunciativa.
Quello praticato da Miró era in effetti un linguaggio di segni, uno scambio reciproco tra immagine e parola, che possedeva una grammatica, una sintassi e un dizionario di figure.
“La pittura di Miró è una scrittura che bisogna saper decifrare”, affermava Queneau, sottolineando che un dipinto dell’artista poteva essere letto come una poesia: “Una poesia deve essere letta nella sua lingua originale; bisogna imparare il miró, e una volta che si sa (o che si crede di sapere) il miró, ci si può mettere a leggere le sue poesie”. Ovvero le sue composizioni pittoriche.
È necessario ricordare che lo stesso Miró presentava il carattere semiologico delle sue opere, sottintendendo che i segni impressi sulle sue tele rimandassero sempre a forme concrete, come elementi di un linguaggio verbale: “Per me una forma non è mai qualcosa di astratto; è sempre il segno di qualcosa. Per me la pittura non è mai la forma per la forma”.
Avvicinatosi al movimento surrealista fin dal 1924, anno del Primo Manifesto del Surrealismo, Miró risentì indubbiamente dell’automatismo, rendendo la sua arte libera, spontanea; talvolta, al primo sguardo, può essere considerata facile, frivola: André Breton (Tinchebray, 1896 – Parigi, 1966) stesso dichiarò che la personalità dell’artista catalano “s’è fermata allo stadio infantile”, ma è proprio quella libertà psichicae creativa il carattere fondante del surrealismo. Le sue forme rimandano all’innocenza, alla bizzarria, a mondi e personaggi che appartengono a un universo personale, ma tutto è immerso in un contesto di grazia e di armonia. Il suo è un mondo ai limiti della magia: davanti ai suoi quadri, l’osservatore si catapulta d’un tratto in scene fantasiose e si ritrova a passeggiare all’interno delle scene raffigurate e a incontrare le buffe figure protagoniste. È un mondo colorato, dove i più svariati toni brillanti, dai gialli ai blu, ai verdi, ai rossi, con presenza spesso di bianco e di nero, creano composizioni armoniose e talvolta geometriche. Oltre ai colori infatti si riconoscono nelle tele di Miró triangoli, cerchi, rombi, quadrati che divengono facce o altre parti di un corpo, animali, elementi naturali oppure oggetti. I segni e le forme che raffigura sulla tela non sono altro che immagini che nascono dalla sua mente, ma soprattutto dal suo inconscio, e che fa fuoriuscire attraverso la sua capacità creativa in un alfabeto giocoso, in una pittura-scrittura mai negativa.
È caratteristica propria del Surrealismo la fede nell’onnipotenza del sogno, nel gioco disinteressato del pensiero, che divengono realtà superiori; la definizione che ne diede il fondatore del movimento André Breton afferma infatti che il Surrealismo è l’automatismo psichico puro mediante il quale ci si propone di esprimere sia verbalmente, sia per iscritto o in altre maniere, il funzionamento reale del pensiero; è il dettato del pensiero, con assenza di ogni controllo esercitato dalla ragione, al di là di ogni preoccupazione estetica e morale. Le tele del pittore catalano potrebbero essere definite per questo motivo immagini di sogno e colore, dove l’elemento creativo e giocoso è centrale.
È tra il 1924 e il 1929 che lo stile di Joan Miró si caratterizzò per ampie estensioni di colore sulle quali si stagliano linee arabescanti che formano i suoi buffi personaggi d’invenzione: significativo in questo senso è il Carnevale di Arlecchino, dipinto realizzato nel 1924, e la cosiddetta serie degli Interni olandesi. Riferendosi al Carnevale di Arlecchino e all’Eremitaggio, entrambe dello stesso anno, il poeta e scrittore Louis Aragon (Parigi, 1897 – 1982) affermò: “Forse è da qui che comincia l’antipittura e nasce quella scrittura novella che, dischiusasi come al termine di una preistoria trascorsa nelle grotte, esce finalmente incontro al senso geroglifico del mondo e istituisce il massimo contrasto tra la violenza dei colori e le rivendicazioni del segno”.
Joan Miró, Il carnevale di Arlecchino (1924-1925; olio su tela, 66 x 93 cm; Buffalo, Albright-Knox Art Gallery) |
Joan Miró, Eremitaggio (1924; olio, matita e grafite su tela, 114,3 x 146,2 cm; Filadelfia, Philadelphia Museum of Art) |
Hieronymus Bosch, Trittico del Giardino delle Delizie, pannello centrale (1490-1500; olio su tavola, altezza 205,5 cm; Madrid, Museo del Prado) |
Il Carnevale di Arlecchino richiama le tele di Bosch (’s-Hertogenbosch, 1453 – 1516), antico maestro del fantastico, poiché anch’esse popolate da buffe e minuscole creature nate dalla sua capacità inventiva e immerse in scenari bizzarri che sembrano essere fuoriusciti da mondi onirici. Il celebre dipinto di Miró conservato alla Albright-Knox Art Gallery di Buffalo raffigura un ambiente interno nel quale fluttuano esserini del mondo animale che si relazionano con vari oggetti: sono riconoscibili gatti colorati, omaggio a quello che teneva vicino a sé quando dipingeva, un pesce, una mosca che esce da un dado, e alcuni simboli ricorrenti, come la scala a pioli che evoca l’evasione dal mondo, la sfera nera a destra che indica il globo terrestre, il triangolo che spunta dalla finestra aperta che rappresenterebbe la Tour Eiffel (in quegli anni soggiornava a Parigi), l’uomo al centro con i baffi che fuma la pipa; e ancora strumenti e note musicali che rimandano all’atmosfera allegra del Carnevale, una stella e l’occhio dell’artista a caccia di motivi da introdurre nella propria arte.
I citati Interni olandesi invece nascono dai dipinti olandesi che l’artista ha l’occasione di ammirare nella loro terra d’origine. Si tratta di una serie di tre dipinti che si ispirano alla pittura olandese del Seicento: Interno olandese I reinterpreta il suonatore di liuto raffigurato da Martensz Sorgh (Rotterdam, 1610-11 – 1670) nel 1661, Interno olandese II si ispira alla Lezione di ballo di JanSteen (Leida, 1626 – 1679) del 1665 e infine Interno olandese III raffigura una giovane donna al bagno in cui si intrecciano elementi di Sorgh e di Steen.
Joan Miró, Interno olandese I (luglio-dicembre 1928; olio su tela, 91,8 x 73 cm; New York, MoMA - Museum of Modern Art) |
Joan Miró, Interno olandese II (estate 1928; olio su tela, 92 x 73 cm; New York, Guggenheim Museum) |
Joan Miró, Interno olandese III (1928; olio su tela, 129,9 x 96,8 cm; New York, Metropolitan Museum) |
Hendrick Maertenszoon Sorgh, Il suonatore di liuto (1661; olio su tavola, 52 x 39 cm; Amsterdam, Rijksmuseum) |
Jan Steen, Lezione di ballo (1660-1679; olio su tavola, 68,5 x 59 cm; Amsterdam, Rijksmuseum) |
La precedentemente citata composizione geometrica risulta ben evidente nel Cacciatore del 1924, altrimenti noto come Paesaggio catalano. Il cacciatore, raffigurato in alto a sinistra, ha barba, baffi, pipa, cuore e organo genitale e il suo corpo è stilizzato, con un triangolo che funge da testa e un occhio spalancato; la linea curva che corre orizzontalmente da metà del suo corpo sottintende il movimento di circospezione con cui l’uomo va alla ricerca di selvaggina. L’occhio e l’orecchio vicini sottolineano l’attenzione uditiva e visiva con cui il cacciatore si appresta alla sua attività. Il cacciatore è stato letto come una metafora dell’artista: come un cacciatore alla ricerca della preda, quest’ultimo si muove nel mondo, alla ricerca di simboli e metafore che rappresentino adeguatamente la propria visione del mondo. La pittura quindi è una sorta di caccia e per tale ragione la vista è un bisogno primario per l’artista, come evidenzia il grande occhio al centro della composizione. Elemento significativo da segnalare è la presenza della bandiera catalana accanto a quella francese nell’estremità sinistra del quadro, sotto cui si nota ancora la presenza di una piccola scala a pioli, mentre nell’estremità destra sventola la bandiera spagnola su un’asta conficcata in un cono. La sua terra d’origine, la Catalogna, è evocata in questo dipinto, oltre che dalla bandiera, anche dalla scritta Sard che compare in basso a destra, probabile allusione alla sardana, tipico ballo catalano. Miró iniziò a inserire parole nelle sue composizioni come elementi allusivi a determinati concetti, ma la presenza delle tre bandiere catalana, francese e spagnola si ritrova anche ne Il campo arato, dipinto realizzato tra il 1923 e il 1924 custodito al Solomon R. Guggenheim Museum di New York, probabilmente a sottintendere un’alleanza di popoli, geografie e culture.
Joan Miró, Cacciatore (paesaggio catalano) (1924; olio su tela, 64,8 x 100,3 cm; New York, MoMA - Museum of Modern Art) |
Joan Miró, Campo arato (1923-1924; olio su tela, 66 x 92,7 cm; New York, Guggenheim Museum) |
L’interesse per la pittura ideografica non si arrestò con la fine degli anni Venti del Novecento, anzi, proseguì fino a divenire uno dei tratti più rilevanti dell’arte di Miró, evolvendo fino alla serie delle Costellazioni, iniziata nel gennaio del 1940. Una serie di ventitré tempere su carta che testimonia il fascino dell’artista per le stelle e il cielo. Su sfondi sfumati si notano forme più o meno geometriche che si combinano in dipinti molto suggestivi: pare veramente di ammirare porzioni di cielo fantastiche; come quando di notte, con lo sguardo rivolto verso il cielo, si cercano di individuare le varie costellazioni e forme che le stelle luminose compongono. In questa serie si riconoscono occhi, lune, stelle, globi che formano figure di animali e di persone: i tratti spessi realizzati utilizzando il nero delimitano molto spesso queste forme riconoscibili, ma sono presenti il rosso, il verde, il giallo, l’azzurro che danno tocchi di colore denso alle particolari composizioni. L’artista conosceva bene il cielo, perché da piccolo si divertiva con suo padre a osservare con il telescopio ogni sua piccola parte.
Anche i titoli scelti per ciascun dipinto della serie delle Costellazioni sono molto poetici e narrano con poche parole la scena raffigurata: probabilmente sono stati ispirati dalla poesia stessa, di cui era appassionato Miró, ma soprattutto dalla musica; la poesia e la musica, oltre alla pittura, lo aiutarono nella tragicità della guerra, da cui si allontanò prima trasferendosi nel 1938 a Varengeville-sur-Mer, sulla costa della Normandia e, successivamente, in seguito all’invasione della Francia da parte delle truppe tedesche, tornò nel 1940 in Spagna stabilendosi a Palma di Maiorca.
Joan Miró, Canto dell’usignolo di mezzanotte e pioggia del mattino, dalla serie Costellazioni (1940; gouache e pittura alla terpentina su carta, 38 x 46 cm; New York, Perls Galleries) |
Joan Miró, Stella del mattino, dalla serie Costellazioni (1940; gouache e pittura alla terpentina su carta, 38 x 46 cm; Collezione privata) |
Joan Miró, Il bell’uccello rivela l’ignoto a una coppia di innamorati, dalla serie Costellazioni (1941; gouache, olio e carboncino su carta, 45,7 x 38,1 cm; New York, MoMA - Museum of Modern Art) |
Joan Miró, Figure di notte guidate da tracce fosforescenti di lumache, dalla serie Costellazioni (1940; acquerello e gouache su carta, 37,9 x 45,7 cm; Filadelfia, Philadelphia Museum of Art) |
Joan Miró, Numeri e costellazioni innamorati di una donna, dalla serie Costellazioni (1941; acquerello su carta, 45,9 x 38 cm; Chicago, Art Institute) |
Canto dell’usignolo di mezzanotte e pioggia del mattino, Stella del mattino, Il bell’uccello rivela l’ignoto a una coppia di innamorati, Figure di notte guidate da tracce fosforescenti di lumache, Numeri e costellazioni innamorati di una donna sono alcuni dei titoli di questa serie.
Il blu intenso del cielo domina in Figure di notte guidate da tracce fosforescenti di lumache, proprio a indicare l’ambientazione notturna del dipinto, dove è ben riconoscibile anche la grande luna bianca in alto al centro; le figure menzionate nel titolo sono invece caratterizzate da grandi occhi spalancati. Sia la testa che il corpo suggeriscono che si tratta di figure di invenzione, che non esistono nella realtà. Un po’ come in tutti gli altri dipinti citati: l’usignolo di mezzanotte che canta nella relativa opera è probabilmente in alto, al centro della composizione, riconoscibile dal becco a mezzaluna aperto, segno che sta emettendo un suono, e dalle lunghe ali. La notte è qui rappresentata da alcune stelle di colore blu, mentre il resto della composizione si concentra sui toni del rosso e del nero su uno sfondo grigio chiaro con delle sfumature tendenti al giallo. Altre figure sono presenti nell’opera, in particolare nella parte centrale e nell’estremità destra del dipinto.
Figure che si intersecano tra loro sono protagoniste di Stella del mattino e diviene talvolta complicato definirne l’aspetto: ciò che si è in grado di riconoscere sono molto spesso occhi, nasi, bocche aperte con denti da cui spuntano lingue lunghe. In primo piano ne Il bell’uccello rivela l’ignoto a una coppia di innamorati si vede una grande testa provvista di occhi, sopracciglia, naso e bocca sorridente; diversi occhi sono sparsi nell’intero dipinto, ma risulta difficile distinguere le varie forme che si stagliano questa volta su uno sfondo dalle diverse sfumature del giallo.
Lo stesso vale per Numeri e costellazioni innamorati di una donna, dove gli unici elementi ben definiti sono due occhi aperti con ciglia, uno verde e l’altro giallo, al centro della composizione.
Osservare le opere di Miró diviene per lo spettatore un viaggio all’insegna del sogno e del fantastico; ogni elemento è un’affermazione dell’infinita creatività dell’artista, da cui egli si lascia guidare liberamente creando ambientazioni surreali e gioiose, accompagnate da tocchi di colore brillante che diffondono e fanno fuoriuscire dalla tela il tratto ludico e allegro dell’artista.
Bibliografia di riferimento
L'autrice di questo articolo: Ilaria Baratta
Giornalista, è co-fondatrice di Finestre sull'Arte con Federico Giannini. È nata a Carrara nel 1987 e si è laureata a Pisa. È responsabile della redazione di Finestre sull'Arte.