Il Trionfo della Divina Provvidenza di Pietro da Cortona, testo fondamentale dell'arte del '600


Capolavoro di Pietro da Cortona, il Trionfo della Divina Provvidenza, che adorna l’omonimo salone in Palazzo Barberini a Roma, non è soltanto un’efficace celebrazione del potere di papa Urbano VIII, ma è anche un testo fondamentale per tutta l’arte del Seicento e oltre.

Quando, nell’agosto del 1623, Maffeo Barberini (Firenze, 1568 – Roma, 1644) ascese al soglio pontificio con il nome di Urbano VIII, in molti, tra intellettuali, scienziati e artisti, riposero le loro speranze in quest’uomo dotto e raffinato, auspicando un rinnovamento culturale di Roma e l’affermarsi di una Chiesa illuminata finalmente in grado di affrontare serenamente le sfide che il suo tempo le poneva davanti. Tuttavia le scelte del pontefice non tardarono troppo a smentire, almeno in parte, tali aspettative. Sotto il suo governo, infatti, riprese con vigore l’attività dell’Inquisizione Romana, la cui più illustre vittima fu Galileo Galilei (Pisa, 1564 – Arcetri, 1642), processato nel 1633 e costretto all’abiura da quello stesso sovrano che, fino ad allora, lo aveva difeso e incoraggiato, mentre le pratiche nepotistiche, da sempre ampiamente diffuse, giunsero con i Barberini a una esasperazione generatrice di pesanti insofferenze. Inoltre nel 1641 ebbe inizio la prima guerra di Castro tra lo Stato Pontificio e la famiglia Farnese, per il controllo del ducato sito tra Lazio e Toscana, conflitto che, tra le altre cose, condusse a un inasprimento della pressione fiscale sulla popolazione romana e contribuì a creare quel disavanzo di circa 30 milioni di scudi lasciato da Urbano, alla sua morte, nelle casse pontificie.

Ma, al netto di questi fatti, rimane indubbio che il Barberini fu uno dei più grandi e accorti mecenati del secolo. Incise profondamente sull’aspetto di Roma, ormai capitale di uno stato relegato ai margini del seicentesco scenario politico europeo, e tuttavia sede di una Chiesa di cui egli, ricorrendo alla promozione delle arti come principale strumento di propaganda, insistette con forza ad alimentare un’immagine trionfante, legandola a doppio filo con quella altrettanto grandiosa del suo stesso casato.

Va anche ricordato che già da cardinale Maffeo si era distinto per la sua solida preparazione culturale e il suo vivace e genuino amore per l’arte. Fu, ad esempio, tra i primi a intuire e incoraggiare il talento del ventenne Bernini (Napoli, 1598 – Roma 1680) che rimarrà negli anni il suo artista prediletto. Per due dei più celebri gruppi scultorei di Gian Lorenzo, Apollo e Dafne e il Ratto di Proserpina, eseguiti su commissione di Scipione Borghese, Barberini aveva anche ideato alcuni versi moraleggianti, incisi e ancora oggi leggibili sulle basi marmoree.

Una volta papa si spese molto per quello che senza dubbio fu, durante il suo regno ma non solo, il principale cantiere di Roma, vale a dire la nuova Basilica Vaticana, la cui edificazione era stata avviata da Giulio II nella prima metà del XVI secolo. Urbano VIII monitorava, infatti, costantemente lo svolgersi dei lavori e spinse per accelerarli, stabilendo che la Congregazione della Reverenda Fabbrica di San Pietro (la commissione di prelati incaricata di gestire la ricostruzione e i vari interventi decorativi) si riunisse non più tre o quattro volte all’anno, bensì ogni quindici giorni.

La basilica costituì per tutto il Seicento uno straordinario laboratorio, luogo di confronto tra i principali artisti e stili, nonché efficacissimo palco per l’espressione del mecenatismo barberiniano. Al già citato Bernini spetta una delle più celebri ed eloquenti creazioni artistiche del pontificato di Urbano, e del Barocco romano: il baldacchino bronzeo eseguito per la crociera della chiesa. L’enorme struttura venne inaugurata nel giugno del 1633 e collocata a coronamento dell’altare papale e della confessione, che racchiude il luogo di sepoltura di San Pietro. In dialogo con la cupola michelangiolesca, sotto cui è posto, il baldacchino aveva allo stesso tempo la funzione di ribadire con potenza il primato petrino da cui discende l’autorità pontificia, e di celebrare la persona di Urbano (al quale rimandano le numerose api dello stemma Barberini inserite nei basamenti, sulle colonne tortili e sui drappi della parte superiore) in veste di successore dell’Apostolo. Ovviamente, accanto a Bernini, molti altri artisti furono coinvolti con vari incarichi nell’impresa vaticana; tra questi anche il toscano Pietro Berrettini (Cortona, 1597 – Roma, 1669) meglio noto come Pietro da Cortona, pittore e architetto, giunto a Roma adolescente nel 1612.

Pietro da Cortona, Il Trionfo della Divina Provvidenza e il compiersi dei suoi fini sotto il ponjpgicato di Urbano VIII (1632-1639; affresco; Roma, Gallerie Nazionali Barberini Corsini, Palazzo Barberini, Salone di Pietro da Cortona)
Pietro da Cortona, Il Trionfo della Divina Provvidenza e il compiersi dei suoi fini sotto il ponjpgicato di Urbano VIII (1632-1639; affresco; Roma, Gallerie Nazionali Barberini Corsini, Palazzo Barberini, Salone di Pietro da Cortona)
Roma, Palazzo Barberini
Roma, Palazzo Barberini
Pietro da Cortona, Autoritratto (1637; olio su tela, 77 x 55 cm; Ajaccio, Musée Fesch, inv. MFA 852.1.738)
Pietro da Cortona, Autoritratto (1637; olio su tela, 77 x 55 cm; Ajaccio, Musée Fesch, inv. MFA 852.1.738)
Gian Lorenzo Bernini, Ritratto di Urbano VIII (1632-1633; marmo, altezza 102 cm; Roma, Gallerie Nazionali d'Arte Antica, Palazzo Barberini)
Gian Lorenzo Bernini, Ritratto di Urbano VIII (1632-1633; marmo, altezza 102 cm; Roma, Gallerie Nazionali d’Arte Antica, Palazzo Barberini)
Pietro da Cortona, Ratto delle Sabine (1630-1631; olio su tela, 280,5 x 426 cm; Roma, Musei Capitolini, Pinacoteca Capitolina)
Pietro da Cortona, Ratto delle Sabine (1630-1631; olio su tela, 280,5 x 426 cm; Roma, Musei Capitolini, Pinacoteca Capitolina)

Nel 1628 la Congregazione commissionò al Berrettini una pala d’altare avente per soggetto la Santissima Trinità, destinata alla cappella del Sacramento (una delle più grandi e importanti dell’edificio) e consegnata probabilmente all’inizio del decennio successivo. Questa fu la prima opera eseguita dall’artista per la basilica di San Pietro, e gli venne affidata grazie soprattutto all’interessamento del cardinale Francesco Barberini (Firenze, 1597 – Roma, 1679). Per la realizzazione del dipinto, infatti, era stato scelto inizialmente Guido Reni (Bologna, 1575 – 1642) con il quale però i prelati non erano riusciti a raggiungere un accordo definitivo, trovandosi così nella necessità di ripiegare su un altro autore. Fu in questo contesto che il cardinale, il quale evidentemente godeva di grande autorità in quanto nipote del papa, propose e riuscì a far accettare Pietro, da tempo uno dei suoi protetti.

I Barberini erano entrati in contatto con questo giovane pittore subito dopo l’elezione di Urbano, tramite il tesoriere segreto della Camera Apostolica, Marcello Sacchetti, per cui Pietro aveva già lavorato, e ancora lavorerà, e al quale, in particolare, stava per realizzare l’intenso ritratto oggi alla Galleria Borghese. Avevano poi ottenuto ulteriore prova del suo talento in occasione del rifacimento della chiesa paleocristiana di Santa Bibiana all’Esquilino, voluto dal pontefice per il Giubileo del 1625. Qui al cortonese era stato richiesto di affrescare la parete sinistra della navata centrale con la raffigurazione di episodî relativi alla vita e al martirio della santa, in collaborazione con il più affermato Agostino Ciampelli (Firenze, 1565 – Roma, 1630) a cui era stata assegnata la zona destra.

La felice riuscita dell’impresa, con cui Berrettini aveva dato prova sia di aver assimilato il patrimonio delle antichità romane, lungamente studiate, sia di saper attualizzare la storia, attraverso espressioni e gesti efficaci e appassionati, aveva segnato la sua definitiva affermazione nel panorama artistico di Roma e l’inizio del prestigioso legame professionale con il casato regnante. Come sottolineò negli anni Sessanta dello scorso secolo Giulio Briganti, all’interno della sua monografia dedicata al pittore, però, è a partire da un’altra opera, la tela raffigurante il Ratto delle Sabine, eseguita attorno al 1629 e oggi conservata presso i Musei Capitolini, che si osserva “la prima spettacolare dichiarazione dei metodi del Barocco romano in pittura”.

A ormai pochi anni di distanza dal ciclopico affresco con cui Pietro decorerà la volta del salone in Palazzo Barberini, nella tela dei Capitolini la composizione, che pure ovviamente rimane chiusa nei limiti della cornice, appare ricercatamente asimmetrica, sovraffollata di figure disposte su più piani in profondità, pervasa da un moto centrifugo e drammatico. Nel 1625 il cardinale Francesco Barberini acquistava dagli Sforza il Palazzo sulle pendici orientali del Quirinale, che oggi ospita la sede di una della due Gallerie Nazionali d’Arte Antica di Roma, ma che allora doveva fungere da residenza ufficiale della famiglia del pontefice. Della trasformazione dell’edificio fu inizialmente incaricato Carlo Maderno; tuttavia l’architetto morì un solo anno dopo l’inizio dei lavori, affidati quindi al Bernini, con interventi di Francesco Borromini e dello stesso Pietro da Cortona.

Fu Bernini ad ampliare, rispetto al progetto iniziale, le dimensioni del salone di rappresentanza al piano nobile, che inglobò lo spazio riservato al loggiato originariamente previsto per la facciata (poi sostituito con la finta loggia finestrata). I lavori di muratura per la volta dell’ambiente vennero terminati nel Settembre del 1630 e l’anno successivo si iniziò a montare le impalcature necessarie alla realizzazione dell’affresco. Il biografo Giovan Battista Passeri (Roma, 1610 – 1679) nelle sue Vite de’ più eccellenti pittori, scultori ed architetti che hanno lavorato in Roma, nella biografia del pittore Andrea Camassei (Bevagna, 1602 – Roma, 1649), scrive che in un primo momento l’opera decorativa era stata affidata proprio a questo artista, il quale è anche indicato nei registri del 1635 dell’Accademia di San Luca come “pittore dell’ecc.mo Principe Prefetto” ossia di Taddeo Barberini (Roma, 1603 – Parigi, 1647), nipote del papa, nominato Prefetto di Roma nel 1631. Taddeo era a capo del ramo secolare della famiglia, e almeno fino alla metà del quarto decennio, utilizzò il Palazzo al Quirinale con la moglie Anna Colonna e insieme ai fratelli, i cardinali Francesco e Antonio Barberini.

Già prima che si cominciasse a dipingere il salone, Camassei aveva affrescato altri ambienti dell’edificio, ma così anche Andrea Sacchi (Nettuno 1599 – Roma 1661), protetto del cardinale Antonio, e lo stesso Berrettini che era intervenuto anche come architetto e aveva lavorato, da pittore, in una galleria del palazzo e nella cappella, e che come abbiamo visto, godeva del favore di Francesco. È interessante notare, tra l’altro, che tutti e tre gli artisti erano stati coinvolti pochi anni prima nella decorazione ad affresco presso la Villa Sacchetti a Ostia. Alla fine fu Francesco, il maggiore dei tre nonché cardinal nepote, a prevalere, e la volta venne affidata al cortonese, affiancato dagli allievi Pietro Paolo Baldini, Giovanni Maria Bottalla e Giovanni Francesco Romanelli. Secondo il Passeri, invece, il papa stesso intervenne nella disputa familiare e fu lui a decidere in modo definitivo; molti studiosi tendono a ritenere attendibile questa informazione, in considerazione del peso che un tale intervento pittorico avrebbe avuto. Prova di quanto il pontefice avesse investito nel progetto (anche) in termini di aspettative, sono le sue visite quotidiane al salone durante i lavori, di cui scrive il pittore e storico dell’arte tedesco Joachim Von Sandrart (Francoforte sul Meno, 1606 – Norimberga, 1688) nel suo testo Teutsche Akademie del 1675. Ad ogni modo la lavorazione si protrasse a lungo: Pietro iniziò a dipingere il soffitto alla fine del 1632 e lo terminò nello stesso periodo dell’anno 1639. Sebbene la superficie da coprire misurasse ben 24 metri di lunghezza per 14,5 di larghezza, e fosse quindi molto estesa, sicuramente incisero sui tempi anche i numerosi impegni che il pittore doveva gestire.

Quando il cardinale Giulio Sacchetti partì per Bologna, nel giugno del 1637, Berrettini lo seguì e si fermò diversi mesi a Firenze per realizzare i primi due affreschi della Sala della Stufa in Palazzo Pitti, su richiesta del Granduca Ferdinando II (Firenze, 1610 – 1670); poi ripartì verso Venezia e tornò al suo lavoro nel salone Barberini solo a dicembre. E molte altre furono le commissioni da lui ricevute nell’arco di quei sette anni. Si aggiunga, poi, che al momento del rientro nel Palazzo romano, probabilmente, l’artista eseguì rifacimenti considerevoli di quanto concluso prima del viaggio, non sappiamo con certezza se a causa di suoi ripensamenti o per via di problemi tecnici legati alla scarsa coesione della malta. Il dubbio permane anche per via del fatto che ci sono giunti pochi disegni preparatorî, peraltro dispersi tra varie collezioni nazionali ed estere, e che quindi definire precisamente le varie fasi di ideazione è piuttosto arduo. La storica dell’arte Lorenza Mochi Onori nel suo saggio Pietro da Cortona per i Barberini riporta che, durante il suo periodo da direttrice della Galleria, in occasione di alcuni interventi di restauro, poté appurare la presenza di poche incisioni da riporto dai cartoni e l’assenza di spolvero. L’affresco, quindi, fu realizzato per buona parte traducendo a mano libera, con larghe pennellate, le immagini direttamente dai disegni preparatorî. Questo modus operandi (menzionato anche dalle fonti dell’epoca) oltre a a testimoniare la grande abilità dell’artista (soprattutto nel gestire le proporzioni dei singoli brani pittorici rispetto al resto della composizione) potrebbe spiegare la scarsità di fogli con disegni oggi in nostro possesso: una delle ipotesi plausibili è che essi non furono raccolti, perché essendo stati impiegati direttamente sul cantiere potrebbero aver subito danneggiamenti rendendo inutile, agli occhi dei contemporanei, la loro conservazione. Inoltre le giornate di lavoro riscontrate dall’osservazione dell’intonaco sono moltissime, di cui alcune molto limitate e finalizzate solo alla correzione di dettagli che, evidentemente, a un’osservazione dal basso, non risultavano eseguiti alla perfezione. Gli interventi a secco, al contrario, sono decisamente esigui.

In ogni caso, nonostante la lunga attesa, il risultato finale lasciò i committenti più che soddisfatti. L’affresco, raffigurante Il trionfo della Divina Provvidenza e il compiersi dei suoi fini sotto il pontificato di Urbano VIII Barberini, è una efficacissima “glorificazione temporale del potere papale” come nota, ancora, Mochi Onori. Il programma iconografico venne sviluppato dal poeta di corte della famiglia regnante, Francesco Bracciolini, a partire da un poema che egli stesso aveva scritto, pochi anni prima dell’inizio degli interventi pittorici, dedicato al pontefice e intitolato L’elettione di Urbano Papa VIII. Il letterato, al quale venne anche concesso il privilegio di affiancare al proprio cognome la dicitura “Dell’Api” in riferimento alle api araldiche Barberini, dettò a Pietro da Cortona i soggetti principali che, poi, il pittore adattò e, in alcuni casi, modificò.

Le api con le personificazioni di fede, speranza e carità e le personificazioni di Roma e religione
Le api con le personificazioni di fede, speranza e carità e le personificazioni di Roma e religione
La Divina Provvidenza comanda all’Immortalità di ornare con una corona di stelle il blasone dei Barberini
La Divina Provvidenza comanda all’Immortalità di ornare con una corona di stelle il blasone dei Barberini

Bracciolini racconta nel poema una lunga battaglia, ambientata nei giorni trascorsi tra la morte di Gregorio XV e la nomina del suo successore, che si conclude felicemente con la vittoria delle virtù sui vizî e, appunto, l’ascesa del Urbano VIII. Il testo è caratterizzato dalla fusione di narrazione mitologica, epico-allegorica, favola pastorale, exempla biblici e storici, cronaca di eventi contemporanei, biografia romanzata, e tutto questo patrimonio storico e letterario è attualizzato, trasferito nel presente, e inserito nella realizzazione del disegno della Provvidenza ai tempi di Urbano. Nel poema Dio stesso promette e, in conclusione, concede l’elezione del Barberini, che viene celebrato non da solo, ma insieme ai suoi famigliari: il potere discende dalla volontà divina e si incarna in una precisa dinastia mondana. Così, guardando all’affresco, le tre gigantesche api dello stemma del casato compaiono nel centro dello specchio piano del voltone, chiuse in una grande ghirlanda d’alloro, a sua volta sorretta dalle personificazioni di Speranza, Carità e Fede, e sulla quale Roma e la Religione stanno posando, rispettivamente, la tiara papale e le chiavi petrine. Da un angolo, un putto si sporge offrendo una più piccola ghirlanda, in riferimento, probabilmente, alla passione e al talento di Urbano per la poesia. Più giù, un’altra figura femminile, la Divina Provvidenza, adagiata su soffici nuvole e circondata da una caldo bagliore che ne rimarca il ruolo primario, con lo scettro nella mano sinistra, comanda all’Immortalità di ornare con una corona di stelle il blasone composto dai tre monumentali insetti. Sotto di loro, alludono allo scorrere inesorabile del tempo Crono, che divora uno dei suoi figli, e le tre Parche, intente a tessere e poi tagliare il filo del destino umano.

Come si intuisce già da questa prima descrizione, accanto a figure tratte dalla mitologia, ne compaiono molte allegoriche, nei panni di placide e floride fanciulle, e alcune di esse, quelle di nuova invenzione che non potevano contare su un’identità iconografica ben definita, risultavano probabilmente abbastanza oscure a molti dei visitatori. Il salone era aperto a chiunque si presentasse decentemente abbigliato e in determinati orari, il che prova quanto i Barberini ritenessero efficaci quelle immagini e importante la loro divulgazione; proprio al fine di far comprendere e far circolare i preziosi significati, il casato provvide a fornire la sala di una sorta di guida, la Dichiarazione delle pitture della sala de’ signori Barberini, alla quale ne seguirono altre.

I personaggi di cui si è detto volteggiano nel cielo, sul quale è illusionisticamente aperta, come sfondata, la superficie muraria reale. Tale spazio centrale è inquadrato da un architrave dipinto a monocromo, a imitazione del marmo, sorretto da quattro pilastri che individuano, negli intradossi del voltone, altrettante zone laterali. Queste ultime ospitano scene in cui si allude alle azioni e alle virtù del pontefice, le quali azioni e virtù, quindi, vengono poste idealmente, ma anche fisicamente, alla base dell’apoteosi del suo casato che è voluta e ordinata dalla Provvidenza. In uno dei lati brevi della sala, quello verso la facciata, la Giustizia con il littorio, e l’Abbondanza che regge una cornucopia carica di frutti, volano su una folla di anziani, donne e bambini che si protendono verso di loro; accanto Ercole scaccia un’arpia dopo averne già uccisa un’altra, riversa ai suoi piedi. La figurazione pittorica dell’altro lato corto mostra, con Minerva che sbaraglia i giganti facendoli precipitare (notevoli sono gli scorci dei tre personaggi sulla destra, che sembrano letteralmente franare sullo spettatore), la vittoria dell’intelligenza sulla forza bruta. Frontalmente all’ingresso (provenendo dalla scala progettata da Bernini), su una delle due pareti lunghe, è celebrato l’amore del pontefice per la conoscenza, che egli dunque avrebbe sempre perseguita, seppure entro i limiti sacri dell’ortodossia religiosa che qui sembra vengano chiaramente ribaditi.

Vediamo una figura femminile, la Sapienza, avvolta da una veste oro bagnata di luce e assisa sulle nuvole, con il fuoco in una mano e un libro aperto nell’altra, mentre, accompagnata dall’Aiuto Divino, ascende verso il centro della volta superando il limite della cornice architettonica, perché è solo in alto, in cielo, che la vera conoscenza risiede. A rafforzare questo concetto, alla sua sinistra compare la Religione che custodisce il sacro tripode e ha il capo velato, così come la Purezza che si libra in volo dall’altra parte, reggendo un giglio bianco. Rimangono in basso, invece, sotto di loro, i vizî: Sileno, sguaiato, grasso ed ebbro, circondato da ninfe e baccanti, e Venere che discinta, mollemente distesa su un drappo rosso, assiste con sconforto alla battaglia di puttini, simboleggiante la lotta tra Amor Sacro e Amor Profano.

Crono e le Parche
Crono e le Parche
La Giustizia e l’Abbondanza volano sulla folla mentre Ercole scaccia le arpie
La Giustizia e l’Abbondanza volano sulla folla mentre Ercole scaccia le arpie
Minerva sbaraglia i giganti
Minerva sbaraglia i giganti
La Sapienza, l’Aiuto Divino e la Religione
La Sapienza, l’Aiuto Divino e la Religione
I vizî: Sileno ebbro con ninfe e baccanti
I vizî: Sileno ebbro con ninfe e baccanti
Venere assiste alla battaglia tra i putti
Venere assiste alla battaglia tra i putti
La Pace, la Prudenza e la Fama
La Pace, la Prudenza e la Fama

Nel lato lungo dalla parte opposta, si esalta la politica di pace di Urbano, che, stando ai fatti storici, però, egli riuscì molto bene a propagandare, un po’ meno ad attuare. Al centro scorgiamo la Pace, con un mantello azzurro, anch’essa seduta su un trono di nuvole e anch’essa sovrapposta all’architrave, che regge il caduceo e una chiave. Le sono affianco la Prudenza, ammantata di rosso, che tiene uno specchio, e un’altra non meglio identificata figura femminile, con un messaggio in mano, ritratta di spalle e in atto di dirigersi verso il tempio alla sua destra. Qui la Fama suona le trombe e una fanciulla in volo con un ramoscello d’ulivo in mano sta chiudendo la porta del tempio di Giano avvolto dalle fiamme (le sue porte nella Roma antica venivano chiuse durante i periodi di pace) forse obbedendo all’ordine contenuto nel messaggio a cui si è accennato. Al di sotto il Furore, nudo, giace a terra incatenato dalla sorridente Mansuetudine e dall’altra parte Vulcano, circondato da un denso fumo nero che sembra propagarsi e sconfinare, fino quasi a lambire le api nel riquadro sovrastante, forgia non più armi, ma un badile.

Passiamo, infine, alla cornice architettonica dipinta, che scandisce lo spazio pittorico, e si presenta riccamente decorata con finte sculture raffiguranti festoni floreali, bucrani, delfini, ignudi, tritoni, putti. Agli angoli dell’architrave, sopra a ciascun pilastro, vediamo quattro clipei con rilievi in finto bronzo dorato, che svolgno episodi di storia romana, allusivi a virtù che qui vengono attribuite a Urbano VIII; esse sono illustrate anche dagli animali dipinti più in basso, alle basi dei pilastri. Così riconosciamo la scena con La prudenza di Fabio Massimo a cui è connessa l’orsa, entrambe simbolo di sagacia, La continenza di Scipione con il liocorno, che rappresentano la purezza, sopra al leone, simbolo di forza, abbiamo L’eroismo di Muzio scevola, e infine La giustizia del console Manlio con l’ippogrifo, a figurare la perspicacia.

Più di cento personaggi popolano l’affresco, ognuno di essi intento al compimento di un’azione, in un turbinio ininterrotto, che annulla lo spazio reale e travolge anche la finta architettura. Questo moto che pervade l’intera superficie è assecondato e accentuato dal ricorso al puntinato: sulla superficie dipinta sono aggiunti, tono su tono, sempre a fresco, piccoli puntini di colore che, combinati a una superficie granulosa ottenuta impiegando nell’intonaco più sabbia che malta, rende vibrante la materia pittorica, quasi cangiante. All’interno della prospettiva centrale si aprono, poi, quelle relative a ogni scena, eppure l’affresco nella sua interezza è concepito per essere inizialmente “abbracciato da un solo sguardo e a quello esprimere immediatamente il senso compiuto e unitario della sua invenzione e del suo significato” come sottolinea Briganti.

E se in un primo momento prevale il puro stupore per l’immensa spazialità illusionisticamente generata, per la quantità di figure che la animano e, in definitiva, per l’abilità tecnica che tutto questo presuppone, successivamente, come si è visto, ci si accorge della complessità dei significati veicolati dall’affresco, ai quali la meraviglia suscitata nello spettatore conferisce ulteriori forza ed efficacia. Proprio questo desiderio di stupire e di coinvolgere emotivamente chi guarda è una delle caratteristiche più evidenti e più innovative della corrente stilistica che investì l’arte romana a partire dagli anni Trenta del Seicento.

L’affresco in Palazzo Barberini costituisce, infatti, uno dei momenti iniziali e una delle più felici espressioni, in pittura, di quel linguaggio artistico che iniziò a definirsi proprio sotto il pontificato Barberini, a cui solo a partire dal tardo Settecento, e con intento dispregiativo, i teorici neoclassicisti assegnarono il nome “Barocco”. Con questo termine essi intendevano definire uno stile che, a loro parere, dal quarto decennio del Seicento aveva distorto tutte le arti, dominato dal bizzarro, dall’eccesso, teso a stravolgere ogni principio di simmetria e rispondenza, stile che il critico d’arte Francesco Milizia, nel suo testo Dell’arte di vedere nelle belle arti del 1781, arrivò a definire “peste del gusto”. Nondimeno furono proprio tali critici settecenteschi a individuare per primi, con chiarezza, sebbene al fine di condannarli, le caratteristiche, gli elementi di novità, nonché i principali esponenti della corrente stilistica barocca. Come da loro osservato, infatti, Bernini e Berrettini, insieme a Borromini, furono i maggiori interpreti di questa nuova sensibilità; scrive Anna Lo Bianco nel suo Pietro da Cortona e la grande decorazione barocca che Pietro e Gian Lorenzo ebbero “una stessa concezione dell’arte, vitale ed eroica insieme, che giunge a rendere pulsante il bagaglio delle conoscenze classiche attraverso l’uso di una tecnica spericolata che forza le linee, esaspera le espressioni, confonde volumi e colori”.

Urbano VIII non mancò di intuire e di sostenere il talento di questi due artisti e la forza persuasiva delle loro personali declinazioni di quello che fu il linguaggio barocco, servendosene, come abbiamo visto, nel contesto del suo progetto politico, che aveva nella Basilica Vaticana e nel palazzo di famiglia i propri pilastri, e attraverso il quale egli puntò, con successo, a riaffermare il primato culturale di Roma, facendo di esso uno strumento di egemonia per sé e per il suo casato.


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