L’ombra d’un mistero intimo e profondo avvolge le più recenti opere di Wainer Vaccari. Non che l’artista modenese in passato avesse abituato il pubblico a lavori più agili da sondare: fin dall’inizio della sua carriera, sulla quale ha sempre pesato la fascinazione per il simbolismo à la Böcklin, artista da Vaccari amatissimo, le sue tele son sempre apparse come celate da una coltre imperscrutabile, che filtra la realtà restituendola sotto le sembianze d’un mondo lontano e meraviglioso, dove s’affanna tranquilla una popolazione stravagante, non meno sorprendente dei luoghi che fanno da teatro alle sue azioni, difficili da decifrare. In queste nuove opere, presentate tra la fine del 2021 e gl’inizî del 2022 alla personale Certezze soggettive che s’è tenuta alla Galleria Civica di Trento, affiorano memorie delle terre natie, evocate anche dai titoli. Nelle terre dei Gonzaga, per esempio: tela dove alcuni uomini dalle braccia forti rimestano le acque d’un lago, protetti dalle fronde cupe che a malapena celano l’insolita e inquietante presenza d’un animale viscido che spunta dietro uno di loro. È lo stesso paesaggio che torna in opere come Sotto riva, dove l’artista si concentra su di un personaggio ch’emerge dal bosco per lambire l’acqua con le labbra, o come Dove l’acqua è dolce: qui, una ninfa si sporge sul lago lasciando il bosco, come se volesse tuffarsi nell’acqua. Sul fondo spiccano alberi, forse cipressi, che ricordano quelli del prediletto Böcklin. L’aria s’appesantisce d’una bruma fosca che tinge il cielo e l’acqua di toni argentati: è la luce degl’inverni padani, la luce sospesa della valle del Po.
Sopravvive, nei lavori di Vaccari, quella materia così densa e grassa c’è tipica di certa pittura emiliana, di quella linea espressiva e orientata al naturale che l’ha attraversata nei secoli, a partire almeno dal Trecento. Francesco Arcangeli, che di quella linea fu forse il massimo studioso, ebbe a parlare di corpo, azione, sentimento e fantasia, tra naturalismo ed espressionismo. Gli stessi elementi non hanno mai abbandonato la poetica di Vaccari, che negli ultimi lavori s’è impregnata d’ulteriori intonazioni liriche: il paesaggio emiliano ne risulta così trasfigurato da questo velo caliginoso che ne restituisce un’immagine onirica, come nelle visioni simboliste di Fernand Khnopff e di Alphonse Osbert, che prende forma sotto questa pennellata connotata da una più spiccata immediatezza, ma che porta i segni della svolta che Wainer Vaccari ha impresso al suo lavoro nei primi anni Duemila, quando ha rigenerato i suoi soggetti sottoponendoli a una sorta di scansione evidenziata da quelli che lui stesso chiamava “pixel espansi”. Eccoli, dunque, i nuovi lavori di Wainer Vaccari, che non smettono di “ambire a un desiderio irrinunciabile e appagante”, come ha scritto Flavio Arensi.
Sono visioni d’acqua, verrebbe da pensare: l’elemento liquido, sempre presente nella ricerca di Vaccari, è centrale, archetipico nel senso junghiano del termine, rimanda a immagini primordiali che riemergono dall’inconscio. Si guarda Nelle terre dei Gonzaga, e vengono alla mente le nebbie dell’Emilia, sale il ricordo delle tetraggini della stagione rigida di cui sa esser capace il piano padano, pare di sentire la voce delle poesie di Umberto Bellintani, il genius loci della bassa mantovana che cantava cieli verdi di giada in una sera lungo le rive del Po, che ascoltava le voci arcane riecheggianti sulle acque dei fossi, ch’evocava la malinconia della campagna al calar del sole, capace d’ispirargli profondi interrogativi esistenziali. Si guarda Nella valle degli Elvezi, e non si può far a meno di pensare alla Svizzera dove Vaccari ha passato la sua infanzia e dove s’è misurato fin da bambino con quella “spiritualità diffusa, ancestrale” che l’artista vedeva praticare dagli abitanti in un inusuale connubio tra protestantesimo e paganesimo, “una specie di permanenza di antichi riti pagani, legati alla cultura contadina e al ciclo delle stagioni”, come Vaccari stesso ha spiegato in un’intervista rilasciata a Gabriele Lorenzoni nel catalogo di Certezze soggettive. È un ritorno in tutti i sensi, cominciato verso la metà degli anni Dieci del nuovo millennio, quello che ha sollecitato Vaccari verso questi nuovi lavori: un ritorno al linguaggio degli anni Ottanta e Novanta passata la fase più estrema della sua attività , un ritorno ai soggetti un tempo cari. Una “nuova necessità ”, l’ha definita lui stesso: “si era infatti esaurita la spinta propulsiva del percorso precedente e non potevo che tornare sui miei passi, certamente con occhi e spirito rinnovati”.
Occorre tornare al 1983 per comprendere, da un lato, le scaturigini di questo itinerario e, dall’altro, gli accadimenti che l’hanno incalzato. Quell’anno, si teneva da Mazzoli a Modena la prima personale di Vaccari, possibile grazie alla sua audacia: Emilio Mazzoli aveva conosciuto il suo lavoro, gli aveva chiesto di vendergli tutta la sua produzione recente, e Vaccari, dichiaratamente geloso del suo lavoro, aveva preteso una mostra in cambio delle opere. La rassegna s’intitolava Immagini pompose, profonde, seriose ed era curata da Achille Bonito Oliva. “All’anemia di una realtà incolore”, scriveva Bonito Oliva nel testo critico che accompagnava l’esposizione, “l’artista risponde con la rappresentazione di un’altra malattia, quella dell’esuberanza, attraverso cui compensare la proporzione quantitativa che lo sovrasta. La temperatura incandescente dell’opera gli dimostra come l’arte è un procedimento che, pur adottando proprie regole interne e specifici linguaggi, crea dei varchi nell’opacità del quotidiano, introduce una diversa visibilità del mondo”. Ed erano vera esuberanza, vero anelito a squarciare il grigiore della consuetudine, vera sensibilità da visionario le credenziali con le quali Vaccari presentava se stesso al mondo. Letteralmente: l’autoritratto del 1982, ch’è diventato una delle sue immagini più celebri, anzitutto testimonia una volontà di lavorare sulla propria identità , d’indagare l’idea che l’artista ha di sé, ed è poi un evidente manifesto poetico. L’artista si presenta in posa di tre quarti, mentre nella mano destra regge una tavolozza e un paio di pennelli, ferma e intransigente immagine da autoritratto secentesco, non fosse per il fatto che, oltre ai pennelli, il pittore tiene anche una canna, e decide di rivolgersi al riguardante con un ghigno sardonico, e intabarrato in un’enorme palandrana nera che ancora ricorda, autoironica, l’abbigliamento di Böcklin nel noto autoritratto della Nationalgalerie di Berlino. E poi, il dio Pan, la divinità dei boschi che la cristianità ha trasmutato in simbolo negativo, che gli morde il petto e che si fa allegoria ferina della sua ispirazione. Si manifesta dunque, fin da subito, una vena beffarda che non risparmia neppure l’immagine di sé. E che torna frequente nei suoi dipinti: accade, per esempio, nei Mercanti, dove una serie di personaggi che indossano ridicoli copricapi (e tra i quali vediamo, in uno specchio, anche lo stesso Vaccari) è impegnata in azioni di cui non comprendiamo il senso, e che talora ci appaiono come pervase da un’anima di follia. Quest’impossibilità d’interpretare la logica di quello che le figure fanno nei dipinti di Vaccari è un’altra costante della sua pittura: l’indefinitezza è l’approccio con cui Vaccari legge una realtà incerta e altrettanto impossibile da intendere secondo schemi predeterminati.
Ecco allora che subentra di nuovo l’ironia, in questo dipinto che innesta la solenne scansione spaziale del Piero della Francesca della cappella Bacci (richiamato, come ha giustamente notato Vittorio Sgarbi, anche nelle bizzarre fogge dei cappelli, che Vaccari esagera fino al parossismo) su di una cultura figurativa costruita sulle opere della Neue Sachlichkeit, di cui Vaccari è uno dei più intelligenti interpreti. “Pur nelle abissali differenze”, ha detto Vaccari dei pittori tedeschi del primo Novecento motivando il suo ricorso a quel repertorio d’immagini, “erano artisti che guardavano alla realtà del corpo umano, del paesaggio, della vita quotidiana: la loro forza visionaria ed espressionista mi attraeva, mi portava a deformare le figure, a dilaniare le sembianze umane pur restando sempre all’interno della figura”. C’è anzitutto Christian Schad, forse il meno radicale dei nuovi oggettivi, da cui Vaccari mutua la capacità di restituire sulla tela figure piene, precise e rifilate col rasoio, ma distanti, inquietanti fino a provocare disagio e moti di turbamento se non d’angoscia, senza che si comprenda bene perché. Con un gioco di suggestioni si può arrivare anche al realismo solitario e disilluso di Wilhelm Lachnit. Vi si può aggiungere poi la concretezza disturbante e tagliente del realismo magico di Cagnaccio da San Pietro. Ma ci si può spingere ancor più indietro: I mercanti rimandano anche alle milizie che abbondano nella pittura olandese del Seicento, per esempio. Un’opera come All’ombra delle cattedrali cita le Tentazioni di sant’Antonio del Kimbell Art Museum, famosissima perché attribuita a Michelangelo. La Ronda di giorno, fin dal titolo, fa il verso a Rembrandt, ma quella processione di orientali dal cranio rasato, che da più di trent’anni popolano le tele di Vaccari, rimanda alla Parabola dei ciechi di Bruegel. E ancora La donna dei pescatori, distesa nella natura come l’esanime Procri di Piero di Cosimo, ma con un corpo che rimanda alle sensuali Maddalene secentesche.
La tecnica di Vaccari, del resto, ci fa compiere un viaggio all’indietro nel tempo. “Lavora sullo stile”, ha scritto Flaminio Gualdoni. Uno stile “che si fa allentato e precisissimo, fatto di colpeggi brevi e velature pazienti, a dipanare una matassa cromatica in cui bruni vadyckiani, alle soglie del grigio, e terre d’ombra, e neri francesi, avvincono intromissioni brevi e forti di lacca di garanza, di cinabro, d’indaco, nelle vesti delle figure. E cola, su tutto, una luce dorata attonita o, altrove, argentina, ma salda, nitida, irritata appena da lumeggiature forti, a stagliare figure e spazi come in enigmatici interni cinquecenteschi, oppure in boeckliniani trasognati ambiti naturali”. S’aggiunga poi un innato senso per il monumentale, come risulta palmare osservando il Girovago, una specie d’ironico omaggio al Giocoliere di Antonio Donghi, e forse ancor più dalle sue figure di tuffatori, per le quali ci si potrebbe azzardare a scomodare la statuaria d’un Arturo Martini.
Ci sono poi le situazioni, le ambientazioni, le figure affaccendate in attività che ci paiono prive di senso, il gran teatro sul quale va in scena la commedia misteriosa, lenta, folle, concentrata, silenziosamente indaffarata di Wainer Vaccari. I suoi personaggi si muovono in un mondo che a sua volta è indefinito, indecifrabile, impossibile da collocare in uno spazio cronologico preciso. Indefinito, ma riconoscibile: un mondo fantastico, oscuro e impenetrabile ma al contempo quasi grottesco, che si potrebbe riassumere con le parole di Sgarbi: “un piccolo paradiso fatto di natura incontaminata, di una strana popolazione dalle forme massicce e dai tratti orientali, impegnati in ritualità misteriose, puri come in una favola, sensuali talvolta fino alla provocazione, sereni nel loro complesso, ma non privi di pungenti inquietudini”. Non a caso Sgarbi ha sempre messo in relazione con l’immaginario felliniano il mondo di Vaccari, fino a soprannominarlo “il Fellini della tela”, in un articolo pubblicato sull’Europeo nel 1991.
Queste, dunque, le coordinate dello spazio entro cui si muove l’arte di Wainer Vaccari. Poi, c’era stata la parentesi cominciata negli anni Novanta e durata più di dieci anni, durante la quale l’universo del pittore emiliano è totalmente cambiato, sorprendendo la critica con uno dei cambî di direzione più brucianti che l’arte italiana contemporanea abbia conosciuto. Un cambio di direzione repentino, drastico, ma di certo tutto fuorché incoerente, dato che per Vaccari la pittura è anzitutto una necessità . Le citazioni alla storia dell’arte avevano gradatamente lasciato il posto alle immagini da rotocalco, ma non si trattava solo d’una necessità intervenuta a modificare gl’interessi di Vaccari, circostanza che non avrebbe destato stupore. Il fatto è che la stessa grammatica di Vaccari aveva conosciuto un cambio radicale: era come se il pittore si fosse messo a parlare in un’altra lingua, completamente diversa rispetto alla prima. E così da lenta, meticolosa e meditata la sua pittura s’era fatta immediata, veloce, quasi istintiva e segnica, pareva persino estranea alla sua poetica. Volti su campiture bianche, composti di segni fatti con pennellate corte e rapide, e che a una visione superficiale parevano coprire le immagini, solitamente tratte dai mezzi d’informazione di massa, ma a ben vedere si sommavano per dar vita alla figura: quella che appariva sintesi era in realtà analisi. Ci si domandava, allora, se fosse spenta ogni possibilità di veder tornare quei “paradisi” che avevano contraddistinto l’arte di Wainer Vaccari fino alla fine degli anni Novanta. La risposta è arrivata dopo poco più di dieci anni: una sorta di nuovo rappel à l’ordre ha garantito la loro ricomparsa.
Sono tornati i mondi fantastici, sono tornate le atmosfere rarefatte dei primi anni, è tornata la poesia dell’incertezza, sono tornati persino gli onnipresenti ed ermetici orientali (a volte anche in fila come nelle Ronde: eccoli per esempio che, nel dipinto Di torre in torre, s’arrampicano sulla Ghirlandina, il campanile del Duomo di Modena), è tornato il gran mistero che intride la sua opera e che inganna il riguardante. A volte ritornano è il titolo della mostra con la quale, in questa singolare palingenesi di cui si fatica a trovare esempî paragonabili in tempi recenti, Vaccari s’è di nuovo presentato a pubblico e critica, nel 2014, alla galleria Levy di Amburgo. E talvolta Vaccari è tornato con potenza deflagrante, come accade in Buon compleanno, opera dal titolo completamente irrelato a ciò che osserviamo sulla superficie della tela: uno dei personaggi dalla testa rasata emerge da uno stagno e davanti a lui una donna sembra quasi tentarlo spalancando le gambe. Cosa sia successo prima e cosa accadrà dopo, non è dato sapere. Al riguardante il compito di provare a penetrare il mistero.
E poi, nei tempi più recenti, s’è fatto più insistente anche il ritorno al familiare, alla provincia. Una provincia come microcosmo delle radici, della memoria, evocata, lo s’è visto in apertura, col solito approccio che accarezza il surreale: se Vaccari trova in Fellini un omologo nel cinema, in letteratura un parallelo potrebbe esser tracciato con l’umorismo emiliano dei racconti di Cesare Zavattini. Lo si potrebbe pensare osservando una delle opere più recenti di Wainer Vaccari, il Miracolo di San Geminiano, un potente sottinsù che accoglie gli avventori dell’Osteria Francescana di Massimo Bottura e che richiama gli scorci più arditi del Tintoretto per raccontare uno dei prodigi più noti del santo patrono di Modena: vuole l’agiografia che un bambino fosse salito assieme alla madre sulla Ghirlandina, e che affacciandosi da una finestra il piccolo fosse precipitato nel vuoto. La madre pregò il santo, che puntualmente si presentò, e trasse in salvo il pargolo. E Vaccari ha dipinto san Geminiano mentre acciuffa il bambino (in senso letterale, dato che lo agguanta per i capelli), pochi metri prima che tocchi terra. “Ho cercato di rendere la scena più credibile”, ha dichiarato Vaccari. “Se veniva dal cielo, l’unico veicolo possibile era la nuvola. In tanti altri affreschi i santi si appoggiano alle nuvole. Poi mi sono detto: devid are una visione azzardata per rendere drammatica la scena. Così l’ho raffigurata dal basso. Il bambino sta per arrivare a terra. È a pochi metri. La Ghirlandina è in prospettiva. Il santo lo afferra per i capelli. Il mio racconto finisce qui”. In pratica, il racconto d’un salvataggio da cinema d’azione in un dipinto che rinfresca l’iconografia religiosa.
L’attenzione nei riguardi di Vaccari è tornata a salire in tempi recenti, con la riscoperta della pittura figurativa e, segnatamente, col diffondersi d’una moda, tra i collezionisti, per i pittori che per tutto il Novecento, e in certi casi anche oltre, hanno continuato a misurarsi coi linguaggi e i temi del surrealismo. Le scelte che hanno sostenuto il progetto della Biennale di Venezia di quest’anno sono il certificato più eloquente di questi rinnovati interessi per una ricerca che si discosta da quella delle neoavanguardie, che pure tenevano il campo fino a non molto tempo fa. E fino a non molto tempo fa, si sarebbe discusso a lungo sulla contemporaneità di Vaccari. Tutti coloro che intendono il contemporaneo come militanza che non ammette posizioni di recupero anche se in sintonia col proprio tempo, o come puro e ossessivo sperimentalismo (e poco importa, poi, quanto sia vano e conformista), si sarebbero interrogati dinnanzi al suo sguardo retrospettivo, ai suoi legami con la tradizione, al suo recupero d’una grammatica anticheggiante. Vaccari è pittore contemporaneo intanto perché vive, lavora e s’esprime nel presente, condizione dalla quale non si può prescindere. E poi, si potrebbe aggiungere, le sue ricerche nascono in un momento storico in cui l’inattualità era una necessità : nel clima d’affermazione del postmoderno, ha scritto Carlo Sala, “era favorito il recupero delle diversità , anche locali, e la rilettura della tradizione visiva nella convinzione che un’idea prettamente lineare dell’evoluzione della storia dell’arte andasse sostituita con una visione circolare che, pur avanzando, sapesse raccogliere e mutuare alcuni momenti di quel grande ‘giacimento’ che è la cultura visiva del passato”. Da qui prende le mosse la ricerca di Wainer Vaccari.
Ma Vaccari è forse ancor più contemporaneo di altri se è vero quel che sosteneva il Nietzsche delle Considerazioni inattuali, e cioè che appartiene davvero alla sua epoca chi, nella piena consapevolezza dell’impossibilità di sfuggire al proprio tempo e con l’intento di non volgersi all’indietro con lo sguardo del nostalgico, agisce contro i miti e le idee dominanti ed è perciò in grado di maturare quel distacco che gli consente di non adeguarsi, di non omologarsi e d’offrire della contemporaneità una lettura precisa. “La contemporaneità ”, per dirla con le parole di Agamben, “è una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze; piú precisamente, essa è quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo. Coloro che coincidono troppo pienamente con l’epoca, che combaciano in ogni punto perfettamente con essa, non sono contemporanei perché, proprio per questo, non riescono a vederla, non possono tenere fisso lo sguardo su di essa”. Vaccari guarda alla contemporaneità col distacco dato dalla disciplina, dalla cultura e dalla libertà d’un pittore che non è congelato in un rigido accademismo (è vero anzi l’opposto: il ricorso al passato nasce dall’esperienza e dalla necessità ), che non adotta la tradizione come fosse un riparo o ancor peggio un ripiego, ma la legge, col suo accento visionario, per interrogarsi sulla realtà , per stabilire uno spazio della pittura in cui s’esplorano le profondità delle passioni, dei sogni, della memoria, dove s’intrecciano l’elegiaco e il grottesco, l’angosciante e l’inusuale, il domestico e il comico. In breve, dov’entra in scena il teatro della vita, con tutte le sue incertezze.
La tua lettura settimanale su tutto il mondo dell'arte
ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERL'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).