“In antico religioni e filosofie non vissero se non di silenzio: conobbero e osservarono la necessità del silenzio. Quelle che a tal necessità si sottrassero, quelle furono sempre mal comprese difformate profanate avvilite”. Nel suo Libro segreto, Gabriele D’Annunzio rimarcava il ruolo che il silenzio aveva nelle società antiche. Basterà solo rammentare quel che Aulo Gellio scriveva sulla scuola di Pitagora: è divenuto proverbiale il silenzio che, stando a ciò che riporta lo scrittore romano, i discepoli del grande matematico erano tenuti a osservare per almeno un paio d’anni prima di potersi avvicinare ai suoi insegnamenti. E anche per chi s’avvicina a un’opera d’arte spesso il silenzio è un’esigenza, che paradossalmente, ricordava André Chastel in un suo memorabile saggio sul Signum harpocraticum, sconfessa il secolare stereotipo sulle opere ritenute particolarmente riuscite: quello secondo cui a tali capolavori di perfezione, specie se si parla di scultura, mancherebbe soltanto la parola. L’essenza d’un’opera d’arte è nel silenzio. E c’è poi un silenzio che rimanda a una dimensione d’attesa, di ansia, d’insondabile mistero, di dolore, di morte.
Le anime del silenzio son tutte racchiuse in una conturbante immagine che Giorgio Kienerk dipinse nel 1900, all’inizio del nuovo secolo. È una donna, con una veste scura, calata a svelare il torso, che poggia i gomiti sulle ginocchia, coprendo il seno con gli avambracci e portando le mani alla bocca per chiuderla. Nessun signum harpocraticum, dunque, ma un gesto molto più brutale e violento, che evoca scenarî decisamente minacciosi. Tant’è che lo sguardo è angosciato, quasi spaventato. Attorno a lei il cerchio mistico, ai suoi piedi un teschio. L’artista fiorentino aveva intitolato Il Silenzio questa sua opera, e la presentò alla Biennale di Venezia del 1901: il successo fu tale da spingere l’artista a esporre il dipinto in diversi contesti internazionali. Nelle sue intenzioni, Il Silenzio doveva far parte d’un trittico, assieme al Piacere e al Dolore. Ma finché Kienerk fu in vita, non gli riuscì mai d’esporre tutte e tre le opere assieme: solo dal 1913 cominciò a portare in giro Il Dolore, mentre Il Piacere rimase sempre nel suo studio. Oggi le tre opere sono esposte assieme ai Musei Civici di Pavia, ma è Il Silenzio l’opera che più cattura il riguardante. È un dipinto magico, un dipinto che suscita sentimenti contrastanti, che attira e respinge, cattura e allontana, affascina e inquieta. È un dipinto neppure privo d’accenti d’erotismo. L’eros vive nel silenzio, e il silenzio ha una sua dimensione erotica. Joséphin Péladan, l’eccentrico fondatore dell’Ordre kabbalistique de la Rose-Croix, nel suo À coeur perdu era riuscito a sintetizzare la carica erotica del silenzio in poche righe che subito saltano alla mente quando s’osserva Il Silenzio di Kienerk: “Silence des lèvres, sans paroles et sans baisers, silence des mains sans caresses, silence des nerfs détendus, silence de la peau desélectrisée et froide; et tout ce silence glaçant une vierge enflammée par la douleur de l’amplexion et qui attend le plaisir enfin” (“silenzio delle labbra, senza parole e senza baci, silenzio delle mani senza carezze, silenzio dei nervi distesi, silenzio della pelle priva d’elettricità e fredda; e tutto questo silenzio che ghiaccia una vergine infiammata dal dolore dell’amplesso e che attende infine il piacere”).
Giorgio Kienerk, Il silenzio (1900; olio su tela, 170,5 x 94 cm; Pavia, Musei Civici) |
Eppure s’avverte anche un senso d’oppressione, di trepida angoscia: Il Silenzio è un dipinto freddo, cupo, fosco, ambientato in una notte tetra e desolata, e la presenza di quel teschio ai piedi della donna che si tappa la bocca mette ancor più a disagio l’osservatore. Kienerk percorre uno dei temi più cari al simbolismo, l’opposizione tra eros e thanatos: la sensualità della donna ci appare dunque lontana, inaccessibile, negata dal memento mori che la introduce a chi la guarda, come se arrivasse da un mondo che non è quello degli esseri umani, creatura dell’aldilà, visione che appare in una notte gelida.
Sono ben noti, del resto, gl’interessi esoterici di Giorgio Kienerk, la sua passione per l’occultismo e per la teosofia, tutto apertamente dichiarato in una lettera che l’artista inviò nel maggio del 1901 a Mario Novaro, fondatore della rivista La Riviera Ligure. Kienerk aveva soggiornato a più riprese in Liguria a partire dal 1891, e Genova era uno dei centri propulsori dell’occultismo e della dottrina teosofica in Italia: la città, che aveva visto il proprio volto cambiare durante la rivoluzione industriale, come tutti i grandi centri europei che a fine Ottocento avevano conosciuto una rapida crescita urbanistica e un repentino sviluppo industriale ed economico, manifestava la propria inquietudine nei confronti delle conquiste della scienza e dell’industria immergendosi nell’intangibile, sondando l’imperscrutabile, mettendo in discussione il pensiero positivista attraverso la continua esplorazione d’una realtà che andasse oltre quella che si può percepire coi sensi. Il Silenzio è uno dei frutti più maturi e significativi di questa temperie culturale. Ecco quindi che l’immagine del silenzio cui Kienerk dà forma finisce per costituire, ha scritto Piero Pacini, “la risposta immediata di stati d’animo e di impulsi sotterranei che accompagnano l’esperienza quotidiana”.
Ci s’accorgerà che però questo Silenzio di Kienerk si muove sul confine estetico tra il verismo della sua formazione, evidente nel volto della ragazza, nelle sue braccia così ben tornite, in quello sguardo così reale, e un senso d’astrazione molto pervasivo, da riscontrare, per adoperare le parole della studiosa Elena Querci, “nell’idea del cerchio” che isola la giovane, “nel colore inusuale, acido, quasi sgradevole del fondo, infine nell’idea di far fluttuare la figura lasciando indefinito il sostegno su cui poggia”: è qui che “sono racchiuse le componenti astrattive del dipinto”. Questa opposizione pare quasi la traduzione estetica del dissidio d’un artista che comunque, pur nei suoi turbamenti esoterici, sembra agitato più da un disagio esistenziale che dalla smania d’esplorare l’inesplorabile. Ed è dunque interessante tornare al titolo che Kienerk aveva pensato per il trittico di cui Il Silenzio avrebbe costituito il pannello centrale, e che ci è stato tramandato dagli appunti autografi dell’artista: L’Enigma Umano.
Dolore, silenzio, piacere: tre momenti della vita di ogni essere umano al centro d’un trittico meditato e pensoso, lontano da un’elaborazione impulsiva e avventata del mistero della vita. Per leggere Il Silenzio occorre dunque tornare alle letture che accompagnavano le giornate di Kienerk in quello scorcio d’inizio secolo, che lo indirizzarono verso la filosofia e in particolare verso la filosofia esoterica indiana e l’occultismo: sappiamo, per esempio, che tra i suoi libri figurava La filosofia esoterica dell’india di Jagadish Chandra Chatterji, agile sintesi delle discipline esoteriche indiane specificamente pensato per il pubblico occidentale. Per Kienerk, questi continui viaggi nell’esoterismo avevano un fine: erano per lui, e lo dichiarò l’artista stesso a Novaro, “tutte cose che sollevano l’animo e tendono a farci sopportare con calma le avversità che per legge di causa ci si crea in ogni esistenza”. E probabilmente, suggerisce Querci, Kienerk doveva conoscere anche il pensiero dei Rose-Croix, per i quali il silenzio ricopriva una funzione di mediatore tra il dolore e il piacere, facendo superare il primo per arrivare al secondo: è la dimensione evocata dalle stesse parole di Péladan sull’eros del silenzio. Per Kienerk, immergersi negli abissi dell’occulto significava trovare delle risposte per i problemi più drammatici e profondi del reale.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).