In quel sottile lembo di pianura al confine tra Toscana e Liguria, stretto tra le colline da una parte e il mare dall’altra, il viaggiatore che percorre l’Aurelia muovendosi verso Sarzana noterà a un certo punto, tra le attività commerciali, i depositi e i campi coltivati che punteggiano questa zona così operosa, una chiesetta ottocentesca dall’aspetto anonimo, incollata al bordo sinistro della statale, e preceduta da tre tigli che sembrano quasi farle da guardia. È la chiesa di San Lazzaro, frazione di Sarzana: una manciata di villette, officine e capannoni in mezzo alle campagne, guardata a vista dalle Colline del Sole, dove vigneti e ulivi si contendono i dolci pendii che digradano verso la piana del Magra.
Qui sorgeva l’antico ospedale, di cui oggi non rimane altro che un rudere sull’Aurelia, qualche centinaio di metri più a sud della chiesa: citato fin dal XII secolo, offriva ricovero ai viandanti e ai pellegrini diretti verso Roma, specie a quelli malati, lungo la direttrice della via romea (o della “via Francigena”, per adoperare i termini delle categorizzazioni turistiche contemporanee) che scendeva dalla Lunigiana, attraversava la val di Magra e poi, toccando il borgo di Avenza, superava la riviera apuana e proseguiva in direzione della Versilia. Dove adesso c’è il quartiere di San Lazzaro, una volta non c’era niente: solo un ospedale circondato da boscaglia. Poi, nel Settecento, arrivò la chiusura del ricovero, che fu trasformato di modo che le sue strutture fossero adibite a uso agricolo: finiva la storia degli antichi viandanti, cominciava quella dei moderni commerci. E la cappella del convento ebbe un’erede: nel 1842 fu istituita la parrocchia di San Lazzaro e si decise per la costruzione della nuova chiesa, cominciata l’anno successivo e consacrata nel 1880. Ma già qualche anno prima, verso la metà degli anni Settanta, la cappelletta cominciò a esser svuotata: lo storico locale Achille Neri aveva lamentato il degrado del lazzaretto, auspicando una più degna collocazione per le sue ricchezze. E venne ascoltato. Ecco dunque perché questa chiesetta così giovane e così ordinaria custodisce un tesoro straordinario, uno dei dipinti più affascinanti del Seicento ligure: il San Lazzaro che implora la Vergine per la città di Sarzana, capolavoro giovanile di Domenico Fiasella.
Domenico Fiasella, San Lazzaro implora la Vergine per la città di Sarzana (1616; olio su tela, 213 x 149 cm; Sarzana, San Lazzaro) |
Il grande artista sarzanese aveva eseguito l’opera nel 1616, in appena un mese, al ritorno da un lungo soggiorno formativo a Roma, durato dieci anni: evidentemente Fiasella dovette avvertire fin da giovanissimo d’avere un talento eccezionale, dal momento che manifestò molto presto l’intento di recarsi nella capitale dello Stato Pontificio per osservare da vicino ciò che né la sua città natale, né la Genova dove s’era trasferito poco prima per studiare da Giovanni Battista Paggi, potevano dargli: la possibilità d’imparare il mestiere dai più grandi. A Roma, Fiasella ebbe modo d’osservare i dipinti di Caravaggio e dei caravaggeschi, di Orazio Gentileschi, di Guido Reni e dei bolognesi, oltre che dei più illustri esponenti della maniera, da Federico Zuccari al Cigoli.
Nella tela di San Lazzaro troviamo pertanto molti degli spunti che Domenico Fiasella seppe ricavare dall’osservazione degli artisti più aggiornati del suo tempo. È un’opera di semplice lettura: una caratteristica che sarà tipica di pressoché tutta la produzione fiasellesca. San Lazzaro, vestito di stracci logori, è inginocchiato ai piedi della Madonna, che gli appare assisa su di un trono di nubi, circondata da una folta schiera d’angeli, tra i quali ne spicca uno, bizzarro, dalle ali nere. Le figure sono vicinissime, ma non potrebbero esser più lontane: il profilo ruvido, sporco e popolaresco di san Lazzaro è l’esatto opposto del candore e della purezza di questa Vergine adolescente, che lo guarda compassionevole, mentre tiene tra le mani il Bambino, appoggiato sbilenco sul suo ginocchio sinistro. Ma non c’è contrasto: l’incontro tra naturalismo e classicismo è equilibrato, armonioso. E diventerà uno degli elementi peculiari della grande arte di Domenico Fiasella. San Lazzaro, accompagnato da uno dei cani che nella parabola evangelica gli leccano le piaghe, sta invocando protezione per la città di Sarzana: ne vediamo lo skyline in basso, tra le nubi che annunciano foschi temporali, con la Porta del Mare oggi non più esistente, il campanile della Cattedrale e quello della chiesa di Sant’Andrea che si stagliano sui palazzi attorno, e nel mezzo il possente profilo della Fortezza di Sarzanello, che in realtà domina la città dall’alto d’un colle, ma il pittore l’ha dipinta come se fosse in centro.
Il dipinto era stato commissionato il 4 marzo del 1616 a Domenico Fiasella dai Protettori dell’Opera di Santa Maria, che s’occupavano della chiesa dell’ospedale, cui era destinata la pala. Il giovane pittore non deluse le aspettative: aveva consegnato “un’opera di grande impegno”, ha scritto Piero Donati, “attraverso la quale il Fiasella, allora ventisettenne, voleva dimostrare ai concittadini di aver ben speso i lunghi anni trascorsi a Roma”. Quello che ci si presenta dinnanzi agli occhi nella chiesa di San Lazzaro è dunque un capolavoro di “naturalismo temperato o caravaggismo rivisitato”, per adoperare ancora un’espressione di Donati: “si nota qui, nella figura del santo mendico, una convinta partecipazione del Fiasella alle sperimentazioni sul naturale condotte dai seguaci del Caravaggio, ed in particolare dal Baburen e da Jusepe de Ribera”. Fiasella aveva osservato a lungo le opere dell’olandese e dello spagnolo nella collezione di Vincenzo Giustiniani, che il pittore aveva conosciuto nel 1611: il nobile genovese, peraltro, sarebbe divenuto un suo convinto sostenitore, dacché negl’inventarî della sua raccolta redatti poco dopo la sua scomparsa vengono menzionate quattro opere di Domenico Fiasella. Il naturalismo caravaggesco è dunque il faro sotto il quale il sarzanese modella il corpo di san Lazzaro, un corpo vivo e presente: la luce fa risaltare i muscoli del braccio, il colorito olivastro della pelle del mendicante è accentuato dal bianco degli stracci annodati alla bell’e meglio attorno alla vita e realisticamente insudiciati dal pennello dell’artista (fino al brano della benda insanguinata che avvolge la gamba di san Lazzaro), il suo volto smunto è colto in un’espressione addolorata e supplichevole.
La Vergine, al contrario, sorprende per la sua bellezza cristallina, delicata, eterea, classica, che rimanda all’arte dei Carracci o di Giovanni Lanfranco, anch’essi conosciuti a Roma. È posta sul trono di tre quarti, esattamente come la Madonna della Pala di Sarzana di Andrea del Sarto, capolavoro poi finito in Germania e andato distrutto nell’incendio della Flakturm Friedrichshain. L’opera del fiorentino era stata uno dei testi fondanti della formazione di Domenico Fiasella: Raffaele Soprani, nelle sue Vite, restituisce l’immagine d’un Fiasella che osserva, studia con attenzione e disegna più e più volte la tavola di Andrea del Sarto, che “così bene l’ammaestrò nella vera regola del buon dissegno, maestria di componimenti, e bella pratica di colorir con dolcezza, che gli è riuscito di rendersi cospicuo tra tutti coloro che a giorni nostri hanno con esquisitezza di pennello colorite tele”. È bello pensare che Fiasella abbia voluto omaggiare il suo maestro ideale: la fascia che tiene fermi i capelli della Vergine, decisamente démodé agl’inizî del Seicento, è identica a quella che si poteva osservare nell’ancona di Andrea del Sarto.
Ed è interessante pensare che la pala doveva salvare Sarzana da pericoli che avrebbero potuto minacciarla. Pericoli cui rimanda l’allegorico temporale che incombe sulla città oscurando minaccioso gli edifici e le poche presenze umane che vi s’intravedono, e pericoli ben precisi, dato che Lazzaro era venerato come protettore dei lebbrosi: malattie, pestilenze, epidemie. All’epoca, ci s’affidava ai santi: ed ecco che quel capolavoro di Domenico Fiasella non è più solo una straordinaria opera d’arte, ma una memoria che ci parla, una viva testimonianza che ci ricorda com’eravamo e ci fa pensare a come siamo.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).