Da molto tempo la comunità scientifica s’interroga sull’identità della dama raffigurata nel Ritratto di Dama in rosso, uno dei capolavori dello Städel Museum di Francoforte. Ma si è a lungo interrogata anche sull’identità dell’artista che lo ha dipinto, oscillando tra il Pontormo (Jacopo Carucci; Pontorme di Empoli, 1494 – Firenze, 1557), e il suo miglior allievo, il Bronzino (Agnolo Tori; Firenze, 1503 – 1572), anche se gli ultimi orientamenti hanno condotto gli studiosi verso il Bronzino, con significativi margini di sicurezza. È uno dei ritratti più noti del Manierismo: raffigura una dama elegante, appartenente, come si desume dall’abbigliamento, a una famiglia fiorentina altolocata. Lo studioso Philippe Costamagna, uno dei maggiori esperti del Bronzino, ha pensato d’individuare, nell’immagine dell’effigiata, un ritratto di Francesca Salviati (Firenze, 1504 – 1572 circa), figlia di Jacopo Salviati e di Lucrezia de’ Medici, quest’ultima figlia primogenita di Lorenzo il Magnifico: Francesca Salviati era dunque nipote del signore che aveva retto le sorti di Firenze sul finire del Quattrocento, anche se nacque diversi anni dopo la scomparsa del nonno. Era inoltre sorella di Maria Salviati, madre del futuro granduca Cosimo I de’ Medici e moglie di Giovanni dalle Bande Nere. Francesca era, insomma, una importante donna di casa Medici, e nel 1533 sposò Ottaviano de’ Medici, che peraltro era committente del Pontormo. Secondo Costamagna, questo dipinto potrebbe esser stato realizzato proprio in occasione del matrimonio, anche se non esiste alcuna traccia di un eventuale suo passaggio nelle raccolte dei Medici.
Di sicuro, se ipotizziamo che il dipinto dovette passare attraverso le loro raccolte, ne era già uscito nel 1612, quando è registrato negli inventarî dei Riccardi, come ritratto di una dama con cagnolino, eseguito da Pontormo, senza ulteriori specificazioni sul soggetto o sulla sua antica provenienza (“Un ritratto di simile altezza di mano di Jac.o da Puntormo, dentrovi una donna con un cannino, e con ornam.to dorato”). Su quali basi è stata proposta l’identificazione con Francesca Salviati? I colori prevalenti dell’abbigliamento, il bianco e il rosso, sono quelli dello stemma della famiglia, anche se, ha sottolineato Costamagna, non necessariamente le cromie delle vesti ricoprono un ruolo legato all’araldica (senza contare, poi, che rosso e bianco sono i colori anche di altre famiglie, per esempio i Cybo): più rivelatore è, semmai, l’anello di diamante che la dama porta sulla mano destra, di foggia medicea, inserito probabilmente per rimarcare la discendenza della signora, o la sua appartenenza a una famiglia alleata dei Medici. È comunque abbastanza evidente, ha scritto lo studioso, che il dipinto “ha già le caratteristiche del ritratto di Stato, tanto per la sua monumentalità che come allegoria delle aspirazioni genealogiche di un ramo della famiglia”. E si tratta, probabilmente, del “primo ritratto femminile dipinto a Firenze con tutte le caratteristiche del ritratto di corte”, se ammettiamo che il Bronzino lo eseguì all’incirca nel 1532, o comunque dopo il suo ritorno dal soggiorno a Pesaro (secondo studiosi come Alessandro Cecchi, Antonio Natali e Angelo Maria Monaco, potrebbe invece esser stato eseguito proprio durante il soggiorno marchigiano, e di conseguenza la signora potrebbe essere una qualche dama della corte di Urbino, ma c’è anche chi, come Gabrielle Langdon, anticipa addirittura l’opera agli anni Venti). C’è anche chi ha proposto altre identificazioni: per esempio alcuni studiosi hanno suggerito di vedere nel Ritratto di dama in rosso l’effigie di Maria Salviati, sorella di Francesca, sulla base di raffronti fisiognomici con altri ritratti noti della donna, come quelli del Pontormo conservati a Baltimora e agli Uffizi, sebbene ci sia un argomento che pone un serio ostacolo. Maria infatti rimase vedova nel 1526, e l’abbigliamento che la signora sfoggia nel ritratto del Bronzino è del tutto inadatto a una donna che ha perso il marito (le vedove venivano infatti ritratte con vesti nere). Il problema si risolverebbe anticipando la datazione, ma un’eventuale esecuzione così precoce, pure sostenuta da parte della critica, pone problemi di raffronti con altre opere: non ci sarebbero, prima del 1526, opere che possano essere accostate con convinzione al dipinto dello Städel.
Elegante, sofisticata, avvolta nel suo rutilante abito rosso che copre la camicia candida, e con il cagnolino seduto, docile, sul suo grembo, la dama del Bronzino incarna la quintessenza della ritrattistica più aggiornata del Cinquecento fiorentino. La caratteristica che più risalta sono le cromie accese e contrastanti, a cominciare dal cinabro della veste che quasi cozza con violenza con il blu scuro delle maniche e con il verde bottiglia della poltrona, una savonarola, su cui la dama siede (poltrona, peraltro, decorata con un mascherone dorato che evidenzia il gusto per il bizzarro e per il grottesco tipico del Manierismo: si tratta peraltro di una decorazione vicinissima a quella che compare nel Ritratto di giovane del Bronzino conservato al Metropolitan Museum di New York, uno dei dipinti che, per resa cromatica, atmosfera e impressione generale più s’avvicinano all’opera dello Städel Museum). Sotto questo elemento vediamo peraltro una maniglia che assume la forma di due delfini che stringono tra le bocche una palla: poiché la palla era simbolo dei Medici, si ritiene che questo particolare decorativo possa essere un ulteriore rimando alla famiglia che dominava la Firenze del XVI secolo. E, a proposito di elementi simbolici, è sicuramente curiosa la lettura che Gabrielle Langdon ha dato del pomolo della sedia: un rimando alla mela dorata di Venere per trasmettere l’immagine della giovane donna, della giovane moglie, come quella d’una Venere che custodisce tutte le virtù dell’amore. Ma oltre al profano c’è anche il sacro: la dama tiene infatti con la mano destra un rosario, simbolo della sua devozione. Ad ogni modo, che si tratti dell’immagine d’una donna sposata è reso poi ulteriormente evidente dalla presenza del cane, chiaro simbolo di fedeltà coniugale. L’animale, è stato osservato da Stefano Zuffi, è uno spaniel, un cane di piccola taglia che appare in tantissimi ritratti coevi, per esempio il Ritratto di Eleonora Gonzaga Della Rovere di Tiziano del 1537, oppure il Ritratto di Clarice Strozzi del 1542, e addirittura lo vediamo nella Venere di Urbino di Tiziano, segno che la razza spaniel doveva essere particolarmente di moda in quegli anni.
E che si tratti di un dipinto del Bronzino è stato largamente argomentato su base stilistica: possiamo dire che ci troviamo qui agli esordî della ritrattistica del Bronzino, in una fase in cui l’artista, allora all’incirca trentenne, risulta ancora legato al maestro (di qui la tradizionale attribuzione al Pontormo), ma è già ormai instradato verso l’elaborazione di quella sua ritrattistica algida, distaccata, quasi astratta, eppure capace d’offrire al riguardante una precisione priva di paragoni, sensazioni tattili difficilmente riscontrabili nella produzione di altri ritrattisti del tempo, e soprattutto capace di trasmettere, più che un’immagine dell’effigiato, l’idea di ciò che il soggetto rappresenta. I ritratti del Bronzino sono essenzialmente ritratti ufficiali, ritratti del potere, ritratti che indicano uno status, un’appartenenza, o una collocazione in una rete di relazioni. Il Bronzino, con la sua dama in rosso, sta ancora elaborando il modello: l’espressione, infatti, non è ancora quella glaciale del Ritratto di Lucrezia Panciatichi, dacché si nota ancora un moto d’umanità nell’espressione della presunta Francesca Salviati, che con la bocca pare quasi accennare un sorriso, e i volumi non sono quelli quasi geometrici che contraddistinguono il sofisticatissimo ritratto del 1541 circa oggi conservato agli Uffizi. La strada, comunque, è già tracciata.
Già in questo ritratto s’intravede però tutta quella perfezione nella resa dei dettagli che ha portato molti studiosi, almeno a partire da Charles McCorquodale nel 1981 (il primo a parlare con convinzione d’un’autografia bronzinesca per questo dipinto), a escludere l’attribuzione al Pontormo. Altri elementi rimandano poi al suo giovane allievo, a cominciare dallo sguardo evasivo della dama, e da quella finezza delle descrizioni che s’apprezza soprattutto nelle decorazioni: si osservino dunque i gioielli, lo sguardo, ma anche altri elementi come le pieghe della camicia, il pelo del cagnolino, o la rete che tiene fermi i capelli. Difficilmente un’accuratezza simile si riscontra nei dipinti del Pontormo, che mai indugiava in minuzie descrittive. Per avere un termine di paragone, si potrebbe chiamare in causa il Ritratto di giovinetto del Museo Nazionale di Palazzo Mansi a Lucca, opera che l’empolese dipinse all’incirca tra il 1525 e il 1530, oppure si potrebbe osservare l’Alabardiere del Getty Museum: si noterà, soprattutto nel primo, una pittura più corsiva e distesa, mentre nell’Alabardiere, che è forse quanto più di pontormesco s’avvicini al Ritratto di dama in rosso, la resa di certi dettagli (come l’elsa della spada o la catena d’oro che il personaggio indossa) non eguaglia la qualità lenticolare di quella della dama di Francoforte. Viceversa, la resa dei dettagli dei pezzi di oreficeria richiama quella del Ritratto di Eleonora di Toledo degli Uffizi, il capolavoro della ritrattistica del Bronzino, mentre il riflesso delle dita della dama sul pomolo della sedia, una finezza da virtuoso, è lo stesso che si riscontra sull’elmo del Ritratto di Cosimo I: anche in quest’ultimo dipinto si nota il brano di virtuosismo delle dita che proiettano la loro immagine sul metallo. Tutto, insomma, riconduce ai più fini ritratti del Bronzino.
Gli elementi iconografici del dipinto del Bronzino, e anche la stessa posa della signora, contribuiscono a suggerire in effetti all’osservatore un pervadente senso di nobiltà d’animo, di bellezza esteriore ma anche interiore: occorre anche notare, oltre agli elementi che sottolineano le virtù della donna, dei quali s’è detto, anche la presenza dei libri appoggiati sulla panchina in pietra serena ai piedi della nicchia che fa da quinta architettonica alla dama, per accrescere il senso di distanza. I libri sono simbolo del suo amore per le lettere. Lo studioso Angelo Maria Monaco ha peraltro individuato nei libri un ulteriore sostegno a supporto dell’attribuzione al Bronzino, poiché libri dipinti nello stesso modo, e cioè raffigurati vicino all’effigiato (e non tra le sue mani, come accadeva più spesso), compaiono anche in alcuni ritratti eseguiti dall’artista fiorentino tra il 1533 e il 1545.
Nei primi dell’Ottocento, il dipinto era sul mercato fiorentino, e passò per diverse collezioni private finché, nel 1882, non venne acquistato dalla Kunstverein di Francoforte, e da allora è sempre rimasto nella città tedesca. E proprio qui, al Ritratto di dama in rosso è stato reso un omaggio da uno dei più importanti artisti del secondo Novecento, John Baldessari (National City, 1931 – Los Angeles, 2020). L’area del dipinto in cui si trovano le mani della donna e le zampe del cane è infatti diventata soggetto di un’opera di Baldessari, Movie Scripts / Art: Hang in there, del 2014, dove il dettaglio dell’opera compare assieme a un testo scritto in caratteri da macchina da scrivere, simile al copione di un film (questa, peraltro, la traduzione di “movie script”), che racconta di un’asta fittizia da Sotheby’s a New York alla quale partecipano due personaggi, Arthur e Hans, che stanno osservando il catalogo della vendita proprio nel punto in cui si trova il dettaglio del dipinto. Il banditore chiede se ci sono offerte da 1,2 milioni, Arthur alza la sua paletta, Hans si rivolge alla sua fidanzata Gwen dicendo, riferendosi ad Arthur, che “quel tipo è pazzo”, e chiedendo a lei se sia il caso di rilanciare, e Gwen risponde: “certo, hai uno yacht, lo devi appendere lì”.
Baldessari è partito dai lavori dello Städel Museum, tra cui il Ritratto di dama in rosso, per sondare il rapporto tra pittura e fotografia e tra immagine e linguaggio, realizzando delle opere provocatorie, ironiche, dissacranti, che assumono un punto di vista critico sulle istituzioni che conservano l’arte, sui meccanismi che regolano questo mondo, ma anche sul modo in cui noi stessi guardiamo l’arte. Il lavoro di Baldessari ci ricorda, in fondo, che quel dipinto che oggi ammiriamo appeso alla parete di un museo, e verso il quale magari ci avviciniamo con una certa, rispettosa deferenza, in antico quasi sicuramente adornava la casa di un ricco personaggio del tempo, un personaggio che oggi non avrebbe problemi a offrire più di un milione di dollari per comprare un quadro da museo al fine di destinarlo al suo yacht. La distanza temporale magari ci rende difficile pensarlo, ma l’arte contemporanea ci ha rammentato a cosa poteva servire un ritratto di uno dei più grandi artisti del tempo: a sottolineare uno status, un’appartenenza. E la dama del Bronzino era molto più materiale di quanto potrebbe apparire... !
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
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