È un ritorno atteso quello dei pittori Bernardino e Francesco Zaganelli a Cotignola. L’acquisizione recente di un dipinto, il primo ad entrare nelle collezioni pubbliche della cittadina romagnola, consente alla comunità di riappropriarsi di un’identità perduta da oltre cinque secoli. Una mostra curata da Federico Settembrini e Raffaella Zama presenta l’opera al pubblico col singolare titolo di “Novena”: Bernardino e Francesco Zaganelli | Franco Pozzi - Nicola Samorì. Storie di un Cristo Portacroce acquisito tra varianti antiche e meditazioni contemporanee (Museo Civico Luigi Varoli, Palazzo Sforza, dall’11 dicembre 2021 al 6 marzo 2022, Testi in catalogo di Massimiliano Fabbri, Alessandro Giovanardi, Giorgio Martini, Massimo Pulini e Raffaella Zama).
Cresciuti nel piccolo, ma nobile castello di Cotignola, i due fratelli sono documentati a partire dalla fine del Quattrocento. È il tempo in cui la dinastia degli Sforza, che qui aveva avuto i natali, era giunta all’apice dello splendore grazie alle ambizioni di Lodovico il Moro e il castello, annesso al ducato di Milano, godeva di una posizione di grande privilegio. In tale contesto, tuttavia non affatto sufficiente a giustificare una formazione di così ampio respiro e per giunta in un territorio appartato rispetto ai centri regionali dominanti, Bernardino e Francesco emergono come “il fiore più fragrante di cultura figurativa cresciuto in Romagna dopo l’esoterico, teorematico, ma meno realizzatore Melozzo”, come ebbe a scrivere Roberto Longhi in un fortunato passo dell’Officina. Più realizzatori di Melozzo e meno teorematici, gli Zaganelli. Ne danno prova gli affreschi nella volta della Cappella Sforzesca, mirabilmente sopravvissuti alla distruzione bellica in quella “piccolissima capitale del Rinascimento”, che era Cotignola, come l’ha definita Antonio Paolucci. Qui sono stati capaci di volare più su, spalancando la misurata spazialità melozzesca verso nuove aperture. Aperture che non è improbabile abbiano suscitato nel Correggio qualche idea per la cupola di San Giovanni Evangelista, come ha osservato Giuseppe Adani nella sua ultima monografia dell’Allegri.
Francesco e Bernardino lavorano in simbiosi e le loro opere sfidano il conoscitore: se da un lato sembrano offrire la possibilità di distinguere la diversità di mano, dall’altro più si osservano e più confondono, tant’è che lo stesso Longhi, dopo il tentativo operato da Gnudi alla mostra di Forlì del 1938, scrisse: “continuano a sembrarmi fratelli siamesi”. Anche quando lavorano separatamente, infatti, tra le delicatezze esecutive fiamminghe e le atmosfere peruginesche di Bernardino, si innestano le tensioni espressive e i tratti incisori di nordica memoria di Francesco; così come in Francesco, la lezione di Bernardino sopravviverà fino all’ultimo respiro.
Il caso del Cristo portacroce tornato a Cotignola ha una sua singolarità. L’opera replica un fortunato modello di cui finora sono state rinvenute nove varianti, che concentrano l’episodio della Salita al Calvario sul volto di Cristo, “come su un primo piano (un close-up) fotografico o su un frame cinematografico: la camera ottica del pittore si sofferma sulla mitezza di quel viso sofferente, sulla fronte segnata dalla corona di spine, sulle gocce di sangue, sugli occhi sgranati pronti a raccogliere l’attenzione dello spettatore che è tutt’uno con il fedele”, scrive Alessandro Giovanardi, e continua “l’intenzione iconica è data dal rigore atmosferico: la nuda croce, sfiorata da una luce misteriosa, a evocare lo spessore vero del legno, e il fondo che vira verso una tenebra metafisica, negatrice di ogni dettaglio paesaggistico, compiono l’isolamento perfetto del volto e del segno. Il nero come in Bellini o in Antonello, ha la stessa funzione che possedeva l’oro bizantino e gotico, e, che avrà più tardi la caligine neutra dei pittori del Seicento: un canto fermo, simile a una nota d’organo prolungata o al gregoriano da cui si diparte una cesellatura polifonica nordica. E, difatti, l’ossuta finezza delle mani ben modellate, restituiteci in tinte drammatiche, il pallore e gli arrossamenti della pelle di un corpo allo stremo delle forze, si accorda all’aspetto livido e sofferente delle palpebre che trattengono stoicamente le lacrime e, chiedendo pietà, in realtà la distribuiscono con larghezza verso gli sguardi e i cuori di un’umanità incrudelita, di un abbruttimento che il pittore, come pure altri fanno, non mostra su quel viso provato e stanco, ma ancora, in definitiva, pienamente bello”.
Tre delle nove varianti della serie si confrontano per la prima volta in mostra: oltre a quella acquisita, due provengono da collezioni private, una austriaca e l’altra di Forlì. L’eccezionalità del caso, tuttavia, non si esaurisce qui. A suo tempo, ricorda Giorgio Martini, attirò l’attenzione di Federico Zeri, che se ne occupò in un saggio pubblicato su Paragone, nel quale rilevava come l’esemplare zaganelliano conservato al Museo Nazionale di Palazzo Venezia (il primo pezzo storicamente noto fra i nove), si trovasse riproposto in un’Andata al Calvario di fine Cinquecento dei Musei Civici di Monza, da lui stesso restituita al centese Giovanni Battista Cremonini. Un’operazione inconsueta e considerata da Zeri “a mezza via tra il revival, il collage simbolico e la rielaborazione iconica” di un prototipo ancora piuttosto venerato a distanza di quasi un secolo. Il dipinto, infatti, si gioca tutto entro il momento di convivenza artistica dei due fratelli pittori, quando è ancora un contratto di cosiddetta fraternitas a disciplinare il loro rapporto. La società, nella quale Francesco risulta primo intestatario, si scioglierà per cause non note verso il 1516 e i due avanzeranno su strade separate, mantenendo parallelismi e fraterni rapporti. L’Uomo dei dolori tornato nella loro patria, riporta sulla sua pelle la superficie dipinta più autentica, come attesta fra i riccioli cesellati della barba, un pelo conservatissimo che fuoriesce dalla commessura labiale sinistra verso la guancia. Scandito da un lieve e magistrale guizzo di colore, è il dettaglio rivelatore della koinè zaganelliana, il rifiorire di un microcosmo fiammingo nella più aspra Romagna.
Ed è proprio qui, che l’iconica immagine rivive una nuova stagione entrando in dialogo con due artisti contemporanei, Franco Pozzi e Nicola Samorì, che specchiano il dipinto in un confronto a distanza accogliendo e rilanciando il suo ritorno a casa. “Ognuno sembra allestire un differente cenotafio”, osserva Massimo Pulini, “e si dispiegano così a Cotignola, per un Natale da terzo millennio, due apparati funebri a celebrazione di due epoche e di due autori. La sequenza cartacea di Pozzi ha una natura quasi orientale, nella sintesi tra tecnica e stile, e trasforma l’icona in una traccia atomica lasciata sul muro dalla bomba del tempo. Resta a noi la sola sinopia dell’opera, i fori pulviscolari di un cartone preparatorio che finiscono per occultare a loro modo i caratteri della Vera icona. Il Cristo di Samorì, invece, è iscritto in una materia molto più antica del legno, una lastra di onice che ha fatto fiorire un geode crostaceo e cristallino, fatto di spine e lacrime prodotte dalla stessa roccia. Attorno a quella stigmata, alla più profonda Veronica del monte Calvario, di milioni d’anni più antica degli stessi fatti narrati, Nicola ha ricostruito il corpo di Cristo, come se fosse la pittura a svolgere il ruolo di tumore sul tavolo operatorio della storia”.
Massimiliano Fabbri, conservatore del Museo Varoli, suggerisce che “Il titolo Novena, oltre ad alludere ad una pratica di preghiera e di meditazione, gioca sulla ricorsività del numero nove, presente anche nel percorso espositivo. Nove le versioni conosciute del Cristo portacroce e nove le opere in mostra. Tre le versioni del Cristo degli Zaganelli. Cinque i disegni di Pozzi, quasi a salvare ancora e a cantare l’amore per il dettaglio, e fare eco alla precisione nordica dei due fratelli, all’ombra lunga del tedesco [Dürer naturalmente]. Uno il dipinto di Samorì, dove sono ancora il tempo e i fantasmi, e una pittura che contesta e contrasta l’oblio, salvando pezzi di mondo, a ricaricare di senso le immagini”.
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