Sono convinto che il lavoro dei grandi statisti e dei leader militari risieda sempre nel campo dell’arte
Hitler, Mein Kampf
Adolf Hitler (Braunanu am Inn, 1899 - Berlino, 1945) è tra i più controversi protagonisti della storia del secolo scorso, la cui impronta ancora oggi si ripercuote sulle dinamiche politiche, economiche e sociali in Europa e nel mondo intero. La figura è stata molto discussa e ampiamente analizzata e studiata ponendo particolare attenzione alla sua dimensione etica, morale, filosofica e politica. Eppure, viene solitamente taciuto sul rapporto tra il Führer e l’arte, non considerando in adeguata misura la sua passione per l’arte, i suoi trascorsi artistici e le sue considerazioni in merito alla pittura, alla scultura, al collezionismo, ai musei.
A sostegno di questa tesi, il documentario Hitler contro Picasso e gli altri realizzato nel 2018 a cura di Claudio Poli ricostruisce il rapporto del Führer con questa disciplina non prendendo in considerazione il suo lato artistico, né la sua concezione dell’arte, ma concentrandosi sulle legittime richieste dei proprietari, soprattutto ebrei, depredati delle loro opere dal regime in vigore negli anni Trenta. Una lettura più attenta di questa sua sensibilità dovrebbe suggerire una riflessione su come sia riuscito ad asservire l’arte alla sua ideologia, rendendola parte integrante e rilevante della sua propaganda politica.
Il tratto schematico e rigido delle sue opere, che le rendeva più simili a progetti architettonici che a opere vedutistiche, gli costò in giovane età due rifiuti consecutivi da parte dall’Accademia di Belle Arti di Vienna. Il ripetuto diniego lo avvicinò alla politica: dapprima seguendo la corrente di pensiero della “lega antisemita” di Adolf Lanz, e poi dedicandosi attivamente alla vita politica, entrando prima nel Partito tedesco dei lavoratori di Monaco e arrivando in breve al vertice massimo.
Adolf Hitler, Der alte Hof (1914; acquerello; Washington, United States Army Center of Military History) |
Adolf Hitler, Vaso di fiori (1912 circa; acquerello, 27 x 34,3 cm; Collezione privata) |
Intuendo il potenziale emotivo dei simboli inclusi nelle opere d’arte, se ne servì e sfruttando le sue esperienze in ambito artistico e la propria capacità estetica per concepire un’appropriata iconografia politica puntò sull’uso dei colori, con un risultato che ancora oggi scuote l’immaginario mondiale. Di suo pugno sono le modifiche che hanno reso la svastica l’emblema per antonomasia del nazismo. Un simbolo già noto nell’antichità, soprattutto in Oriente dove era connotato di senso religioso e di buon auspicio. La svastica in Eurasia era legata all’astrologia, e assunta a significante del sole e più in generale dell’universo, iconografia ripresa nel susseguirsi dei secoli. In epoca medievale, ad esempio, si può osservare posta sopra la testa di un ebreo, forse usuraio o mercante (per l’abbigliamento tipico) in una miniatura del XIII secolo appartenente alle Cantigas de Santa Maria di Alfonso X, detto il Saggio.
La svastica, che era già in uso nella Germania meridionale come segno rappresentativo della destra, dopo il contributo del Führer, tornò a essere orientata a destra, ruotata di 45 gradi in senso orario e restaurata dei colori originali, a ognuno dei quali il non ancora dittatore attribuì un peculiare significato: il rosso sangue per stabilire la comunicazione con le masse grazie alla tonalità a loro più congeniale, il bianco come simbolo dell’idea nazionalistica, il nero quale colore demagogico per esaltare la razza ariana in un potente connubio efficace ed evocatore. L’innato senso teatrale (tanto che si è parlato di teatro-crazia hitleriana) si manifestava attraverso la sapiente adozione di luci, musica e molti altri artifici tecnici che venivano ampiamente utilizzati nell’organizzazione di comizi e apparizioni in pubblico. Se ne accorse anche Bertolt Brecht che all’interno del Gesammelte werke 18 gli dedicò tre versi venati di amara ironia, ma che sottolineano questa sua decisa abilità: “il suo virtuoso uso della luce / non è diverso / dal suo virtuoso uso del manganello”.
Adolf Hitler indossa la fascia con la svastica |
La bandiera della Germania nazista |
Hitler sosteneva che l’arte modernista, ossia quella di avanguardia, corrompesse la società. Così chiunque sostenesse tale arte, nella fattispecie la frangia degli intellettuali ebrei, era all’origine del disfacimento della società. E da qui si evince con particolare chiarezza come anche l’arte fosse strumento per tare forza all’ideologia nazista. Per il Führer il modernismo era intollerabile in quanto provocatorio, enigmatico, cinico e scomodo: il fine dell’arte doveva essere una via di fuga dal dolore e non un confronto con esso. Il leader tedesco ha strenuamente tentato di instaurare un’arte di regime poiché era pienamente consapevole della portata dell’espressione artistica sulle masse, idea che trae ispirazione dal pensiero platonico, che teorizza che arte e società sono movimentate da forze simili e che la prima non solo riflette l’agitazione della seconda, ma la promuove.
Uno degli obiettivi principali di Hitler consisteva nell’elevare la cultura tedesca a vertici di squisita eccellenza, per la cui realizzazione era necessario l’arte. Questo significava limitare drasticamente le influenze straniere, incentivando mostre di pittori e scultori tedeschi ed esibizioni di orchestre e compagnie tedesche all’estero affinché i grandi traguardi raggiunti dalla cultura ariana germanica fossero evidenti al consesso europeo e più generalmente a quello internazionale. L’arte divenne così un affare di stato.
Nel 1933 i funzionari del partito si liberarono dei precedenti direttori e curatori di musei per sostituirli con persone riconosciute dal partito quali idonee per le idee politiche e non per ragioni correlate alle loro abilità e conoscenze in ambito artistiche. In questo modo il controllo delle esposizioni era assoluto e assicurato e di conseguenza le collezioni di arte moderna vennero requisite. In appoggio a queste posizioni – che favorivano e caldeggiavano l’idea che l’arte delle avanguardie fosse sbagliata e da eliminare– vennero promosse mostre quali le “Schandausstellungen” (Esposizioni dell’Abominio) nel 1933 e “Schreckenskammer der Kunst” (La Camera degli Orrori dell’Arte) nel 1935 in città quali ad esempio Dresda e Stoccarda ("Sono stati portati alla mia attenzione esempi orribili di arte bolscevica. Ora ho intenzione di agire. […]. Voglio organizzare a Berlino una mostra sull’arte del periodo della decadenza. Cosi che la gente potrà vederla e imparare a riconoscerla", Joseph Göbbels).
Una figura davvero inquietante fu quella del ministro della propaganda Joseph Göbbels (Rheydt, 1897 – Berlino, 1945), che aveva sposato in tutto e per tutto l’atteggiamento del suo leader e che si muoveva in modo rigoroso e feroce verso l’arte considerata degenerata. La mostra sull’entartete Kunst venne organizzata anche a Monaco congiuntamente alla Grande esposizione di arte tedesca nella nuova Casa dell’Arte, frutto di un’abile mossa, per mostrare la cesura tra l’arte e la non-arte. L’inaugurazione avvenne il 19 luglio del 1937 e le 650 opere di 112 artisti degenerati (tra cui George Grosz, Emil Nolde, Pail Klee, Gustav Klimt, Otto Dix e Egon Schiele) vennero esposte in modo da essere drasticamente ridicolizzate. I dipinti furono affastellati in modo da rendere confuse le pareti che li accoglievano. Le opere vennero etichettate con slogan in linea con il metodo denigratorio perseguito come: “la follia diventa metodo” o “la natura vista da menti malate”. Una mostra da primato: accolse un milione di visitatori solo nel primo mese e più del doppio nei successivi sei, incoraggiati anche dall’ingresso gratuito imposto da Hitler. Tra il ‘38 e il ‘41, in un tour che toccò dodici città, raccolse numeri altrettanto consistenti, rimanendo a tutt’oggi la più visitata della storia.
Nello stesso anno, nella stessa città, nella medesima via, ma sul lato opposto, apriva i battenti la Casa dell’Arte tedesca con la prima grande esposizione di arte tedesca annuale, Große Deutsche Kunstausstellung. Per contrasto, le opere presenti dovevano proclamare e rappresentare imponenza, bellezza e benessere, senza mai ricorrere a quei segni dichiarati decadenti, a cui veniva ascritto anche il culto del primitivo, proprio di una parte dell’arte moderna e valutato non come espressione di un’anima naif, ma quale proiezione di un “futuro” corrotto e malato.
Il pubblico in coda per entrare alla mostra Entartete Kunst di Monaco di Baviera |
Sala della mostra Entartete Kunst di Monaco di Baviera |
Sala della Große Deutsche Kunstausstellung |
Non stupisce che la pittura di genere rientrasse nei canoni accolti dal partito: il paesaggio, il contadino, il cacciatore, la madre... un mondo di sostanze abitato da figure esemplari, nel tentativo di tornare ad essere la grandiosa e universalmente generalizzata espressione della nobile ed eroica volontà di tutto il popolo. Venne riprodotto tutto ciò che rientrava nei parametri nazionalsocialisti di dignità della condizione umana con un sistema di allegorie che legava il paesaggio alla patria; il corpo umano e il nudo alla rappresentazione della vita e del vigore del buon sangue, acquisendo un valore non solo biologico, ma aprendosi a un segnale di rinascita individuale, di un intero popolo e del suo spirito.
Una visione ben rappresentata dai quadri di Arno Breker, caratterizzati dal culto del corpo, unità razziale e forza militare. Vale lo stesso per opere di altri, quali Adolf Ziegler, Adolf Wissel, Ettore Erler. Bisognerà attendere la fine del Terzo Reich per vedere l’arte moderna completamente riabilitata con la Documenta 1 del 1955, ideata da Arnold Bolde e che vedeva la partecipazione di 148 artisti, tra cui Max Ernst, Giacomo Balla, Jean Arp, Otto Dix e Fernard Léger. L’obiettivo non consisteva tanto nel presentare l’arte prodotta nel XX secolo, quanto di svelare le radici dell’arte contemporanea in tutte le sue dimensioni e portare le avanguardie, diffamante e bandite dal regime nazionalsocialista, di nuovo in Germania.
Imprescindibile per comprendere il clima in cui Documenta inaugura è considerare che appena un mese prima c’era stata la dichiarazione di piena sovranità della Repubblica Federale Tedesca e del suo ingresso nella NATO e la sottoscrizione del Patto di Varsavia da parte dei paesi del blocco sovietico. Con i sui 130.000 visitatori nel Museum Fridericianum di Kassel, sventrato dai bombardamenti del conflitto bellico, Documenta 1 diventa il teatro attraverso cui ripensare anche la struttura museale e il concetto di esposizione, ancora oggi attuale e riproposto nelle varie edizioni di Documenta e delle biennali d’arte presenti, ormai, in quasi tutte le città (“Il museo deve introdurre la gente in un mondo speciale, in cui le opere dei morti dialogano con gli sguardi dei vivi, in un confronto duraturo e fecondo”, Roberto Peregalli).
Ingresso della Documenta 1 al Fridericianum |
Una sala della Documenta 1 del 1955 |