All’inizio del XIV secolo, la chiesa di Sant’Andrea a Pistoia venne dotata di un nuovo e importante arredo liturgico. Entro il 1301, infatti, lo scultore Giovanni Pisano realizzò per questo spazio un pulpito che segnò novità importanti all’interno del panorama della scultura italiana. A Pistoia erano presenti già tre pulpiti di notevole importanza: due erano stati realizzati da Guido da Como e uno da fra’ Guglielmo. Probabilmente la commissione di questo lavoro prestigioso fu possibile grazie al ruolo speciale di questa chiesa: era infatti la pieve cittadina, in possesso dunque del diritto di battezzare, e il suo parroco, il plebanus, era considerato secondo per importanza dopo il vescovo nella gerarchia ecclesiastica locale. La chiesa di Sant’Andrea era un luogo centrale per l’intera comunità pistoiese, sia dal punto di vista sacro che civico: era infatti un luogo in cui avvenivano cerimonie non soltanto di tipo religioso. Il committente di quest’opera fu il plebano Arnoldo che, grazie ai finanziamenti di Andrea Vitelli e Tino Vitale, ebbe la possibilità di affidare l’incarico a uno dei più prestigiosi scultori dell’epoca. Queste informazioni non provengono da un riscontro documentario, attualmente non esistente, ma dall’iscrizione latina in versi leonini che si trova alla base della struttura esagonale del pergamo di Giovanni Pisano.
La sua collocazione attuale all’interno della chiesa, tra la quarta e la quinta colonna della navata di sinistra, non corrisponde a quella originaria. Si trovava infatti presso la penultima colonna della navata destra, di fronte al presbiterio. Lo spostamento avvenne probabilmente intorno al 1619 per ottemperare alle nuove indicazioni del Concilio di Trento riguardo agli orientamenti liturgici. In seguito allo smontaggio e alla sua ricollocazione, i due leggii sono stati rimossi: quello dell’Evangelo, raffigurante l’Aquila di San Giovanni, è conservato presso il Metropolitan Museum di New York, mentre quello dell’Epistola, che riporta scolpita una delle prime raffigurazioni del tema iconografico della Pietà degli Angeli, presso i Musei statali di Berlino.
In quest’opera, che viene considerata uno dei capolavori della maturità di Giovanni Pisano, lo scultore riprende e sviluppa i modelli realizzati dal padre, Nicola Pisano, per i pulpiti per il Duomo di Siena e per il Battistero di Pisa. Giovanni, cresciuto nella bottega paterna, è annoverato tra i collaboratori di Nicola per la realizzazione dell’opera per la comunità senese: ebbe dunque la possibilità di confrontarsi in prima persona con questo tipo di manufatto. A Pistoia, Giovanni propone una struttura esagonale (come a Pisa), che poggia su altrettante colonne, più una centrale, in porfido. Come nell’opera senese, invece, i rilievi delle specchiature sono separati da grandi figure scolpite. Egli fece convergere nel suo progetto pistoiese scelte appartenenti ai due precedenti pulpiti a firma paterna. La decisione di utilizzare archi ogivali trilobati, che conferiscono a questa struttura un deciso slancio verticale, contribuisce a dare un’impronta maggiormente gotica.
Già da un primo sguardo, è possibile notare una delle grandi novità proposte in questo pergamo: Giovanni, infatti, riesce a far emergere in maniera straordinaria l’elemento plastico rispetto a quello architettonico. Le forme che lo scultore propone sono morbide, come se appartenessero a un flusso continuo, e valorizzate plasticamente da importanti contrasti chiaroscurali: la sua scultura sembra prendere vita dalla struttura architettonica. Bisogna considerare che in origine questo aspetto era ancora maggiormente evidente grazie all’invetriatura della superficie di base, all’uso del colore nel rovescio dei panneggi e a una doratura del bordo delle vesti. Giovanni porta qui avanti la sua concezione della scultura, sostenendo che sia predominante rispetto all’architettura. Egli aveva già proposto questo suo pensiero nella facciata del Duomo di Siena, in cui l’architettura viene considerata come un palcoscenico per il suo celeberrimo ciclo di sculture, tra cui si può ricordare la figura potente della Maria di Mosè. Le sculture che Giovanni propone sono animate dalla vasta gamma delle emozioni umane, che egli riesce a conferire al marmo attraverso la sua grande abilità tecnica tramite l’uso di attrezzi come scalpelli, raspe, gradine e lime a seconda della necessità.
Il contenuto del pulpito, che vuole rappresentare la storia e il percorso della Redenzione cristiana, è concepito su tre livelli: da quello inferiore, in cui si trova il piano allegorico, si passa a quello mediano che rappresenta quello profetico fino ad approdare a quello storico, in posizione più elevata. Il registro inferiore è costituito da grandi figure che hanno la funzione di reggere le colonne. In totale quelle coinvolte sono quattro: tre del perimetro, in maniera alternata, e quella centrale. A sorreggere quest’ultima, si possono riconoscere un leone alato, un’aquila e un grifo a rappresentare Cristo, la sua Ascensione e il suo ritorno finale. Ai piedi di due colonne perimetrali sono due felini: uno è un Leone che azzanna un Cavallo, a simboleggiare la vittoria di Cristo sull’Anticristo, mentre l’altra è una Leonessa che allatta i suoi cuccioli, ad alludere alla Redenzione. A reggere la terza colonna si trova una delle figure espressivamente più potenti di tutta l’opera: è il cosiddetto Atlante, originale invenzione iconografica di Giovanni in un contesto simile. Le interpretazioni che possono essere conferite a questa figura sono diverse: è possibile che sia un’allusione ad Adamo, il primo uomo sulla Terra, ma si può pensare che alluda anche ad una prefigurazione di Cristo. Così come Atlante portava la volta celeste sulle spalle, Cristo si fece carico dei peccati degli uomini. La forza di quest’immagine risiede tutta nella sua forma: Giovanni realizza una figura estrema nella sua sofferenza, scavata ed emaciata, dal quale non è possibile non farsi coinvolgere emotivamente. L’Atlante giovanneo ha le sembianze di un uomo maturo, con una folta barba e poche vesti a coprirgli il corpo. Le sue membra sono percorse da una vibrante tensione emotiva e la scomoda posizione inginocchiata accentua la sofferenza di questo personaggio. Alcuni dettagli, come la pelle del torace, sono di uno straordinario realismo: unito alla grande capacità far emergere attraverso lo sguardo il suo tormento e la sua fatica, rende questo personaggio davvero eccezionale. È una figura che può essere osservata da diverse angolazioni senza perdere la sua potenza comunicativa. Originariamente era posizionato sotto il rilievo della Natività, in modo che fosse una delle prime immagini visibili entrando in chiesa. In seguito allo smontaggio seicentesco, Atlante trovò posto sotto il Giudizio Universale, dove si trova ancora oggi.
Il piano intermedio, quello con significato profetico, vede la presenza di sei Sibille, per rappresentare il mondo pagano, e alcuni profeti, come Davide e Salomone, riconoscibili per la corona che portano, per quello ebraico. Anche in queste figure singole si può apprezzare la capacità di Giovanni di conferire alla materia scolpita emozioni ben definite. Ad esempio, possiamo leggere attraverso il corpo e l’espressione di una delle Sibille il suo turbamento rispetto all’Angelo che, da dietro, le sta suggerendo rivelazioni profetiche.
Nel terzo livello, quello storico, nelle cinque specchiature della balaustra vengono rappresentati episodi della storia della Redenzione: la Natività di Gesù, l’Adorazione dei Magi, la Strage degli Innocenti, la Crocifissione e il Giudizio Universale. I cinque rilievi sono separati da statuette, alcune di difficile identificazione iconografica, che tuttavia non interrompono il ritmo della composizione. Nei primi due rilievi si possono individuare diversi episodi. Nel primo riquadro, quello della Natività, si può riconoscere nella zona centrale il momento della natività vero e proprio: la Vergine è sdraiata e guarda il Bambino. Sulla sinistra è presente l’episodio dell’Annunciazione, mentre nella zona inferiore viene raffigurato il primo bagno del bambino, con due fantesche che preparano l’acqua. Ai lati della scena si possono riconoscere san Giuseppe, assorto nei suoi pensieri, e i pastori che, seguendo la stella, accorrono ad adorare il Salvatore appena nato. È una composizione affollata di uomini e animali, ma ciascuno riesce a trovare il proprio spazio ed emergere. Ciascun personaggio porta sulla scena non soltanto la propria fisicità, ma anche le proprie emozioni. Con un’attenta osservazione, in alcune zone di questo rilievo si possono individuare tracce della pasta vitrea che originariamente ricopriva la superficie di fondo.
Successivamente, è il riquadro dell’Adorazione dei Magi dalla composizione ordinata ed equilibrata. Al centro del rilievo, i Magi vengono introdotti da un Angelo alla presenza del Bambino, che è in braccio alla Vergine. Ai lati della scena centrale, sono rappresentati due sogni: a sinistra quello dei Magi, a destra quello di san Giuseppe. I tre Magi condividono lo stesso letto e la stessa coperta, come era consuetudine durante il Medioevo. Ciascuno è caratterizzato da una reazione ben distinta: c’è lo stupore, la curiosità e l’incredulità, ciascuna manifestata attraverso precisi gesti resi con grande naturalezza. Anche nella scena centrale, Giovanni conferisce alla gestualità freschezza e spontaneità. Ad esempio, il re che è inginocchiato al cospetto del Bambino, non ha la corona in testa ma è infilata nel braccio, così da poter baciare più facilmente il piedino del neonato. Uno degli altri due Magi, nell’attesa che arrivi il proprio momento per rendere omaggio al Salvatore, ha messo il proprio dono sotto braccio. Giovanni ragiona dunque sulla verosimiglianza delle sue proposte iconografiche, trovando nuove soluzione rispetto ai modelli precedenti.
Grande attenzione si riscontra anche nelle teste dei tre cavalli dei Magi, realizzate in scorcio, dimostrando così la sua coscienza spaziale. L’episodio rappresentato nella scena successiva fornisce allo scultore l’occasione di scatenare la sua abilità di raffigurazione delle emozioni. Si tratta infatti della Strage degli Innocenti, episodio che si presta naturalmente ad essere teatro del dramma vissuto dalle madri private dei loro neonati maschi. La scena è un vortice di tensione in cui si susseguono le smorfie di dolore sui volti delle disgraziate madri, mentre i corpi risultano più indistinti, quasi come facessero parte della stessa unità. Il braccio teso di Erode, che impartisce l’ordine di uccidere i neonati maschi, sembra creare un’onda d’urto nella composizione, con le madri e i figli che cercano disperatamente di allontanarsi e sottrarsi a quel gesto e a quel tragico destino. Questa formella è uno dei vertici drammatici della scultura medievale e Giovanni raggiunge esiti straordinari nella raffigurazione delle emozioni e delle passioni umane.
La Crocifissione e il Giudizio Universale sono due scene molto affollate, in cui le figure sono organizzate secondo una sapiente concezione dei piani di composizione e messe in risalto attraverso il gioco chiaroscurale. Anche in questi due riquadri, nonostante l’iconografia sia tradizionale, la veemenza delle passioni giovannee è l’elemento senza dubbio predominante. Mirabile è l’immagine di Cristo in croce, con le membra estremamente tese e l’addome profondamente scavato, che si pone in fecondo confronto con la produzione coeva di Crocifissi lignei o in avorio realizzati da questo scultore.
Le figure scolpite da Giovanni appaiono sempre in movimento, non soltanto fisico, ma anche emotivo. Egli si allontana dal canone classico e maestoso dell’armonia proposto dal padre, per esplorare il territorio della resa delle emozioni e dei tormenti umani. Attraverso una minuziosa attenzione agli sguardi e ai gesti, che passano dalla dolcezza alla disperazione, Giovanni raggiunge uno dei vertici della potenzialità espressiva e della profondità umana della sua scultura.
L'autrice di questo articolo: Francesca Interguglielmi
Storica dell'arte, laureata in Arte Medievale presso l'Università degli Studi di Siena. Attualmente si sta formando in didattica museale presso l'Università degli Studi Roma Tre.