Parlare delle relazioni tra artisti e designer progettisti è facile e complesso al tempo stesso. Molti sono gli esempi italiani e internazionali, e ora anche nei manuali di storia del design si è cominciato a delinearne i percorsi e ad approfondirne i risvolti. La nostra, tutta italiana, idea che ci sia un’arte con la “a” maiuscola e un tipo di espressione culturale che dal progetto ha come obiettivo solo la produzione industriale su larga scala, è un moralistico e provinciale atteggiamento che non ha riscontri, mi permetto di dire, in nessun’ altra parte del mondo. Dico moralistico perché legato al rapporto tra creatività e mercato (qualcosa di considerato sconveniente e vagamente immorale), come se l’arte maiuscola non vivesse di mercato, ma solo di aria e intuizione. La perdita dell’aura descritta da Walter Benjamin risale agli anni Trenta, e si riferisce anche al rapporto tra arte e fotografia, arte e cinema, proprio in virtù di quella riproducibilità del mezzo meccanico e della percezione dello spettatore rispetto, per esempio, ad un dipinto su tela. Egli muore molto prima della nascita di fenomeni esplosivi, come quello della Pop Art ad esempio, che hanno virato verso rotte inaspettate e hanno dato vita ad un linguaggio nel quale la parola pop si può estendere a tutto, così come per un film si può dire “felliniano”, e tutti capiamo cosa si intende.
Ma noi abbiamo avuto Leon Battista Alberti e le sue “categorie” e da lì non ci siamo molto riformati. Del resto l’invenzione, nel XIX secolo, dell’Arts & Crafts nasce in Inghilterra per opera di un geniale William Morris insieme ai suoi compagni di viaggio, i preraffaelliti, che sono stati disprezzati da noi per molto tempo, considerati artisti “minori”, di nicchia, come si usa dire. Il signor Morris pensava sì ad un’arte che investisse l’universo culturale e sociale in tutte le sue declinazioni (come è stato, anche se in modo diverso nel più noto Bauhaus in cui vi erano anche maestri quali Kandinskij e Klee), ma cercava di contrastare uno sviluppo della industrializzazione lanciata verso mete di livellamento economico e produttivo, come si sa, per ampliare il mercato alla richiesta delle masse.
Certo, il concetto di design era ancora in nuce, e l’artigianalità era l’esperienza che sopravviveva alla crescente bulimia delle catene di montaggio nelle fabbriche. Ma se design significa progetto, allora le cose e i fenomeni vanno visti in modo diverso, più ampio e più trasversale.
Da sempre gli artisti hanno dato vita ai propri progetti, hanno realizzato incisioni “seriali” di per sé, e pare che Dürer avesse creato anche gioielli, per non parlare di Leonardo, per quanto riguardava l’organizzazione di feste a tema per il re di Francia, e non possiamo non citare, molto dopo, i coniugi Delaunay, e soprattutto di Sonya, “progettista di dipinti, carte da parati e vestiti”. A proposito di abiti, mi viene in mente la collaborazione di Elsa Schiaparelli, rivale di Coco Chanel, con Salvador Dalí e Jean Cocteau. Voglio dire, insomma, che gli artisti sono artisti, e i più sperimentali si sono incuriositi liberamente a tecniche e manufatti diversi, in nome della progettualità e della libertà di pensiero. Il binomio arte/vita non è patrimonio della ricerca negli anni Sessanta, ma risale a molto prima e fa riferimento a valori culturali, sociali, politici, in senso generale. L’ideologia del Futurismo non è forse quella che abbraccia tutti e tutto e che dichiara il proprio pensiero avanguardista anche in un Vestito antineutrale progettato da Giacomo Balla, il pittore? Non è forse vero che Fortunato Depero, oltre a dipingere, aveva creato paraventi, giocattoli, sedie, proprio in nome di quell’idea utopica di opera d’arte totale?
Parlando di design bisogna dire che un giovanissimo Bruno Munari si avvicina alla poetica del Futurismo per poi staccarsi e percorrere altre strade come quella del Movimento di arte concreta, insieme ad un Gillo Dorfles che, poi, a sua volta, sarà celebrato critico d’arte a livello internazionale. Bruno Munari è colui che incarna meglio lo spirito eclettico che lo fa diventare un designer integrato perfettamente con il mondo della produzione industriale, ma è anche quello che dà vita alle Macchine inutili, ed è sempre colui che si rivolge al mondo dei bambini creando i prelibri con la consulenza di Gianni Rodari.
Oggi il design è anche interior design, land design, light design, dressing design, graphic design, urban design e molto altro. Gli artisti hanno guardato al design e i progettisti si sono espirati all’arte, ognuno secondo la propria aria del tempo.
Le due famiglie rimangono la ricerca minimal e quella pop e si sono alternate nei decenni mentre, oggi, convivono nel mondo globalizzato senza darsi fastidio a vicenda, così il Bolidismo ha nella figura di Massimo Iosa Ghini, un architetto progettista che nasce idealmente da un’affinità col Futurismo, come egli stesso dichiara, e la Gufram continua a produrre il sofà Bocca di Studio 65, nato all’inizio degli anni settanta, su ispirazione del ritratto di Mae West di Savador Dalì ( che va ricordato non solo come pittore, ma anche come scultore, cineasta, sceneggiatore, scrittore, fotografo e designer) il quale, dal canto suo, aveva realizzato oggetti e arredi surreali della Stanza della stessa Mae West come il Telefono aragosta.
Un’altra artista – artista, Meret Oppenheim, nel 1939, aveva progettato il Tavolino Traccia, con le gambe fatte a forma di zampe di uccello, rieditato negli anni settanta per la collezione Ultramobile voluta dall’imprenditore bolognese Dino Gavina. Un artista minimal tra i più significativi come Donald Judd ha ispirato molto designers tra i quali Ron Arad e i suoi Bookworm degli anni novanta, per non parlare del mobile TV di Stefano Giannoni del 1990 che ha guardato all’inconfondibile icona-logo di Robert Indiana, Love, degli anni sessanta, così come Tejo Remy, con la sua Rag Chair, che denuncia una evidente affinità con la Venere degli Stracci di Michelangelo Pistoletto, e ricicla materiali naturali in nome di una progettualità sostenibile. In questo senso non si può fare a meno di mettere a confronto il Tree – Trunk – Bench del 1999 di Jurgen Bey con alcune opere di Giuseppe Penone. Del resto il celebre Ingo Maurer per il suo Sistema Ya Ya Ho è un chiaro riferimento a Calder e alle sue sculture sospese.
Con l’utilizzo pop della plastica, o meglio delle plastiche, ecco spuntare le installazioni di Gino Marotta e i Sicofoil di Carla Accardi. Il MOMA di New York, tempio dell’arte moderna e contemporanea, accolse, nel 1972, la prima mostra sul design italiano, dal titolo Italy, The New Domestic Landscape. Il museo, pioniere in questo, ha una sezione proprio dedicata al design.
Il manifesto di quanto fin qui ho esposto resta la sedia di Gerrit Rietveld che omaggia Piet Mondrian, nel 1921, quello stesso Mondrian che diventa motivo in un famoso abito creato da Yves Saint Laurent, stilista e collezionista d’arte.
Ci sono alcune figure, più complesse di altre, nel mondo dell’arte, Yayoi Kusama e il suo universo di pois, pois interattivi e pois protagonisti dell’ultima campagna pubblicitaria di Louis Vuitton. Provocatoriamente chiedo: Kusama è artista – artista, interior designer, fashion brand? Artista punto.