In una delle scene affrescate da Giotto nel ciclo delle Storie di san Francesco che orna le pareti della Basilica Superiore di San Francesco ad Assisi, si può vedere il santo, inginocchiato davanti a una specie di cassetta, con un bambino tra le mani: è l’episodio del presepe di Greccio, uno dei più famosi del ciclo assisiate. Secondo quel che raccontano i testi che ci hanno trasmesso la vita di san Francesco, ovvero anzitutto la Vita prima di Tommaso da Celano (la più antica: fu composta tra il 1228 e il 1230) e la Legenda maior di san Francesco (la biografia del Poverello di Assisi scritta in latino da Bonaventura da Bagnoregio dietro commissione dell’Ordine dei Frati Minori, e poi approvata dal capitolo generale di Pisa del 1263), il santo, nella notte di Natale del 1223, avrebbe inscenato una rappresentazione della Natività per gli abitanti di Greccio, un borgo nei pressi di Rieti, di fronte al monte Terminillo. Si trattò, di fatto, del primo presepe della storia, raccontato così nella Legenda (che sostanzialmente ricalca il testo della Vita prima, in forma più concisa): “Avvenne, nel terzo anno prima della sua morte, che dispose di celebrare la commemorazione della nascita del bambino Gesù, con la massima solennità possibile, per suscitare devozione nel castello di Greccio. Ma affinché ciò non venisse considerato un atto avventato, chiese e ottenne il permesso dal Sommo Pontefice. Fece così preparare una stalla, portare del fieno e portare sul posto un bue e un asino. Arrivarono i frati, la gente accorse, la selva risuonò di voci, e quella venerabile notte si fece risplendente e solenne di luci abbondanti, solenne e sonora di lodi e di armonia. L’uomo di Dio stava davanti alla mangiatoia, pieno di pietà, asperso di lacrime, traboccante di gioia. La messa solenne venne celebrata sopra la mangiatoia e Francesco, levita di Cristo, cantò il santo Vangelo. Poi predicò al popolo che lo circondava, parlò della nascita del re povero che, nella tenerezza del suo amore, chiamò ‘il bimbo di Betlemme’ ogni volta che lo voleva nominare”.
Stando alla tradizione, san Francesco si trovava a Greccio in quanto dimorava presso il vicino romitorio di Fontecolombo, ed era inoltre amico del signore di Greccio, Giovanni Velita, che sempre secondo i racconti era stato molto toccato dalla vicenda del santo. Proprio san Francesco, nara Tommaso da Celano, avrebbe chiesto a Giovanni Velita di preparagli l’occorrente per la rappresentazione, a cominciare dalla mangiatoia (in latino praesepe: quindi, letteralmente, “presepe” significa proprio “mangiatoia”): il santo avrebbe maturato l’idea di allestire il presepe con l’obiettivo di vedere coi propri occhi le difficoltà patite da Cristo quando venne al mondo, il modo in cui si trovò costretto a dormire in una mangiatoia in mezzo a un bue e a un asino, sistemato sopra il fieno. E Greccio diventava una sorta di nuova Betlemme. Pare che il paese fosse stato molto partecipe: ognuno portò qualcosa secondo le proprie possibilità, tutti arrivarono al luogo scelto da san Francesco con candele, ceri e fiaccole per illuminare la rappresentazione, la popolazione rimase molto contenta. La Legenda maior dà anche conto di una visione miracolosa di Giovanni Velita, che avrebbe affermato di aver visto, proprio dentro alla mangiatoia, un bellissimo bambino addormentato. I due testi sono peraltro ambigui sul Gesù Bambino del presepe, e non forniscono informazioni al riguardo, ma è più che probabile che, nella mangiatoia, san Francesco avesse sistemato semplicemente un’effigie del Bambino, un qualcosa di simile al famoso Bambinello dell’Aracoeli, scultura in legno del XV secolo conservata a Roma, nella basilica di Santa Maria in Aracoeli, oggetto di una fortissima devozione. A sciogliere il dubbio potrebbe intervenire comunque il testo che accompagna l’affresco di Giotto, che così recita: “Come il beato Francesco, in memoria del Natale di Cristo, ordinò che si apprestasse il presepe, che si portasse il fieno, che si conducessero il bue e l’asino; e predicò sulla natività del Re povero; e, mentre il santo uomo teneva la sua orazione, un cavaliere scorse il [vero] Gesù Bambino in luogo di quello che il santo aveva portato”.
La rappresentazione che Giotto dipinge nella Basilica di Assisi, contrariamente a quel che si potrebbe pensare, non è la prima raffigurazione in assoluto dell’episodio del presepe di Greccio. Ci sono infatti almeno due illustri precedenti: a Firenze, nella Basilica di Santa Croce, si conserva la Tavola Bardi, opera databile al 1245-1250 e attribuita a Coppo di Marcovaldo, dove compaiono gli elementi principali della storia: la grotta dove Francesco sistemò la mangiatoia, il Bambino, il bue e l’asinello, i frati, le persone del posto. Molto più rovinata è invece la scena dipinta nella tavola di Guido di Graziano conservata alla Pinacoteca Nazionale di Siena, cronologicamente posteriore (risale forse agli anni Settanta o Ottanta del Duecento): la scena è tuttavia facilmente distinguibile.
Giotto offre al riguardante un’interpretazione piuttosto fedele rispetto al racconto di Bonaventura da Bagnoregio, malgrado, lo vediamo, la scena sia ambientata davanti al presbiterio di una chiesa, simile peraltro a quello della Basilica Inferiore di Assisi, e non nella grotta dove secondo la tradizione san Francesco avrebbe dato vita alla sua rappresentazione. Il santo è inginocchiato, sta sistemando il bambino che rappresenta Gesù nella mangiatoia (oppure sta abbracciando il vero Gesù bambino del miracolo descritto nella Legenda maior), e di fianco vediamo, seppur in scala ridotta rispetto al reale, il bue e l’asinello. Sulla destra, i suoi confratelli sistemati al di sotto di un ciborio simile a quelli di Arnolfo di Cambio (per esempio quello di Santa Cecilia in Trastevere o quello di San Paolo Fuori le Mura a Roma, che Giotto avrà sicuramente visto durante il suo soggiorno in città) sono catturati mentre cantano seguendo il testo sul libro sistemato sopra al badalone (il grande leggio in legno) al centro della composizione, mentre più indietro una folla di astanti osserva la scena. A sinistra, l’uomo che allarga le braccia in segno di stupore è stato identificato come lo stesso Giovanni Velita. Sopra al tramezzo, ovvero la struttura simile a una parete, che divideva il coro dalla parte dove invece si trovavano i fedeli, vediamo una croce, da dietro (la parte dipinta era infatti rivolta verso i fedeli: di solito, nelle chiese dell’epoca le croci non venivano appese al soffitto come le vediamo oggi, ma venivano innalzate così, sopra al tramezzo), e al di là della struttura osserviamo invece la cassa di un pulpito.
La scena si distingue per il suo sorprendente realismo: i personaggi si dispongono su piani diversi in maniera credibile, si nota l’impegno di Giotto nel rendere le espressioni dei partecipanti, la minuzia nei dettagli, la collocazione, intuitiva ma sostanzialmente corretta, degli oggetti nello spazio. Proprio lo spazio prospettico, acutamente indagato dall’artista, rappresenta uno dei principali motivi d’interesse della scena, dal momento che rivela il forte interesse dell’artista per le questioni relative all’architettura e allo spazio (lo storico dell’arte Valerio Mariani ha affermato che la scena del Presepe di Greccio “assume un valore riassuntivo e quasi esemplare per i problemi relativi all’interesse di Giotto per l’architettura”). E il punto di vista insolito, dal coro, rende la composizione ancor più sorprendente. “Questa scena”, ha scritto Luciano Bellosi, “va ammirata soprattutto per l’audacia e la novità della sua soluzione ambientiva. Siamo immessi direttamente nell’interno di una chiesa, dalla parte del presbiterio, di qua dalla transenna del coro, sulla quale è appoggiata una croce dipinta che non è un’immagine sacra ma un oggetto di cui si vede solo il retro, inclinato verso la navata e fermato ad una trave da una corda. Si vede la parte posteriore di un pulpito marmoreo, la parte posteriore del badalone ligneo per i libri da coro, il bellissimo ciborio arnolfiano sopra l’altare, con il tettuccio a scaglie in cotto e i costoloni di marmo bianco, che evocano la soluzione adottata dal Brunelleschi per la cupola del Duomo di Firenze, quasi certamente già prevista da Arnolfo di Cambio. Una così straordinaria ambientazione di un interno, di cui si vedono gli arredi ma non le pareti, corrisponde già alle soluzioni adottate da Giotto a Padova quando raffigura l’interno del Tempio di Gerusalemme nelle scene della Cacciata di Gioacchino e delle Presentazioni di Maria e di Gesù, e costituisce un documento impareggiabile dell’aspetto dell’interno di una chiesa dei tempi di Giotto e della sua funzionalità liturgica”.
Anche uno dei più fini storici dell’arte medievale del Novecento, Pietro Toesca, ha sottolineato le profonde innovazioni cui s’assiste in questa scena, che ci mostra un Giotto estremamente libero e sperimentale, un pittore che, scrive Toesca, negli affreschi di Assisi “non ha difficoltà alcuna a muovere l’azione complicatamente, per tutta la profondità dello scenario, non sentendosi vincolato da altra norma di composizione che dalla volontà di comporre ampiamente pur ch’egli liberi sempre le linee maggiori sì da rendere semplici, distinte in larghi partiti, anche le scene più affollate”, e la scena del Presepe di Greccio è proprio una dimostrazione del “genio dell’artista nel comporre”. La scena della rappresentazione “teatrale”, per così dire, della notte di Natale, scrive Toesca, “è rappresentata con svariatissimi movimenti e gruppi di figure, eppure tutto converge là dove il Santo in atto materno depone nella mangiatoia il Bambino che a qualcuno degli astanti parve essere Gesù medesimo. Tra la libera diversità delle voci e degli atti vi è piena armonia; su tutto l’architettura stabilisce più chiaramente l’ordinato equilibrio: nell’insieme è già, per virtù di un grande maestro, il complesso di contrasti e di rispondenze che sarà norma dei maggiori frescanti fiorentini del Rinascimento”. A svolgere un ruolo centrale nella composizione è lo stesso tramezzo della chiesa, non solo perché separa i diversi registri della scena, ma anche perché in grado di dare movimento: “i suoi proporzionali riquadri marmorei”, scrive Toesca, “hanno quella funzione di ritmo che Giotto adoprò in Santa Croce a Firenze, chiudendo con un tramezzo lo sfondo delle Esequie di S. Francesco, e che Masaccio ripeté nella cappella Brancacci, nella Resurrezione del figlio del Re”. Quanto alla composizione prospettica, tracciata “piuttosto con la guida dell’occhio che su ricerche scientifiche”, è molto complessa malgrado la sua apparente semplicità: “al di qua del tramezzo, che forma l’iconostasi, essa definisce nettamente il presbiterio della chiesa con l’altare e col ciborio [...], col leggio la cui struttura snodevole è precisata nei particolari per giuoco di illusione”.
Si è detto, dunque, del significato artistico: ma quale invece il significato religioso del presepe? In altri termini: perché a san Francesco venne in mente di allestire una vera rievocazione della natività, il primo presepe della storia? Da un lato occorre dar fede alla Legenda maior nel momento in cui Bonaventura da Bagnoregio sottolinea che la rappresentazione del presepe servì “ad devotionem excitandam”, cioè per suscitare devozione nei fedeli: offrire agli abitanti di Greccio una sorta di visualizzazione concreta del disagio che il Bambino dovette affrontare quando venne al mondo aveva un potere persuasivo sicuramente più alto rispetto a quello delle parole. Occorrerà poi considerare che, a quel tempo, Francesco era acceso d’un forte fervore mistico, come racconta lo stesso Tommaso da Celano nelle righe introduttive del capitolo sul presepe di Greccio nella Vita prima: “La sua aspirazione più alta, il suo desiderio dominante, la sua volontà più ferma era di osservare perfettamente e sempre il santo Vangelo e di imitare fedelmente con tutta la vigilanza, con tutto l’impegno, con tutto lo slancio dell’anima e del cuore la dottrina e gli esempi del Signore nostro Gesù Cristo”. Ma c’erano anche ragioni più profonde. Intanto, i francescani coltivavano una forte devozione per Gesù Bambino (nella chiesa di San Damiano ad Assisi si può osservare un affresco in cui santa Chiara e le sue consorelle pregano dinnanzi a una nicchia con una raffigurazione del Bambino: la scena rievoca un episodio della vita di santa Chiara, quando si trovò effettivamente a pregare Gesù Bambino per salvare il convento dai saraceni che lo minacciavano). E poi, il momento della Natività era considerato da san Francesco il primo capitolo della storia della salvezza, e di conseguenza aveva un ruolo centrale nella sua visione cristiana.
C’erano poi ragioni di natura pratica. La storica Chiara Frugoni avanzò l’ipotesi che san Francesco avesse inventato il presepe per offrire ai fedeli un’alternativa al pellegrinaggio a Betlemme: è, in sostanza, lo stesso principio che portò alla nascita dei sacri monti che si possono visitare tuttora sul suolo italiano (principalmente nell’arco alpino, ma anche in Toscana, dove si trova la Gerusalemme di san Vivaldo: si trattava di santuari costituiti da gruppi di cappelle che cercavano di riprodurre la disposizione degli edifici della città santa, onde evitare ai pellegrini il viaggio fino in Galilea). L’ipotesi è stata però contestata dalla studiosa Mary Dzon, che ritiene invece più probabile l’idea del presepe come strumento per rafforzare la fede dei cristiani e “reiterare la credenza che Gesù s’incarna sull’altare durante la messa”. E stabilendo un paragone tra presepe ed eucarestia, Francesco, scrive Dzon “sottolinea la continua presenza del Signore, che è anche manifestazione perpetua della sua umiltà”.
Il presepe vivente di san Francesco non è comunque la prima rappresentazione sacra della storia del cristianesimo: almeno da sue secoli, soprattutto in occasione della Pasqua, si era diffusa l’usanza di dar vita alla rievocazione di episodi della vita di Cristo, specialmente in ambito conventuale. Il santo di Assisi potrebbe esser stato ispirato da queste rappresentazioni, anche se, ha scritto Erwin Rosenthal, “la messa in scena di Greccio non può essere definita un ‘dramma liturgico’, benché abbia in comune con le ‘sacre rappresentazioni’ l’intenzione di far materializzare la leggenda, di trasportarla in immagini vive”. Piuttosto, san Francesco potrebbe aver tratto spunto dall’usanza della messa di mezzanotte, che per tradizione sarebbe stata celebrata per la prima volta in Occidente presso la basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, e da lì per secoli avrebbe continuato a essere celebrata: al tempo di san Francesco la messa di mezzanotte di Santa Maria Maggiore era un evento noto e importante, anche per il fatto che nella basilica romana si trovano le reliquie della mangiatoia, e i pellegrini vi si recavano apposta per venerarle. Nel presepe di san Francesco non c’erano però dialoghi, non c’era azione, né movimento, né musica. Solo l’enfasi sulle condizioni in cui nacque Gesù Cristo. San Francesco non aveva inventato niente di particolarmente innovativo, dato che da secoli già il Natale si celebrava, c’era chi predicava le sofferenze del Bambino, c’era pure chi andava in Santa Maria Maggiore per riverire le reliquie della mangiatoia. Eppure, san Francesco riuscì a fondere tutte queste tradizioni conferendo loro una nuova vitalità. E poi, la vera originalità del presepe, come ha sottolineato ancora Chiara Frugoni, sta nell’ideale di pace e di fratellanza che sostiene l’invenzione di san Francesco e che si esprime a livello simbolico. Il fieno rappresenta la parola di Gesù, di cui si nutrono il bue e l’asinello, simbolo di opposizione, di popoli diversi che si ritrovano però a ricongiungersi di fronte alla pace portata da Cristo, in un’epoca di guerre e di crociate. “Come Cristo ha cominciato con i poveri pescatori e gradualmente il suo messaggio si è diffuso”, ha scritto Frugoni, “anche Francesco sente di dover risvegliare il messaggio del Vangelo e portarlo ovunque: un messaggio di pace sentito come un qualcosa di così assurdo per l’epoca, che qualcuno davanti a Francesco e ai suoi scappava, prendendoli per pazzi”. Il primo presepe della storia non era soltanto tutto votato alla semplicità, in pieno “stile francescano”, potremmo dire, ma era anche animato da un forte carattere di valenza politica.
Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
Gli articoli firmati Finestre sull'Arte sono scritti a quattro mani da Federico Giannini e Ilaria Baratta. Insieme abbiamo fondato Finestre sull'Arte nel 2009. Clicca qui per scoprire chi siamo