Visitando la sala del Perugino tardo alla Galleria Nazionale dell’Umbria, dove sono conservate le opere della fase estrema della carriera di Pietro Vannucci detto il Perugino (Città della Pieve, 1450 – Fontignano, 1523), si noteranno due tavole esposte affiancate, una di formato rettangolare che raffigura il Battesimo di Cristo e l’altra, centinata, che presenta una Adorazione dei pastori. Sono le uniche due parti esposte di quello che era un tempo il Polittico di Sant’Agostino, e osservando queste sole due tavole è impossibile rendersi conto della complessità che questa macchina da altare doveva avere quand’era intera: per avere un’idea, è possibile andare nella sala successiva e osservare la Pala di Santa Maria dei Fossi del Pinturicchio, poiché secondo le ricostruzioni più recenti il polittico del Perugino doveva avere una struttura estremamente simile a quella del collega.
Un’opera complicata, dalla lunga gestazione, commissionata all’artista nel 1502 dai frati agostiniani di Perugia che intendevano destinare l’opera alla chiesa di Sant’Agostino, e andata avanti fino alla scomparsa dell’artista nel 1523: quando l’artista moriva a Fontignano, infatti, mancavano ancora le figure dei profeti. Dai documenti che ci sono pervenuti possiamo ricostruire l’opera, che doveva adattarsi alla grande carpenteria lignea (oggi completamente dispersa) che gli agostiniani avevano commissionato il 23 aprile all’intagliatore Mattia di Tommaso da Reggio, ovvero lo stesso autore della carpenteria della Pala di Santa Maria dei Fossi, che completò il suo lavoro verso il 1500, epoca in cui i frati riuscirono a ottenere la possibilità di installarla sull’altare maggiore. Serviva, dunque, il pittore che completasse la cornice con i dipinti, e quest’ultimo fu individuato nel Perugino, pagato la considerevole cifra di 500 ducati d’oro (per dare un’idea, basterà pensare che gli affreschi della Sala delle Udienze del Collegio del Cambio fruttarono all’artista 350 ducati, mentre la Lotta tra Amore e Castità, commissionata dalla marchesa di Mantova, Isabella d’Este, e finita nel 1503, era stata pagata 100 ducati). Per il Perugino si trattava in effetti di una sfida considerevole, anche per le dimensioni, tanto che la carpenteria, una volta ultimata, dovette essere smontata per consentire il trasporto nella bottega del pittore: l’insieme venne poi ricomposto quando il Perugino consegnò gli elementi più importanti. L’artista ricevette la cifra pattuita in parte in contanti, e in parte tramite cessione di immobili. Alla data del 1512, tuttavia, l’opera non era ancora terminata (l’artista all’epoca era impegnato in numerose altre commissioni), tanto che si rese necessaria una nuova scrittura tra il pittore e i frati, dalla quale sappiamo che all’epoca l’artista aveva percepito circa metà del suo compenso. Il Perugino, in questo documento, si impegnava a portare a termine il lavoro per il mese di aprile del 1513. In seguito l’artista avrebbe ottenuto un’ulteriore proroga fino al Natale del 1521, ma come detto morì prima di terminare l’opera, e quello che mancava dovette essere realizzato dalla bottega. Solo nel 1525, due anni dopo la morte del Perugino, l’enorme polittico fu collocato sull’altare maggiore di Sant’Agostino.
Ad ogni modo, anche dopo la scomparsa del Perugino il Polittico di Sant’Agostino non ebbe vita facile. Nel 1580, infatti, l’opera fu alterata: davanti alla tavola con il Battesimo di Cristo, che si trovava al centro del registro principale, rivolto verso i fedeli (l’opera infatti era opistografa, ovvero dipinta su entrambi i lati), veniva aggiunto un tabernacolo dorato e dipinto da Onorio da Giuliano, e nel 1654 il polittico fu smontato, sostanzialmente poiché non più in linea con le pratiche liturgiche del tempo. Poco dopo, nel 1683, i pannelli furono rimossi dalle cornici originarie, e in epoca imprecisata, probabilmente nel Settecento, alcune tavole andarono perdute: in particolare, oggi non conosciamo il destino dei due profeti della cimasa e della Vergine annunciata (conosciamo tuttavia il suo aspetto da una riproduzione incisa e da una copia). Tutte le tavole andarono disperse in epoca napoleonica e oggi sono conservate presso diversi musei. La Galleria Nazionale dell’Umbria, pur esponendo soltanto le due tavole centrali, è il museo col maggior numero di pannelli superstiti: si trovano nell’istituto di Perugia il Padreterno Benedicente, il profeta Daniele e il David della cimasa, l’arcangelo Gabriele e il san Girolamo con santa Maria Maddalena del registro centrale, e tutte le tavole della predella. La Pietà della cimasa è invece al Museo di San Pietro di Perugia, lo scomparto con san Filippo e sant’Agostino del registro centrale è al Musée des Augustins di Tolosa mentre quello con san Giacomo Maggiore è al Musée des Beaux-Arts di Lione. Si trovano in Francia anche gli scomparti con san Martino di Tours (al Louvre) e con sant’Irene e san Sebastiano (al Musée des Beaux-Arts di Grenoble), infine il pannello con san Bartolomeo è al Museum of Art di Birmingham in Alabama.
Stando alle ricostruzioni proposte da Vittoria Garibaldi e Christa Gardner von Teuffel in occasione della grande mostra sul Perugino tenutasi nel 2004, e giunte a seguito di diversi tentativi operati dai studiosi che se ne sono occupati (Walter Bombe, Ettore Camesasca Jean Habert, Fabio Marcelli, Piero Nottiani, Luigi Petrini), le due tavole centrali erano affiancate sui due lati da altrettante tavole raffiguranti santi, sopra i quali si trovavano i tondi (che però in origine erano quadrati: quelli con l’arcangelo Gabriele e la Vergine annunciata nella parte rivolta verso i fedeli, e due profeti nella parte verso i frati: gli unici due che ci rimangono, David e Daniele, furono probabilmente realizzati dalla bottega del Perugino dopo la sua scomparsa), mentre le tavole al centro erano sormontate dalle tavole della cimasa (il Padreterno rivolto verso la navata e la Pietà rivolta verso l’abside), a loro volta affiancate da due tondi ciascuna. Probabilmente il fronte appariva diverso: durante il restauro condotto nel 2004, è stato riscontrato che il clipeo che campeggia nella parte alta del Battesimo di Cristo, quello dove è raffigurata la colomba dello Spirito Santo, presenta una superficie abrasa, segno del fatto che subì rimozioni di colore (di cui sono state rinvenute anche le tracce), e che dunque in origine era qui dipinta un’altra figura, nella fattispecie un Eterno benedicente, come hanno lasciato supporre le tracce ritrovate. Perché dipingere dunque un Padreterno... doppio? Con tutta probabilità, il Perugino immaginava che la consegna dei pannelli sarebbe andata per le lunghe, e immaginando che la cimasa sarebbe stata tra gli ultimi elementi a esser consegnati, per non lasciare iconograficamente sguarnito il dipinto (prevedendo dunque un’esposizione ai fedeli prima della fine dei lavori), l’artista, d’accordo con la committenza, dipinse un Padreterno all’interno del Battesimo di Cristo per poi rimuoverlo successivamente. Questa almeno l’ipotesi di Luciana Bordoni, Giovanna Martellotti, Michele Minno, Roberto Saccuman e Claudio Seccaroni, autori di un saggio sul polittico, che hanno proposto peraltro una diversa ricostruzione. Questo espediente lascerebbe dunque supporre una certa intesa tra l’artista e la committenza, rendendo probabile, come scrivono gli autori, che ci fosse “un accordo per una consegna in fasi progressive, forse legato anche ai lavori per il coro che rendevano inagibile il presbiterio”, ragion per cui “il secondo contratto […] non sarebbe stato dettato tanto dalla volontà di inchiodare il pittore a impegni cui si stava dimostrando inadempiente, quanto avrebbe sancito la ripresa dei lavori sul fronte posteriore, in vista di una prossima sistemazione degli stalli nel coro”.
Le ricostruzioni hanno sempre tenuto in considerazione il disegno del frate agostiniano Giacomo Giappesi, che in un manoscritto del 1710 riprodusse lo schema del fronte rivolto verso l’abside, e costituisce un documento prezioso per avere un’idea di come in antico doveva apparire il Polittico di Sant’Agostino. Il Perugino completò dapprima, tra il 1502 e il 1513, le tavole sul davanti, mentre nel periodo successivo si occupò delle tavole rivolte verso il fondo della chiesa. Curiosamente, tutti i dipinti rivolti verso la navata erano di forma quadrangolare, mentre quelli del retro del polittico avevano forma centinata.
La macchina, ha scritto Vittoria Garibaldi, si presentava “alta più di otto metri, composta da almeno trenta pannelli dipinti, arricchita da colonne, lesene, fregi, cornici e architravi, vera struttura architettonica di divisione tra coro e presbiterio […]. La cassa che arrivava fino all’architrave soprastante il registro principale, così come per la pala benedettina, era insieme indispensabile elemento strutturale di raccordo tra la macchina lignea e le pareti del presbiterio e netta separazione tra due diversi luoghi liturgici”.
I frati agostiniani avevano scelto per il loro polittico un programma iconografico piuttosto complesso, combinando, come ha spiegato Christa Gardner von Teuffel, “temi dell’Incarnazione e dell’accettazione nella chiesa attraverso la Santa Trinità resa familiare proprio dagli insegnamenti di sant’Agostino, il mentore dell’ordine, e di Egidio da Viterbo, il suo principale esegeta contemporaneo”. Un programma, completato dai pannelli della predella anch’essi legati all’interpretazione eucaristica delle tavole grandi, che “collega direttamente la pala d’altare ricostituita a sant’Agostino e ne conferma la destinazione originale”. Non si può dire che il Polittico di Sant’Agostino sia tra le realizzazioni più originali del Perugino, che invero profuse un impegno non certo serrato nell’esecuzione del progetto, e che risolse le scene dipinte con una certa convenzionalità. Si tratta poi anche di un’opera discontinua, dal momento che la sua realizzazione richiese vent’anni, gli ultimi vent’anni della carriera del Perugino: nella parte frontale troviamo dunque un artista che è ancora nel pieno del suo lavoro, un artista che riceve la commissione quando è all’apice del successo, e che di conseguenza, pur riprendendo formule già ampiamente sperimentate (il Battesimo di Cristo che il Perugino dipinge nella tavola centrale richiama quello eseguito vent’anni prima nella Cappella Sistina), riesce a offrire una prova nettamente diversa rispetto a quella del retro del polittico, nei pannelli dipinti quando ormai l’artista si avviava verso il tramonto, dove però si nota una tecnica diversa, decisamente più fluida e sintetica, quasi impressionistica, volendo adoperare un anacronismo.
La tavola con il Battesimo di Cristo è dunque, di sicuro, la migliore del polittico: dipinta nelle fasi iniziali del lavoro, dimostra tutte le qualità dello stile del Perugino del tempo, ovvero un disegno finissimo, un modellato pieno, colori luminosi, delicatezza anche nei dettagli. Lo stesso non si può dire dell’Adorazione dei pastori che si trova invece nella parte che in antico era rivolta verso i frati: ci si accorge anche a occhio nudo di come il disegno appaia meno fermo e più frammentato, oppure di come il paesaggio risulti meno ricco rispetto a quello del Battesimo, e di come le pennellate siano più fluide e più rapide. Si notano poi differenze nella conduzione del tratteggio del chiaroscuro, molto fitto nell’Adorazione dei pastori, e meno preciso nel pannello con San Girolamo e la Maddalena e nei dipinti della cimasa.
Si tratta però di un unicum nell’intera produzione del Perugino, e la sua unicità è dovuta sia alle sue dimensioni monumentali, sia alla sua struttura (tolti gli affreschi, si trattò dell’opera più impegnativa tra quelle dipinte dall’artista di Città della Pieve), sia ai tempi di realizzazione eccezionalmente lunghi. Per dare un’idea della complessità della macchina, sarà opportuno ricordare che nel 1512 i frati agostiniani commissionarono a Giovan Battista di Cecco di Matteo, detto “Bastone”, una “capssa”, ovvero una cassa, che doveva essere decorata da Eusebio da San Giorgio, e sulla cui natura si è discusso, tra chi la riteneva una struttura in legno che doveva raccordare il polittico alle pareti del presbiterio o chi, come Von Teuffel, l’ha intesa come un enorme armadio con sportelli apribili, come quello che racchiude il Polittico di Ranverso, capolavoro di Defendente Ferrari, conservato nell’abbazia di Sant’Antonio di Ranverso a Buttigliera Alta, in Piemonte. Anche negli ultimi anni della sua carriera, insomma, il Perugino non smetteva d’imbarcarsi in imprese che pochi altri artisti erano in grado di affrontare.
L’articolo è redatto nell’ambito di “Pillole di Perugino”, un progetto che fa parte delle iniziative per la divulgazione e diffusione della conoscenza della figura e dell’opera di Perugino selezionate dal Comitato Promotore delle celebrazioni per il quinto centenario della morte del pittore Pietro Vannucci detto “il Perugino”, costituito nel 2022 dal Ministero della Cultura. Il progetto, a cura della redazione di Finestre sull’Arte, è cofinanziato con i fondi messi a disposizione del Comitato dal Ministero.
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