C’è un particolare aneddoto che si racconta spesso attorno al Perseo con la testa di Medusa di Benvenuto Cellini (Firenze, 1500 - 1571), il grande capolavoro bronzeo dello scultore fiorentino, il monumento simbolo del manierismo, alto più di cinque metri, che svetta sotto la Loggia dei Lanzi in piazza della Signoria a Firenze. Gli fu commissionato nel 1545 dal duca Cosimo I de’ Medici, e occorsero nove anni per completarlo. L’aneddoto è raccontato da Cellini stesso nella sua autobiografia, la Vita di Benvenuto di Maestro Giovanni Cellini fiorentino scritta per lui medesimo: l’artista aveva cominciato a preparare la gettata di bronzo nella sua fornace, ma a causa del fuoco troppo vivo la lega era diventata eccessivamente densa, e serviva renderla più fluida aggiungendo stagno. “Feci pigliare”, scrive Cellini nella sua Vita, “tutti i mia piatti e scodelle e tondi di stagno, i quali erano in circa a dugento, e a uno a uno io gli mettevo dinanzi ai mia canali, e parte ne feci gittare drento nella fornace; di modo che, veduto ogniuno che ’l mio bronzo s’era benissimo fatto liquido, e che la mia forma si empieva, tutti animosamente e lieti mi aiutavano e ubbidivano; e io or qua e or là comandavo, aiutavo e dicevo: ‘O Dio, che con le tue immense virtù risuscitasti da e’ morti, e glorioso te ne salisti al cielo!’”. In sostanza, per abbassare il livello di densità della lega... Cellini ci aveva rimesso le sue stoviglie. In occasione d’un convegno su Cellini tenutosi nel 1971, per il quarto centenario della scomparsa dell’artista, il restauratore Bruno Bearzi fece analizzare la lega di cui era composta la figura di Perseo e notò che, al contrario di quella della testa della Medusa (costituita per il 90% da rame e per il 10% da stagno), quella dell’eroe riportava una curiosa composizione: 95,5% rame, 2,5% stagno, 1% piombo e 1% zinco. “E con i piatti”, concludeva Bearzi, “si spiega la presenza del piombo e dello zinco”.
La realizzazione di quest’opera così impegnativa fu, effettivamente, piuttosto sofferta. Nel 1545 Cellini era appena tornato dalla Francia dove aveva consegnato al re Francesco I la celeberrima Saliera che oggi figura tra i pezzi più ammirati della collezione del Kunsthistorisches Museum di Vienna. Cosimo I gli affidò l’incarico di eseguire una statua in bronzo da affiancare alla Giuditta di Donatello, per la Loggia dei Lanzi, e per rendergli più agevole il lavoro gli diede anche una fonderia nell’attuale via della Pergola. L’artista, come apprendiamo dalla Vita, si mise subito all’opera per eseguire un primo modelletto in cera gialla, come da prassi (e nell’autobiografia Cellini non manca di dire che il modello “bene era fatto con grandissimo istudio e arte”). Tuttavia cominciarono a palesarsi subito problemi con l’eccellente committente: Cosimo I era spesso assente, ritardava, faceva tribolare l’artista sui pagamenti tanto che viene pure descritto come un signore che si comportava più da mercante che da duca, portando Cellini al punto di pentirsi di non aver fissato tutte le condizioni del lavoro su di un contratto. E poi, l’artista aveva continui dissapori, quando non liti, coi domestici del duca (spesso si riferisce a loro chiamandoli “bestie”), e anche con uno dei più grandi artisti del tempo, Baccio Bandinelli, suo acerrimo rivale (Cellini, che lo chiama “Buaccio” storpiandogli il nome, si lamentava del fatto che Bandinelli gli portasse via i migliori lavoranti sulla piazza e così facendo gli faceva tardare la consegna dell’opera, tanto da arrivare a esporre il problema allo stesso Cosimo: “mi dolsi col Duca della gran noia che mi dava questa bestia”). Ma non è tutto: il lavoro venne funestato dalla scomparsa del cognato, marito di sua sorella, con la conseguenza che l’artista dovette farsi carico della sua famiglia.
Benvenuto Cellini era comunque ancora determinato a proseguire il suo lavoro, ma la situazione rischiò di precipitare a seguito d’un ricatto che l’artista subì dalla madre di un suo garzone, il diciottenne Bernardino Manellini, ricercato in quanto sospettato di sodomia: la madre chiese a Cellini di ospitarlo in casa sua, e al rifiuto dell’artista, la donna replicò dicendo che anche su di lui vigeva il sospetto di aver “peccato” con Bernardino, ma che se gli avesse dato cento scudi per corrompere le autorità, sarebbe filato tutto liscio. Cellini rispose a modo suo (insultando la donna e minacciandola con un pugnale), ma per non correre pericoli lasciò Firenze e si trasferì per qualche tempo a Venezia, portandosi dietro Bernardino. Era il 1548: l’artista tornò a Firenze dopo qualche mese e nell’estate di quell’anno gettò finalmente la testa della Medusa, la prima parte del monumento a essere completata. I lavori però languivano perché Cellini aveva pochi collaboratori, e perché i suoi nemici facevano ostruzionismo diffondendo cattive voci sulla sua capacità di portare a termine un lavoro tanto impegnativo (e lo stesso Cosimo I, stando al racconto della Vita, cominciò ad avere dei dubbi): l’artista però, a costo di rimetterci in salute (era infatti malato e a letto forse a causa delle esalazioni dei metalli), riuscì a portare a termine l’opera e tra il 1549 e il 1550 il gruppo era finalmente completato. Occorse poi un altro periodo di tempo, tra i tre e i quattro anni, per le operazioni di rinettatura e di realizzazione delle rifiniture e delle decorazioni. Alla fine, il 27 aprile del 1554, la statua fu scoperta sotto la Loggia dei Lanzi, dove si trova tuttora. Con grande soddisfazione di Cellini, che ricevette le lodi del duca e l’apprezzamento dei fiorentini: “Subito, che e’ nonnera ancora chiaro il giorno, vi si ragunò tanta infinita quantità di popoli, che e’ saria impossibile il dirlo, ettutti a una voce facevano a gara a chi meglio ne diceva”. Meno soddisfacente fu invece la gratificazione economica: Cellini, per il suo lavoro, ottenne solo 3.300 scudi, a fronte dei 10.000 che sperava di ricevere. L’opera fu un successo, ma i trascorsi tra l’artista e il duca non favorirono il prosieguo della collaborazione: di lì in avanti, infatti, Cellini non avrebbe più lavorato per Cosimo I.
Il grande gruppo scultoreo di Cellini rappresenta l’eroe mitologico Perseo, figlio di Zeus e di Danae, uccisore della Medusa, una delle tre Gorgoni, che pietrificava coi suoi occhi chiunque la guardasse: Perseo riuscì a ucciderla guardando la mostruosa donna nel riflesso dello scudo. L’opera venne fusa in quattro pezzi, poi assemblati: la testa della Medusa, il corpo della Medusa, quello di Perseo, e la spada (l’originale dell’arma di Perseo, sostituita nel 1945 da una copia in quanto deteriorata per effetto degli agenti atmosferici, è custodito al Museo Nazionale del Bargello, dove si trova anche la base originale in marmo con le statue di bronzo, oltre ai due modelli superstiti della scultura, uno in bronzo e uno in cera). Proprio per le dimensioni del monumento, e per la scelta di fonderlo in così pochi pezzi, si trattò di una sfida tecnica ai limiti, un’operazione che richiese l’utilizzo di una grande quantità di metallo (l’opera pesa in tutto 24 quintali). La scelta del soggetto aveva invece un significato eminentemente politico. L’eroe greco, “figura maschile che aveva compiuto un gesto analogo a Giuditta mozzando la testa di Medusa”, ha scritto la storica dell’arte Francesca Petrucci, “avrebbe dovuto rappresentare la risposta alla passata repubblica mostrando il trionfo dell’imperio ducale. Già nella scelta del raro soggetto Cosimo si ispirò a bronzetti etruschi, che egli ricercava e collezionava per richiamare le mitiche origini di Firenze e gli antichi dominatori della Toscana, vincitori dei Romani sotto la guida del re Porsenna, monarca assoluto che sembrava legittimare il nuovo corso dinastico proposto da lui stesso”.
L’eroe è rappresentato come un giovane dal volto adolescenziale (pare che il modello sia stato lo stesso Bernardino Manellini), in contrapposto (la gamba destra è dritta e su di essa il personaggio scarica il suo peso, mentre la sinistra è a riposo, con il ginocchio avanzato e il piede sollevato), mentre con il braccio sinistro solleva la testa della Medusa per mostrarla (dalla testa recisa e dal collo sgorgano fiotti di sangue: nessuno prima di Cellini, in scultura, aveva osato tanto), con la destra impugna ancora la spada che l’ha decapitata, e poggia i piedi sul suo corpo in segno di vittoria. La posa richiama quella del David di Michelangelo, anche se la schiena è leggermente girata di lato, seguendo quella celebre linea serpentinata ch’era tipica del gusto del tempo. L’opera è studiata dal vero, ma concepita secondo una posa ben congegnata, che compare peraltro in un’altra opera di Cellini portata a termine in quel periodo, il Ganimede, che in realtà era il restauro di un torso romano ricevuto nel 1548 da Cosimo I (l’artista vi aggiunse la base, i piedi, l’aquila, le braccia e la testa: fu consegnata finita nel 1550). Perseo è completamente nudo: indossa soltanto i calzari alati che gli consentivano di muoversi velocemente, la sacca che avrebbe contenuto la testa recisa di Medusa (sulla tracolla l’artista ha peraltro lasciato, evidentissima, la sua firma: chiara citazione michelangiolesca, dal momento che il Buonarroti aveva firmato la Pietà vaticana allo stesso modo, scrivendo il suo nome sulla fascia a tracolla della Vergine), e l’elmo di Ade, che secondo il mito lo rendeva invisibile. Osservando l’elmo dal basso, tra l’altro, si distinguerà facilmente un volto umano: si è voluto ritenere che Cellini abbia sfruttato questo espediente, con un artificio tipicamente manierista, per inserire il proprio autoritratto nella sua scultura più nota e difficile. Più probabile, semmai, che l’artista abbia voluto creare un elmo da parata con un mascherone sulla nuca, sulla falsariga delle bizzarre creazioni coeve dell’armoraro milanese Giovanni Paolo Negroli (Milano, 1513 – 1569), dalla cui fucina uscivano “armature eroiche” dalle fogge più disparate, alle quali non mancavano elmi dalle forme animali o antropomorfe. Peraltro, Negroli aveva lavorato anche per i Medici: si trattava, in sostanza, di un oggetto in linea con il gusto delle corti del tempo, e quella fiorentina non era da meno.
Le proporzioni allungate del personaggio rispondono alla necessità di una visione dal basso: il Perseo di Benvenuto Cellini era infatti, a quella data, l’unica opera espressamente realizzata per quella collocazione, dov’è sempre rimasta, fatta eccezione per un breve periodo tra il 1996 e il 2000 in cui fu spostata per essere restaurata. Il titanismo della gigantesca figura (la sola statua è alta più di tre metri) ha il suo più diretto antecedente in Michelangelo, principale punto di riferimento di Benvenuto Cellini (il David era del resto lì vicino, ma un altro modello fu senz’altro il David bronzeo di Donatello): l’intraprendente e determinato orafo e scultore vedeva in quest’impresa una sfida sotto tutti i profili, e le proporzioni dell’eroe diventavano anche un’allusione alla sua virtù che trionfava sul caso avverso. Cellini, scrive ancora Petrucci, si proponeva come “modello della grandezza del genio e, in definitiva, come l’ultimo erede del metodo artigianale in uso nelle botteghe fiorentine prima che Cosimo I attivasse la ferrea organizzazione delle arti al servizio del potere politico con la creazione delle botteghe granducali”. Vi si potrebbe poi leggere anche una polemica nei riguardi dell’eterno nemico Baccio Bandinelli: pochi anni prima, a brevissima distanza, in piazza della Signoria, era stato scoperto il suo gruppo, l’Ercole e Caco, molto criticato anche dai contemporanei (e ovviamente da Cellini stesso) per via dell’interpretazione troppo carica ed eccessiva del titanismo michelangiolesco, con corpi dalle proporzioni massicce e dai muscoli gonfi e in forte evidenza, e dai volti tormentati. Cellini oppone alle figure del rivale una figura sì grandiosa ma al contempo anche capace di serbare una certa grazia, soprattutto in volto.
Del Perseo, come anticipato, conserviamo due modelli, uno in cera e uno in bronzo, fatto piuttosto raro per la scultura rinascimentale. Sono peraltro le uniche due testimonianze delle fasi di lavoro dell’opera, dal momento che non ci sono arrivati disegni o bozzetti. Non sappiamo come siano giunti sino a noi: non ne viene fatta menzione negli inventari dei beni di Benvenuto Cellini, ragion per cui è probabile che l’artista li avesse donati a qualcuno a lui vicino. Ricomparvero nel 1826: erano in possesso di un pittore e mercante d’arte fiorentino, Fedele Acciai, che li propose agli Uffizi per l’acquisto: l’istituto accettò e i due modelli entrarono a far parte delle collezioni del museo, che poi nel 1888 li cedette al Museo Nazionale del Bargello. Il modello in cera presenta un’idea già piuttosto avanzata dell’opera: “Cellini”, ha scritto la studiosa Maria Grazia Vaccari, “punta alla resa dell’effetto complessivo, in modo da mettere il committente in condizione di poter valutare il progetto. Per questo non si sofferma a definire tutti i dettagli, limitandosi a suggerire alcune soluzioni, modellando, per esempio, solo uno dei calzari. La figura appare slanciata ed esile, con una muscolatura non molto sviluppata, ma la tensione del gesto vittorioso del braccio sinistro che leva la testa recisa e del destro che impugna ancora l’arma è già pienamente espressa”. Con il modello in bronzo, ci si avvicina ancor di più all’opera finita, dal momento che qui i dettagli sono molto più definiti, e il bozzetto dimostra, scrive ancora Vaccari, “come l’artista sia ancora legato al mondo dell’oreficeria nella ricerca di un ritmo elegante e di raffinatezza formale”. Il confronto coi modelli dimostra come l’opera monumentale acquisisca proporzioni decisamente più robuste, in linea con il portato allegorico del soggetto, ma forse anche per ragioni di statica. Non solo: cambia anche il volto di Perseo, che perde la naturalezza che aveva nel modello e acquisisce una maggiore bellezza ideale, adatta a un eroe greco.
Di particolare finezza è anche il basamento, il cui originale, come detto, è conservato al Museo Nazionale del Bargello, per ragioni legate alla conservazione del monumento. Sulle quattro facce l’artista ha ricavato altrettante nicchie entro le quali ha collocato quattro statue in bronzo di personaggi legati al mito di Perseo: il padre dell’eroe, Giove, la madre Danae, raffigurata assieme a Perseo bambino, e infine Mercurio e Minerva (il primo gli regalò l’arma per decapitare Medusa, la seconda gli aveva donato lo scudo per osservare l’immagine della Gorgone riflessa). Ognuno dei personaggi è accompagnato da una scritta in latino che lo identifica, secondo il programma elaborato dal letterato Benedetto Varchi. Sotto Giove compare la scritta “Te fili, si quis laeserit, ulter ero” (“Figlio, se qualcuno ti offenderà, io ti vendicherò”), sotto a Danae “Tuta Iove ac tanto pignore laeta fugor” (“Protetta da Giove e lieta per un impegno tanto grande, vado in esilio”: si riferisce al fatto che la principessa dovette vivere lontano dal padre Acrisio per evitare di essere da questi assassinata assieme al figlio, dacché secondo una profezia Acrisio sarebbe stato ucciso da un nipote), sotto Mercurio “Fr[atr]is ut arma geras, nudus ad astra volo” (“Volo nudo al cielo perché tu possa portare le armi del fratello”) e infine sotto a Minerva “Quo vincas, clypeum do tibi, casta soror” (“Io, tua casta sorella, ti do questo scudo perché tu vinca”).
Questi personaggi non vengono inseriti solo per offrire una cornice narrativa al monumento: hanno anche funzione allegorica, dal momento che assurgono a simboli delle forze che determinano il destino della Firenze medicea in generale e di Cosimo I in particolare (che, come si è visto, è quello di trionfare sui nemici). Occorrerà infatti aggiungere che, sui lati del basamento, scolpite nel marmo, vediamo alcune teste di capra: il capricorno era probabilmente il suo segno zodiacale ascendente e sicuramente era legato all’imperatore Augusto, tanto che Cosimo decise di adottarlo come sua impresa personale. Al Bargello è conservato anche il rilievo bronzeo che si trovava sotto al basamento in marmo (oggi sostituito da una replica), raffigurante l’episodio della liberazione di Andromeda dal mostro marino da parte di Perseo: anche in questo caso si trattava di un’opera dal chiaro significato politico, simile a quello del monumento. Un’affermazione di trionfo sulla repubblica (il mostro), un monito a chiunque avesse osato sfidare il potere mediceo. Decisamente particolare la decorazione del basamento, coi festoni di fiori e frutta, i mascheroni grotteschi, le cariatidi agli angoli che assumono le sembianze della Diana di Efeso, con i piedi che poggiano sull’acqua, simboleggiando l’impossibile (come quello sfidato da Perseo con la sua impresa eroica): motivi iconografici probabilmente suggeriti anch’essi da Benedetto Varchi (forse un’allusione ai frutti del buon governo, forse un’immagine dell’idea della natura secondo Varchi), erano soprattutto ornamenti senza precedenti a Firenze, e che derivavano semmai dalla Francia, dove Cellini s’era trattenuto prima di tornare nella città natale. Il precedente più diretto, notava John Pope-Hennessy, erano gli stucchi eseguiti da Francesco Primaticcio alla Reggia di Fontainebleau per re Francesco I.
Il più importante restauro cui il Perseo è andato incontro è quello cominciato nel 1996: all’epoca si tentò, per la prima volta nella storia, di spostare la statua dalla Loggia dei Lanzi per condurla agli Uffizi, dov’era stato predisposta la sala per condurre l’intervento, resosi necessario per valutare in maniera approfondita lo stato di conservazione del capolavoro di Benvenuto Cellini e per ovviare ai suoi problemi. Il trasporto riuscì senza problemi: il Perseo fu spostato con una grossa gabbia d’acciaio, progettata per l’occasione dall’ingegnere Antonio Raffagli che aveva dovuto tener conto della fragilità dell’opera e del suo peso. Secoli di agenti atmosferici avevano alterato la superficie del bronzo, tanto che, dopo l’arrivo dell’opera nel laboratorio di restauro, il primo anno d’intervento e buona parte del 1998 trascorsero all’insegna delle indagini diagnostiche, eseguite dall’Opificio delle Pietre Dure di Firenze e dall’Istituto Centrale per il Restauro di Roma (il primo si è occupato dell’analisi delle alterazioni, il secondo ha invece indagato le superfici e la lega): i risultati servirono per guidare il laboratorio di Giovanni e Lorenzo Morigi, che si occupò invece delle operazioni materiali. Fu eseguito così un primo lavaggio dell’opera con acqua nebulizzata per far sciogliere gli accumuli depositati sulla superficie del bronzo: la successiva pulitura servì per rimuovere depositi e residui che avevano coperto il bronzo, e dovette essere condotta con diversi metodi (alcuni depositi, quelli più tenaci, furono rimossi con bisturi e ablatore a ultrasuoni). Singolare fu il trattamento che Giovanni e Lorenzo Morigi riservarono al Perseo per individuare le aree di corrosione attiva, quelle che avrebbero dunque cominciato a manifestare problemi anche alla fine dei lavori, se non sistemate. “Il gruppo scultoreo”, hanno raccontato i due restauratori, “è stato racchiuso in un grande sacco sigillato di polietilene ed al suo interno è stato insufflato vapore acqueo per 96 ore. L’alta percentuale di umidità relativa ha accelerato la formazione delle espulsioni di polvere verde di ossicloruri di rame dai crateri di corrosione attiva, permettendo così di individuare l’esatta localizzazione dei focolai. Una volta rimossa la camera ad umido abbiamo constatato l’esistenza di numerosissimi crateri attivi, in gran parte di dimensioni modeste ma, soprattutto tra i capelli, un consistente gruppo di crateri di grande dimensione e particolarmente virulenti”. Le aree di corrosione vennero sistemate con protettivi per evitare ulteriori alterazioni, e infine il restauro si concluse con l’applicazione di due mani di un acrilico trasparente per esterni e tre mani di una cera microcristallina ad alta temperatura di rammollimento, per proteggere ulteriormente la superficie.
Alla fine dei lavori ci si rese conto che il basamento era troppo delicato per consentirgli il ritorno in piazza della Signoria: fu così disposto il suo trasferimento al Museo Nazionale del Bargello, e per la Loggia dei Lanzi ne fu eseguita una copia fedele. Sembrava inizialmente che anche il gruppo scultoreo dovesse essere ricoverato in museo a causa delle criticità del suo stato di conservazione: tuttavia, alla fine i pronostici della vigilia furono ribaltati dalle valutazioni dei tecnici che ritennero il Perseo in grado di tornare in piazza senza particolari pericoli, a condizione di sottoporlo a regolari manutenzioni. Il Perseo tornava infine al suo posto il 23 giugno del 2000, con una nuova cerimonia anticipata da un prologo teatrale recitato da Flavio Bucci e Alessandro Haber. Da allora il Perseo di Benvenuto Cellini ha continuato a mostrarsi agli occhi di milioni di persone che ogni giorno, tra Palazzo Vecchio e gli Uffizi, sollevano lo sguardo per ammirare quel “disastro tramutato in successo”, come lo ha efficacemente definito Alessandro Cecchi, l’opera più nota di uno dei personaggi più straordinari del Cinquecento, divenuto uno dei simboli di Firenze e dell’arte italiana.
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERGli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
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