Il 2 maggio del 1804, Antonio Canova scriveva a Quatremère de Quincy: “Io ho terminato ultimamente la statua di Palamede in piedi [...], il cui modello era già fatto da parecchi anni. Anzi al tempo che io modellava l’Ercole e Lica e qualche altra figura di forte carattere ho voluto studiarne quella d’un eroe nella sua florida gioventù, come lo descrive Filostrato”. La memoria immortale di Palamede, il più sapiente tra gli eroi greci che combatterono nella pianura di Troia, infatti non spetta a Omero. La grandezza dell’inventore delle lettere e degli scacchi (“l’usignolo delle Muse che non faceva soffrire nessuno” secondo Euripide) è tramandata da altri scrittori fino a Filostrato, che nel II secolo d.C. rievocò con nostalgia le ombre di quei guerrieri tra i quali egli si distinse come portatore della verità e della conoscenza, infine vittima degli intrighi di Odisseo che lo fece condannare a morte.
“Per altezza pari all’Aiace [...], per bellezza gareggiava con Achille”, si dice che Palamede avesse “gli occhi più grandi fra tutti gli uomini” e che nudo stesse “a metà tra un atleta pesante e uno leggero”. Nelle sue proporzioni perfette (ma che Leopoldo Cicognara aveva criticato per i fianchi “alquanto gentili”) si ritrova quel canone estetico che coniuga il modello classico allo studio del vero ‘di natura’, che Canova era stato capace di rendere contemporaneo. Fu forse quella lettura a suggerire allo scultore di trasformare la figura di un atleta (il Discobolo, già fissato in un disegno a china e in un modello in gesso verso il 1796) nel condottiero greco “che amava la saggezza e la praticava”, esempio di un eroismo autentico e profondo, dall’ingegno eccezionale.
Secondo Fernando Rigon Forte, Canova non poté che essere rimasto “affascinato da un personaggio i cui tratti esistenziali e caratteriali - a partire dalla stessa etimologia del nome, ‘palma della mano’ - erano puntualmente simili ai suoi [...]: dall’umile estrazione alla capacità inventiva, dall’intelligenza intuitiva alla leale generosità, dalla scienza alla saggezza ispirate ai più alti valori etici ed estetici”. La storia avrebbe assunto invece un nuovo, fondamentale, significato agli occhi del suo compratore, quel Giovanni Battista Sommariva che fu antico proprietario dell’attuale Villa Carlotta. Ambizioso, ricco, audace ‘uomo nuovo’, egli aveva raggiunto in fretta i vertici dell’amministrazione napoleonica ma altrettanto repentinamente fu estromesso da tutti gli incarichi, macchiato dall’accusa di essersi conquistato una strabiliante fortuna attraverso spregiudicate speculazioni economiche. Pronto a giocarsi la carta dell’eroe calunniato, Sommariva aveva saputo ben cogliere le possibilità di riproiezione simbolica della vicenda di Palamede.
Una vicenda che probabilmente conosceva bene, dal momento che non solo egli fu un mecenate di respiro europeo (collezionista di Jacques-Louis David, Antonio Canova, Bertel Thorvaldsen), ma anche un raffinato bibliofilo che vantava una raccolta di oltre tremila volumi e che poteva godere dell’amicizia di insigni letterati, come Vincenzo Monti, il quale gli dedicò una copia di una delle più lussuose edizioni di Bodoni.
Proprio accanto alla sua biblioteca avrebbe trovato posto il capolavoro della sua collezione, quando giunse a Tremezzo verso il 1819, segnato da una rovinosa caduta nello studio di Canova e restaurato dal maestro stesso, che si rifiutò di ribassarne il prezzo. Da quell’increscioso incidente era nata una corrispondenza (destinata a diventare torrentizia) tra l’artista e il suo mecenate, un intenso dialogo nel quale si intrecciano cultura antiquaria e passione collezionistica, amore per l’arte e calcolo economico. Una sala di Villa Sommariva, infine, fu allestita con degli specchi “di prima bellezza e qualità” per favorire la visione totale e simultanea dell’eroe “nella sua florida gioventù”, tralasciato da Omero ma reso immortale da Canova.
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