Se dovessimo individuare, in tutta la produzione di Cosmè Tura, un solo dettaglio che possa far da sunto di quella sua pittura espressionista ante litteram, nervosa, scultorea, così folle e disturbante, così lontana dal Rinascimento ordinato e serafico che ha attecchito con radici profonde e invasive nell’immaginario collettivo, non occorrerebbe darsi pena per cercare a lungo: basterebbe osservare il vessillo sorretto da uno degli sgherri che il pittore inserisce nel Martirio di san Maurelio, tondo conservato alla Pinacoteca Nazionale di Ferrara: attorno alla lunga asta s’attorciglia una banderuola rosacea formando impossibili pieghe metalliche, svolazzando con lembi che paiono lunghi tentacoli, andando a occupare il cielo (uno di quei tanti cieli spazzati dalla tramontana, quasi smaltati, che non si limitano a far da sfondo, ma son tra i più alti protagonisti dell’arte di Cosmè Tura) con una presenza che percepiamo quasi come fosse fuori luogo, estranea, aliena. Cosimo di Domenico di Bonaventura, entrato nella storia dell’arte col suo vezzeggiativo dialettale e col diminutivo del patronimico, è il primo e più visionario dei pittori dell’eccentrica officina ferrarese, è l’artista che sa imprimere alle sue composizioni quel “ritmo diabolico e interrogativo” che Longhi gli attribuiva, è un uomo che vive in un “mondo tutto mentale”, scriveva Piero Bianconi, e che è “chiuso in un affascinato ed esasperato manierismo”, è un amante del complicato e dell’insolito, una sorta d’archeologo del fantastico che porta a Ferrara la cultura della Padova antiquaria per traslarla in un’antichità trasognata, improbabile e inquieta, un pittore poco inquadrabile, moderno e sospiroso, attento e nostalgico.
Il Martirio di san Maurelio, e l’opera che nel racconto lo precede, il Giudizio di san Maurelio, sono tra le rarissime testimonianze dell’arte di Cosmè Tura che siano sopravvissute nella sua Ferrara. Fanno parte della raccolta della Pinacoteca da più di due secoli, ovvero da quando, nel 1817, un collezionista locale, Filippo Zafferini, le cedette al Comune di Ferrara in permuta, in cambio d’una pala del Bastianino. I due tondi in antico facevano parte d’un polittico disperso, del quale sono gli unici elementi superstiti, e che adornava l’altare dedicato al santo nella chiesa di San Giorgio fuori le mura, il più antico edificio di culto cittadino, dove nel dodicesimo secolo furono trasportate le spoglie del santo. Maurelio, assieme a san Giorgio, è patrono di Ferrara, e quando Cosmè Tura dipinse il polittico da cui provengono i due tondi, nei primi anni Ottanta del Quattrocento, il suo culto era recente, dacché il vescovo venuto da Edessa fu proclamato patrono della città solo pochi anni prima, nel 1463.
Stando al mito, Maurelio, vissuto nel settimo secolo, era il leggendario figlio del re Teobaldo di Mesopotamia, che per amor di fede rinunciò al trono quando suo padre morì, preferendo intraprendere un cammino spirituale nel segno di Dio: stabilitosi a Smirne, fu coinvolto in una disputa attorno a un’eresia locale e per risolverla decise d’intraprendere un viaggio a Roma per esporre il problema a papa Giovanni IV. Il caso volle che arrivò a Roma proprio nel momento in cui, nella città eterna, si trovavano anche alcuni pellegrini di Voghenza, giunti alla sede pontificia per riferire al papa che il loro vescovo era da poco venuto a mancare, e per chiedere dunque un successore. Pare che al papa fosse apparso in sogno san Giorgio a indicargli di nominare Maurelio come vescovo di Voghenza: il giovane accettò e si trasferì subito nel ferrarese, dove la tradizione gli attribuisce una serie di guarigioni e miracoli che gli avrebbero poi garantito la puntuale canonizzazione. La leggenda vuole che Maurelio fosse poi tornato a Edessa per risolvere una disputa tra i suoi due fratelli: giunto nella sua terra natia, avrebbe però continuato a predicarvi il messaggio di Cristo, e per tal ragione sarebbe stato giudicato, condannato a morte e giustiziato.
Cosmè Tura, Giudizio di san Maurelio (1480 circa; olio su tavola, diametro 48 cm; Ferrara, Gallerie Estensi, Pinacoteca Nazionale) |
Cosmè Tura, Martirio di san Maurelio (1480 circa; olio su tavola, diametro 48 cm; Ferrara, Gallerie Estensi, Pinacoteca Nazionale) |
I due tondi. Ph. Credit Finestre sull’Arte |
Quelli che Cosmè Tura raffigura nei tondi ferraresi sono gli ultimi momenti della vita di san Maurelio. Nel primo, il Giudizio, Maurelio riceve il responso del giudice, assiso su di un plinto che gli fa da curioso scranno, e vien già scortato da alcuni sgherri verso il luogo del martirio. Ritroviamo gli stessi soldati nel tondo del Martirio, dove san Maurelio, inginocchiato e raccolto in preghiera, saldo nella sua fede, sta per ricevere il fendente mortale. E lo riceve da un africano, dato che nel Quattrocento non s’andava troppo per il sottile e la pelle scura era spesso associata agl’infedeli, sebbene qui il moro sia soprattutto, ha notato Mario Salmi, una “nota di colore”. Sorprende però il fatto che gli sgherri non siano caricati in senso negativo, ma sembrano dimostrare un moto di compassione verso la triste sorte del santo. Ed è una nota ancor più interessante, forse la più affascinante del Martirio e tra le vette della pittura di Cosmè: i volti degli astanti sono segnati da un velo di malinconia, i soldati assistono alla mesta esecuzione in assoluto silenzio e senza scomporsi, con gesti quasi affettati, e uno di loro addirittura s’inginocchia di fronte a Maurelio, come se lo volesse confortare. Marcello Toffanello ha parlato d’una “atmosfera che pare quasi di reciproca comprensione fra i carnefici e il condannato”.
Anche quest’atmosfera fa parte di quel “mondo mentale” che il caposcuola dell’officina ferrarese dispiega nei suoi due tondi. Un mondo tutto suo, un mondo che difficilmente si ritrova con altrettanta densità e altrettanto estro immaginifico nella produzione d’altri artisti coevi. Nel primo tondo l’ambiente presenta architetture contemporanee, “di una chiara e lieta varietà cromatica, dal rosa al verde al rosso al viola”, leggiamo ancora in Mario Salmi, “architetture unite al prospettico digradare dell’impiantito in cotto, di due toni, e fregiate di qualche motivo classicheggiante come quello dei bucranî e dei festoni”, architetture dove non mancano elementi desunti dal mondo reale in cui Tura viveva, vale a dire la scimmietta che s’arrampica sull’arco, animale che il pittore avrà visto in qualche ricevimento alla corte estense, o il paggetto che siede alla base del trono improvvisato del giudice, oppure quello che, per qualche ragione, s’aggira dietro agli sgherri tenendo in mano un preziosissimo e rarissimo vaso d’oro dalla foggia inusuale e ricercata, o ancora l’altro, ancor più assurdo, che sta seduto sull’arco, quasi annoiato, in simmetria col piccolo primate, e tiene sul guanto un falcone, altra evidente espressione dei sollazzi cortigiani. Al Martirio fa da sfondo un paesaggio altrettanto inverosimile, solo ch’è ambientato in esterno, tra rupi pietrose e nubi tonde e regolari che paiono dischi fatti d’aria, con lo spazio ch’è scandito dalle sottilissime aste degli stendardi che gli aguzzini sorreggono a distanza regolare l’uno dall’altro.
La datazione agli anni Ottanta si deve al fatto che, rispetto a opere precedenti, qui Cosmè Tura squaderna una narrazione più distesa, più equilibrata e più pacata rispetto a quelle, estremamente concitate, che avevano contraddistinto le fasi antecedenti della sua carriera, rispetto al “ritmo diabolico” che aveva saputo conferire a certe sue irripetibili composizioni: le ante dell’organo della Cattedrale di Ferrara ne costituiscono uno degli esempî più folgoranti. Ma non mancano, intanto, i suoi riferimenti culturali padovani, qui di nuovo debitori del Mantegna della cappella Ovetari. Né mancano la ricorrente preziosità glaciale della sua materia, i colori vitrei, i profili taglienti e scavati, le vesti e le corazze attillate che anticipano la pittura del Cinquecento inoltrato, i panneggi ferrigni che accomunano i testi figurativi di Cosmè Tura e che sono elementi partecipi di quella natura doppia che solca la sua pittura e ch’è stata così ben descritta da Bianconi: “una natura che pur rimanendo fondamentalmente gotica, favolosa, si accosta alla visione rinascimentale, all’esempio di Piero della Francesca e di Donatello, sfociando in esiti singolari, in un rovello fantastico, in forme nodose e contorte, in una inquietudine che, sebbene a suo modo, partecipa della pace spaziale di quei grandi toscani”.
Se ti è piaciuto questo articolo, leggi i precedenti della stessa serie: il Concerto di Gabriele Bella; la Ninfa rossa di Plinio Nomellini; l’Apparizione di Cristo alla madre del Guercino; la Maddalena di Tiziano; le Mille e una notte di Vittorio Zecchin; la Trasfigurazione di Lorenzo Lotto; il Tobia e l’angelo di Jacopo Vignali; il Profumo di Luigi Russolo; Novembre di Antonio Fontanesi.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).