“Alice moriva di noia [...], aveva sbirciato un paio di volte il libro che la sorella stava leggendo, ma non c’erano figure né dialoghi”. Anche Yayoi Kusama da bambina si annoiava a morte, costretta a leggere una vita non sua attraverso lenti appannate da insegnamenti e un’educazione familiare oppressivi, impregnati di pesanti tabù socio-culturali, antiquati valori tradizionali e retaggi patriarcali orientali. Educazione, tabù, arretratezza: una miccia esplosiva che, il più delle volte, deflagra in esistenze “folli” spese tra episodî d’isteria, allucinazioni e turbe psichiche. Casi così, soprattutto per le donne, vessate da millennî da condizioni anguste di vita, hanno esiti cupi e nefasti o, tutt’al più, annichilenti. Ma l’inatteso è dietro l’angolo e, come nelle migliori fiabe, può trasformarsi in qualcosa di reale. Perché, a volte, proprio l’immaginazione, l’arte e la creatività prendono il sopravvento, fungendo come vie di fuga, o, meglio, per dirla con le parole di Lewis Carroll, riescono a catapultarci giù nella “tana del Bianconiglio”, permettendo che cose straordinarie accadano. La vicenda di Yayoi Kusama è uno di questi casi.
Una bambina che ha guardato al mondo con occhi diversi, tutti suoi, dove persino le leggi della natura vengono sospese; e allora, rimpicciolendosi o ingrandendosi, a forma di pois o con zucche giganti e colorate, questo meraviglioso paese interiore lo ha ricreato attraverso opere ipnotiche, potenti e magnetiche, comprensive, queste sì, di figure, simboli, fiori, parole e falli, tutti elementi che i tabù subiti avevano all’inizio ricacciato indietro.
Nata nel 1929 in Giappone, disegnando i pois appunto, elementi veloci da strappare al controllo familiare, comprende presto quanto l’espressione artistica sia uno strumento catartico in grado di trasformare la sua vita, da soffocante a libera espressione di sé. Nella sua città di origine, Matsumoto, dove le era riservato un posto, a lei non affine, nell’impianto di semi della proprietà di famiglia e dove, proprio passeggiando in uno dei campi di fiori, una luce abbagliante le ha procurato le prime allucinazioni, un “inciampo” fortuito, come nelle migliori favole, le cambia prospettiva capovolgendo totalmente la sua situazione: la lettura di un libro con i dipinti di Georgia O’Keeffe, moglie del fotografo Alfred Stieglitz. Tutto scorre alla velocità della luce, Kusama la contatta e trova risposta.
Da questo momento in poi “sprofonda” giù, proprio come Alice, nel Paese delle meraviglie, pur continuando tutt’ora a vivere in un manicomio. È l’inizio di un mondo favoloso, parallelo e di una folgorante carriera, fino a poco prima osteggiata dalla famiglia che ne distrugge i primi lavori.
Seattle, infatti, è la prima tappa, dove nel 1957 espone presso la galleria di Zoe Dusanne, poi New York, la meta ambita, città in cui, grazie alle referenze della O’Keeffe, conoscerà il mercante d’arte Edith Halpert della Downtown Gallery. Due anni dopo, nel 1959, nelle sale della Brata Gallery inaugura la sua prima mostra personale, Obsessional Monochrome dove vengono presentate anche le sue grandi tele monocromatiche, Infinity Nets. Poi verranno le pareti della famosa Leo Castelli Galley e nel 1963, l’esposizione dell’istallazione che piacerà a Andy Warhol, Aggregation: One Thousand Boats Show. E ancora altre esposizioni personali: Driving Image Show del 1964, Infinity Mirror Room-Phalli’s Field del 1965, Love Forever del 1969, e via di seguito, fino all’happening Anatomic Explosion, le illustrazioni dell’ultima edizione (Fandango, 2013) di Alice nel Paese delle meraviglie, per giungere alla mostra dell’anno, Infinito presente aperta dal 17 novembre 2023 al Palazzo della Ragione di Bergamo: un’esposizione che ha già fatto “impazzire” il sistema di prenotazione, e ha costretto gli organizzatori, The Blank, ad estendere l’orario di apertura, garantendo 10 mila ingressi in più.
Moderna Alice (“l’antenata degli hippie”, come lei stessa la definisce), Yayoi Kusama, dopo anni di grande successo vissuti negli USA dove ha esposto accanto ai più grandi del tempo, minimalisti e concettuali soprattutto, come Claes Oldenburg, Robert Morris e l’italiano Piero Manzoni, rientra in Giappone e va a vivere, volontariamente, in un manicomio di Tokio, dal 1977. Qui verrà per un po’ dimenticata, fino a quando le generazioni più giovani di artisti riconoscono come imprescindibile il suo lavoro e vi si riconoscono, soprattutto perché improntato alla “connessione tra personale e formale, tra organico e meccanico, dato fisico e intellettuale” (così Graham W. J. Beal, Direttore del Los Angeles County Museum of art).
È la sua rimonta. Nuovi successi ed esposizioni andranno a coronare la fama dell’artista, con persino l’apertura di un museo a lei dedicato. Nuove generazioni ma non solo, anche nuove tendenze, studî, interpretazioni e attenzioni al mondo femminile contribuiscono a questa risalita. Obliterazione e semi-cancellazione dell’oggetto, riduzione al grado zero del segno, eversiva esorcizzazione del tabù del sesso, piccoli punti colorati, ovvero un puntinismo che diventa “ambientale” e fisico (mi riferisco ai Body Painting Happening, in cui i corpi maschili e femminili nudi venivano così dipinti), opere dall’effetto ragnatela che rivediamo più avanti in forme più mostruose e gigantesche nell’artista Louise Bourgeois, o ancora, la performance contro il mercato dell’arte allestita grazie all’intervento di Lucio Fontana come “fuori mostra” alla Biennale nel 1966: leggere correttamente il mondo alla rovescia, l’“universo morbido e informe” (Fabriano Fabbri) di Yayoi Kusama non è un esercizio di stile, né un compito facile. E nella critica moderna il suo lavoro si dipana in una doppia visione, che da un lato rifletterebbe il processo della Transavanguardia di Bonito Oliva, ovvero, quel contesto artistico in cui “ogni opera presuppone una manualità sperimentale, la sorpresa dell’artista verso un’opera, si costruisce non più secondo la certezza anticipata di un progetto e di un’ideologia, bensì si forma sotto i suoi occhi e sotto la pulsione di una mano che affonda nella materia dell’arte, in un immaginario fatto di un incarnamento tra idea e sensibilità”, mentre, dall’altro, si apre alla prospettiva estetica formulata da Tosa Mitsuoki, secondo cui i suoi “principî si basano sulla relazione tra la realtà percettibile e la proiezione di essa nell’arte. L’arte ha il compito di “imitare la natura” ma, ad un certo punto, l’artista deve allontanarsi da essa e persino distorcerla”.
Il grande trionfo, anzitutto di pubblico delle ultime esposizioni pone, però, almeno un ulteriore interrogativo: è davvero ben compresa, assorbita, la sua produzione artistica o, come spesso accade, è la sua biografia, stravagante, eversiva, a dettare legge, ad incuriosire e a fare numeri da capogiro anche nelle aste? A lungo Kusama ha rischiato (e ancora oggi lo fa) di restare impigliata in questo controverso malinteso, una querelle che attraversa tutta la storia dell’arte, antica e contemporanea.
Una certezza resta. Tra avventura e metodo, creare come il Cappellaio Matto con la propria vita, per quanto complessa, e con la propria opera, per quanto poliedrica, distopica e mal compresa, un mondo a sé, non è operazione comune, necessita, invece, di una capacità d’invenzione fiabesca che in pochi sanno rendere propria e reale.
Tanto più se riscrivere tutto da capo significa rivoltare tradizioni, sbaragliare tabù, condizionamenti e affermare, come ha ostinatamente fatto Yayoi Kusama, con coraggio, al di là della sua malattia, la propria libertà, soprattutto per una donna, e soprattutto se nata in un paese come il Giappone in quegli anni ancora impregnato di una cultura che sosteneva un sistema di valori e tradizioni arretrato e soffocante.
Così come la storia di Alice Liddell, la bambina che ha ispirato il romanzo di Carroll, ci narra di un paese come l’Inghilterra che in quel tempo imponeva un’educazione infantile basata su un “adeguato” ingresso al mondo adulto, anche la storia di Yayoi Kusama ci racconta che sbaragliare un ordine prestabilito da regole opprimenti e un’imposizione di valori che non tiene conto dell’essenza più intima del mondo infantile e, in generale, della natura dell’essere umano, è possibile. La favola di Alice nel Paese delle meraviglie e quella di Yayoi Kusama, fuori da ogni distorsione, ha questo profondo significato: inventare un mondo alla rovescia si può fare, perché uno sguardo più umano e sognante è lì dietro l’angolo. Basta solo chiudere gli occhi.