Nel 1540 lo scultore Leone Leoni (Arezzo, 1509 – Milano, 1590) lavorava come incisore presso la Zecca pontificia. L’artista aveva intrapreso precocemente una brillante carriera, giocata in diversi centri italiani e preludio al successo internazionale che lo avrebbe portato, entro il termine del decennio, a entrare al servizio dell’imperatore Carlo V. Il soggiorno a Roma, città nella quale era approdato nel 1538, non sarebbe durato più di due anni. Le offese ricevute da parte di Pellegrino di Leuti, gioielliere papale che vantava di aver insidiato Diamante, moglie dello scultore, spinsero Leoni a difendere con la violenza l’onore della famiglia. L’artista, responsabile di aver sfregiato il volto del gioielliere, fu condannato all’amputazione della mano destra. L’intercessione di alcune figure di spicco determinò, per fortuna della storia dell’arte europea, che la pena fosse ridotta a un periodo di lavoro forzato sulle galere. Il servizio di remo sarebbe stato presto interrotto, poiché passata da Genova l’imbarcazione sulla quale si trovava, lo scultore fu liberato da Andrea Doria (Oneglia, 1466 – Genova, 1560) nel marzo 1541.
A ricompensa del gesto benevolo, Leone Leoni avrebbe effigiato il Doria, divenuto suo mecenate (oltre che salvatore ), in diverse medaglie e placchette bronzee. Il profilo del genovese si conserva nei numerosi esemplari superstiti, e testimonia l’immagine di un uomo anziano, paludato nelle vesti di condottiero e riconoscibile, per la presenza del tridente, quale signore del mare.
Andrea Doria era nato a Oneglia, centro del ponente ligure, nel 1466. Appartenente a una schiatta patrizia responsabile della scrittura di diverse pagine della storia di Genova, ma legato a un ramo cadetto della dinastia, il nobile intraprese in giovane età, rimasto orfano, la carriera militare. Al servizio di diverse potenze, la prima delle quali fu il papato, Andrea trascorse alcuni anni lontano dalle dinamiche estremamente complesse della politica genovese del tardo Quattrocento. Ritornato in patria all’alba del nuovo secolo, in una realtà ormai soggetta alle ingerenze del re di Francia, il nobile iniziò a orientare, sullo sfondo delle guerre d’Italia, la sua attività di imprenditore della guerra sul frangente marittimo. La sua squadra di galee, in continua espansione, sarebbe divenuta, nel corso terzo decennio del secolo, il fondamentale strumento per il controllo delle rotte del Mediterraneo occidentale.
Fu in tale contesto che, nel 1521, Andrea Doria portò a termine i primi acquisti di terreni e di edifici nel borgo di Fassolo, situato al di fuori delle mura occidentali della città, con l’intenzione di erigervi la sua residenza. Tale operazione, compiuta in una fase avanzata della sua vita, è considerata quale avvio di un progetto di committenza artistica che si sarebbe concretato, a partire dal 1528, con l’arrivo a Genova di Pietro Bonaccorsi detto Perin del Vaga (Firenze, 1501 – Roma, 1547).
L’anno 1528 rappresentò una data cardine nella storia di Genova, tale da costituire un punto di non ritorno sul frangente politico, sociale, economico e artistico della città. In tale processo, il ruolo di protagonista giocato da Andrea Doria fu immediatamente riconosciuto: prima che il nobile potesse procedere a celebrare i suoi successi con la costruzione della sua residenza, fu la stessa Repubblica a decretare l’erezione di una statua in suo onore. L’incarico fu affidato allo scultore fiorentino Baccio Bandinelli (Firenze, 1488 – 1560): tuttavia, l’artista non portò a termine il lavoro. Il blocco marmoreo, lasciato allo stato di abbozzo e testimoniante forme lontane da “quella eccellenza” che la committenza si sarebbe aspettata, fu collocato a Carrara, nella piazza del Duomo, luogo dove ancora si conserva.
Nei primi mesi del 1528, Genova si trovava sotto il dominio militare di Francesco I di Francia (Cognac, 1494 – Rambouillet, 1547), al servizio del quale Andrea Doria operava dal 1522. Venuto meno il contratto tra il condottiero e il monarca francese, compiendo un “voltafaccia”, Doria siglò un’alleanza con l’imperatore Carlo V (Gand, 1500 – Cuacos de Yuste, 1558). Il genovese procedette nel liberare la città dalla dominazione straniera e nel proclamare la libertà della Repubblica, fatto peraltro garantito dagli accordi firmati con la casa asburgica. Forte del suo appoggio, varò una riforma istituzionale capace di placare l’endemica faziosità del sistema oligarchico cittadino e di sopravvivere, con pochi aggiustamenti, fino alla caduta della Repubblica, avvenuta al termine del Settecento.
Il ruolo assunto da Andrea Doria nel nuovo equilibrio politico, chiarito dalla scelta di non ricoprire incarichi di punta, fu rispecchiato dalla collocazione della sua residenza, posta ai margini della città. Non è chiaro l’aspetto che la villa assunse al termine della fase costruttiva e decorativa promossa da Andrea, poiché la forma in cui oggi si presenta rispecchia solo in parte l’assetto originario. Il complesso edilizio, decorato esternamente e internamente, era inserito in un sistema di giardini che ne determinavano il raccordo tanto con la zona collinare, quanto con il mare.
Nelle Vite di Giorgio Vasari (Arezzo, 1511 – Firenze, 1574), testo che ricorda numerosi dettagli sul mecenatismo di Andrea Doria, sono chiarite le circostanze dell’approdo di Perin del Vaga nel capoluogo ligure. Il pittore fiorentino, nato a Firenze e trasferitosi a Roma nella sua giovinezza, vantava un alunnato, motivo di indubbio prestigio, presso l’atelier di Raffaello Sanzio (Urbino, 1483 – Roma, 1520). Fattore decisivo per l’abbandono della città pontificia da parte dell’artista furono le devastazioni compiute dai lanzichenecchi nel 1527, da lui vissute in prima persona. “Mentre che le rovine del Sacco avevano distrutta Roma e fatto partir di quella gli abitatori et il Papa stesso”, racconta Vasari, il ricamatore Nicolò Veneziano, che si trovava in Liguria al servizio di Andrea Doria, “convinse Perino a partirsi da quella miseria et inviarsi a Genova”.
L’arrivo del pittore nel cantiere doriano avrebbe permesso al condottiero di potersi servire di un artista completo, cui forse spettò un ruolo nella definizione della veste architettonica del palazzo. A questo si accedeva tramite un vasto atrio il cui ingresso era incorniciato, sulla facciata settentrionale, da un maestoso portale in marmo di Carrara, disegnato da Perino e realizzato, stando alle informazioni fornite da Vasari, da Giovanni da Fiesole e da Silvio Cosini (Poggibonsi?, 1495 – Pietrasanta?, dopo il 1549). Quest’ultimo artista, già collaboratore di Michelangelo Buonarroti (Caprese, 1475 – Roma, 1564) nel cantiere delle Cappelle Medicee, sovrintese all’esecuzione di molti degli stucchi che andarono a incorniciare, a partire dalle volte dell’atrio, dello scalone e della loggia, i soffitti delle stanze affrescate da Perino.
La conoscenza delle numerose corti rinascimentali che Andrea Doria frequentò negli anni della sua giovinezza dovette essere fattore determinante nelle scelte impiegate per la realizzazione e decorazione della sua residenza. D’altra parte il condottiero, all’epoca sessantenne, era sicuramente entrato a contatto con diversi artisti: basti pensare alla circostanza per la quale, alla vigilia del Sacco di Roma, fu ritratto da Sebastiano del Piombo (Venezia, 1485 – Roma, 1547) in uno straordinario dipinto, commissionato da papa Clemente VII (Firenze, 1478 – Roma, 1534) e pervenuto solo successivamente alla residenza di Fassolo. Il papa, d’altra parte, non fu l’unica figura a desiderare un’effige del Doria per la propria collezione: Paolo Giovio (Como, 1483 – Firenze, 1552), che stava costituendo in quegli anni una raccolta di immagini di uomini illustri, fece ritrarre il genovese da Agnolo Bronzino (Firenze, 1503 – 1572). La tela, pervenuta nel tardo Ottocento alla Pinacoteca di Brera, costituisce una delle immagine più iconiche dell’ammiraglio, raffigurato dal pittore fiorentino in una nudità vigorosa che lo identifica come Nettuno, dio del mare.
La temperie artistica maturata nei cantieri raffaelleschi fece così il suo ingresso in casa Doria, e dunque a Genova. Il ciclo di affreschi e stucchi coordinato da Perin del Vaga, integrato da numerosi arazzi (tessuti in fiandra) cui lui stesso fornì i cartoni, costituì uno dei più vasti complessi decorativi del primo Cinquecento europeo.
La residenza di Andrea Doria divenne presto luogo degno per ospitare figure illustri, tra cui lo stesso imperatore, che soggiornò per la prima volta a Fassolo nel 1529. Negli anni successivi, Carlo V tributò l’ammiraglio di numerose onorificenze: nel 1531 gli fu assegnato il feudo di Melfi, che gli valse il titolo di Principe, da cui derivò la denominazione, per la sua residenza, di Villa del Principe. Nello stesso anno, il conferimento del prestigioso Toson d’Oro, determinò la scelta dei soggetti con la quale venne affrescata la facciata meridionale, che vide impegnati, oltre a Perino, i pittori Giovanni Antonio de’ Sacchis detto il Pordenone (Pordenone, 1483 – Ferrara, 1539) e Domenico Beccafumi (Montaperti, 1486 – Siena, 1551). Di tale ciclo, dedicato alla figura di Giasone, non resta alcuna traccia.
Il soggiorno genovese di Perin del Vaga si interruppe, conclusa la campagna decorativa del palazzo, nel 1536. Negli anni successivi, le attenzioni di Andrea andarono a concentrarsi sulla chiesa di San Matteo, edificio posseduto dalla famiglia Doria, tempio delle memorie dei grandi esponenti del casato e luogo di sepoltura eletto dal principe di Melfi. La chiesa, che conserva tuttora l’antica facciata medievale, fu sottoposta, a partire dagli anni quaranta del secolo, a un restauro integrale nei suoi ambienti interni.
L’opportunità di ridefinire gli spazi dell’antico edificio fu offerta al Doria dal passaggio a Genova, nel 1539, di Giovanni Angelo Montorsoli (Firenze, 1507 – 1563). Lo scultore fiorentino, formatosi nella cerchia michelangiolesca, era approdato in città per realizzare quella statua onoraria del Doria che la Repubblica aveva commissionato invano, nel decennio precedente, a Baccio Bandinelli. Il nobile non perse occasione di servirsi a sua volta degli scalpelli di Montorsoli, cui fu affidata la conduzione del cantiere di San Matteo. L’officina di Montorsoli, che si avvalse della collaborazione di Silvio Cosini, mise in opera la struttura decorativa del presbiterio, della crociera e della cripta, all’interno della quale fu posto il sepolcro di Andrea. Tali ambienti furono rivestiti di marmi policromi e decorati da sculture a tuttotondo, bassorilievi, stucchi che costituirono, nel loro insieme, un modello senza precedenti per il panorama artistico locale.
Quella di provvedere alla propria sepoltura costituiva una giusta preoccupazione per un uomo che aveva superato, a quella data, i settantacinque anni. Morto nonagenario, il Doria promosse, nell’ultima fase della sua vita, un nuovo intervento decorativo nella chiesa di San Matteo. Nei tardi anni cinquanta del XVI secolo, i pittori Giovanni Battista Castello detto il Bergamasco (Gandino, 1509 – Madrid, 1569) e Luca Cambiaso (Moneglia, 1527 – San Lorenzo de El Escorial, 1585) si trovarono a operare nelle navate che, ridefinite in tale occasione dal punto di vista architettonico, furono rivestite di stucchi e arricchite da affreschi. Nelle scene dipinte in cui i due artisti, principali protagonisti della pittura del secondo Cinquecento genovese, si trovarono impegnati sugli stessi ponteggi a condurre, nel realizzare scene diverse, una vera e propria competizione artistica, probabilmente incentivata dallo stesso Principe.
La figura di Andrea Doria, ammiraglio della flotta imperiale e considerato a Genova quale Pater Patriae, istituì in città un nuovo paradigma di committenza. Da un lato la natura degli interventi artistici da lui promossi, concretatisi nella costruzione della sua villa suburbana e nel restauro della chiesa di San Matteo (posta invece nel cuore della città antica), e dall’altro il calibro degli artisti coinvolti, rappresentarono una condotta inedita per la nobiltà locale.
Andrea chiamò maestri da centri diversi, seppe sfruttare occasioni consentite dal suo ruolo (quale quella scaturita con la liberazione di Leone Leoni) e, vivendo molti anni, ebbe la possibilità di servirsi di generazioni diverse di pittori, architetti e scultori. Le opere da questi realizzate nei cantieri da lui promossi costituirono modelli imprescindibili per i maestri attivi in città e determinarono un cambio di rotta nelle vicende artistiche cittadine. L’attività di Luca Cambiaso, pittore genovese formatosi a sua volta sui testi pittorici della villa di Fassolo, nella chiesa doriana di San Matteo, può costituire un chiaro esempio dell’influenza esercitata dai prodotti del mecenatismo del condottiero.
Se la chiesa rimane tuttora intatta nel suo contesto medievale originario, gli spazi estesi della residenza di Andrea Doria, dotata di ampli giardini, furono radicalmente ridimensionati quando, nel tardo Ottocento, le nuove esigenze della mobilità urbana ne decurtarono significative porzioni. Il nome della villa è da allora richiamato a chiunque faccia il suo ingresso in città dalla stazione ferroviaria che le sorse accanto, Genova Piazza Principe.
Questo contributo è stato pubblicato originariamente sul n. 3 della nostra rivista cartacea Finestre sull’Arte Magazine. Clicca qui per abbonarti.