Il manoscritto autografo del De Prospectiva Pingendi di Piero della Francesca


La Biblioteca Palatina di Parma conserva l’unico manoscritto interamente autografo del De Prospectiva Pingendi di Piero della Francesca, il fondamentale trattato di prospettiva scientifica scritto dal grande pittore toscano. 

È opera di Piero della Francesca (Borgo San Sepolcro, 1412 circa - 1492) il primo trattato dedicato alla prospettiva scientifica: è il De Prospectiva Pingendi, trasmesso da sette manoscritti. Tre sono quelli che ci hanno fatto arrivare il testo in volgare: il Ms. Parm. 1576 della Biblioteca Palatina di Parma, il Ms. Reggiano a41/2 della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia e il Ms. D 200 inf. della Biblioteca Ambrosiana di Milano. Il manoscritto milanese è una copia cinquecentesca, quello reggiano contiene alcune correzioni e annotazioni di Piero (oltre che i suoi disegni), mentre il manoscritto parmense è invece interamente autografo. Gli altri quattro manoscritti (conservati alla Biblioteca Ambrosiana, alla Bibliothèque Municipale di Bordeaux, al British Museum e alla Bibliothèque Nationale di Parigi) contengono invece la traduzione in latino eseguita da Matteo di ser Paolo d’Anghiari.

A darci notizia della precedenza della versione in volgare e del nome del traduttore è il grande matematico Luca Pacioli, amico di Piero della Francesca, che così scriveva nel suo libro De summa arithmetica: “El sublime pictore (a li dì nostri ancor vivente) maestro Pietro de li Franceschi nostro conterraneo del Borgo San Sepolchro hane in questi dì composto degno libro de ditta prospectiva. Nel qual altamente de la pictura parla ponendo sempre al suo dir ancora el modo e la figura del fare. El quale tutto habbiamo lecto e discorso, el qual lui feci vulgare, e poi el famoso oratore, poeta e rhetorico greco e latino (suo assiduo consotio e similmente conterraneo) maestro Matteo lo reccò a lingua latina ornatissimamente de verbo ad verbum con exquisiti vocabuli”. L’idea di redigere il testo in volgare e di farlo poi tradurre in latino rispondeva alla necessità di far pervenire il trattato a un pubblico che fosse il più ampio possibile e di non precludergli l’opportunità di entrare a far parte della splendida biblioteca di Federico da Montefeltro, duca di Urbino.

Non conosciamo con certezza la data in cui il De Prospectiva Pingendi è stato scritto. Piero della Francesca, nell’epistola dedicatoria di un altro suo importante trattato, il Libellus de quinque corporibus regularibus, ricordava di aver donato il trattato sulla prospettiva a Federico da Montefeltro, scomparso nel 1482: il De Prospectiva Pingendi, pertanto, fu necessariamente scritto prima di questa data, e generalmente gli studiosi tendono a collocarlo tra il 1475 e il 1477, epoca del soggiorno di Piero a Urbino, nel corso del quale riuscì con tutta probabilità a consultare il manoscritto euclideo De aspectuum diversitate, un trattato di ottica, oggi conservato alla Biblioteca Apostolica Vaticana.

Piero della Francesca, De Prospectiva Pingendi (1474-1477; manoscritto; Parma, Biblioteca Palatina, Ms. Parm. 1576)
Piero della Francesca, De Prospectiva Pingendi (1474-1477; manoscritto; Parma, Biblioteca Palatina, Ms. Parm. 1576)
Piero della Francesca, De Prospectiva Pingendi (1474-1477; manoscritto; Parma, Biblioteca Palatina, Ms. Parm. 1576)
Piero della Francesca, De Prospectiva Pingendi (1474-1477; manoscritto; Parma, Biblioteca Palatina, Ms. Parm. 1576)
Piero della Francesca, De Prospectiva Pingendi (1474-1477; manoscritto; Parma, Biblioteca Palatina, Ms. Parm. 1576)
Piero della Francesca, De Prospectiva Pingendi (1474-1477; manoscritto; Parma, Biblioteca Palatina, Ms. Parm. 1576)

È lo stesso Piero della Francesca a delineare sin dall’introduzione il tema del De Prospectiva Pingendi, dedicato al tema della commensuratio (“quale diciamo prospectiva”, aggiunge Piero), uno dei tre elementi fondamentali della pittura, assieme al “disegno” e al “colorare”: “Commensuratio diciamo essere essi profili et contorni proportionalmente posti nei lughi loro”. L’artista borghigiano identifica cinque elementi essenziali della commensuratio, ovvero l’occhio, la forma dell’oggetto che viene visto, la distanza tra l’oggetto e l’occhio, le linee che uniscono l’occhio e l’oggetto, e il piano da cui dipende la prospettiva. È interessante notare come Piero si mantenga equidistante tra una trattazione che affronti problemi strettamente legati alle teorie ottiche e un’applicazione empirica della prospettiva: la trattazione, suddivisa in “proposizioni” e svolta, a partire dalla dodicesima proposizione, mediante problemi di prospettiva che vengono presentati al lettore in ordine crescente di difficoltà, accompagnati dai disegni autografi di Piero della Francesca, intende dare al lettore dimostrazione delle soluzioni dei problemi attraverso principî geometrici.

Il trattato è diviso in tre libri, che sono rispettivamente dedicati alle figure piane, ai solidi elementari e ai corpi più complessi. Il primo libro si apre con undici proposizioni in cui Piero della Francesca affronta il teorema fondamentale dell’ottica euclidea (“Omni quantità se rapresenta sotto angolo nell’occhio”) e precisa i concetti di similitudine e proporzione geometrica. La trattazione sulla prospettiva comincia dalla dodicesima proposizione: per esempio, nella 14 e nella 15 l’artista spiega come costruire la griglia pavimentale che permette di scalare gli oggetti in prospettiva, mentre in quelle che vanno dalla 16 alla 20 l’artista affronta il problema della riduzione in scorcio prospettico dei poligoni regolari (il triangolo, il pentagono, l’esagono, l’ottagono, e l’esadecagono), e presenta problemi sull’aggiunta e la riduzione di superfici da un quadrato, o sul ritaglio di poligono su superfici piane. Il primo libro si conclude con la trentesima proposizione, destinata a coloro che “stanno in dubitatione la prospectiva non essere vera scientia, giudicando il falso per ingnorança”: Piero intende invece dimostrare che la prospettiva è vera scienza con una dimostrazione geometrica sul problema delle aberrazioni marginali, ovvero la rappresentazione deformata della realtà derivante dalle proiezioni che partono da angoli visivi molto ampi. L’artista, scrive Chiara Gizzi che nel 2016 ha curato l’edizione critica del De Prospectiva Pingendi per le Edizioni Ca’ Foscari, risponde “stabilendo che l’occhio deve rimanere fisso nel termine (‘perché i[n] quello termine l’occhio sença volgiarse vede tucto il tuo lavoro, ché, se bisognasse volgere, serieno falsi i termini perché serieno più vederi’, I.30.14) e che il rapporto ideale tra l’occhio e il termine è di due terzi di angolo retto”.

Il secondo libro, che parla dei solidi elementari, si apre con la definizione dei “solidi” (“Corpo ha in sé tre demensioni: longitudine, latitudine et altitudine”), e prosegue con diversi problemi attraverso i quali Piero della Francesca spiega come scorciare in prospettiva i corpi, sempre in ordine di difficoltà crescente, partendo dunque dai solidi più semplici (come il cubo) per poi passare dalle figure geometriche astratte a oggetti reali, per esempio pilastri, vere da pozzo, edifici o parti di edificio (come un tempio a base ottagonale oppure una volta a crociera). Il secondo volume si conclude con la proposizione 12, nella quale Piero affronta di nuovo il problema dell’aberrazione marginale, in questo caso di un colonnato, affermando che se nel disegno prospettico le colonne laterali appaiono più grandi rispetto a quelle centrali, in contraddizione con le nostre impressioni visive, le proporzioni non devono essere corrette poiché “de necesità se rapresenta nel termine magiore la più remota che non fa la più propinqua; che è il proposto”. Ovvero, è “la dimostrazione matematica”, ha scritto lo studioso Massimo Mussini, che “assicura della certezza di tale risultato”.

Piero della Francesca, De Prospectiva Pingendi (1474-1477; manoscritto; Parma, Biblioteca Palatina, Ms. Parm. 1576)
Piero della Francesca, De Prospectiva Pingendi (1474-1477; manoscritto; Parma, Biblioteca Palatina, Ms. Parm. 1576)
Piero della Francesca, De Prospectiva Pingendi (1474-1477; manoscritto; Parma, Biblioteca Palatina, Ms. Parm. 1576)
Piero della Francesca, De Prospectiva Pingendi (1474-1477; manoscritto; Parma, Biblioteca Palatina, Ms. Parm. 1576)
Piero della Francesca, De Prospectiva Pingendi (1474-1477; manoscritto; Parma, Biblioteca Palatina, Ms. Parm. 1576)
Piero della Francesca, De Prospectiva Pingendi (1474-1477; manoscritto; Parma, Biblioteca Palatina, Ms. Parm. 1576)

Il terzo libro comincia con un proemio in cui Piero della Francesca torna a parlare della validità della prospettiva come scienza, rivolgendosi ai “molti dipintori” che “biasimano la prospectiva perché non intendano la força de le linee et degl’angoli che da essa se producano: con li quali commensuratamente onni contorno e lineamento se descrive”. Piero intende invece “mostrare quanto questa scientia sia necesaria alla pictura”: secondo l’artista, dire “prospettiva” equivale a dire “cose vedute da lungi, rapresentate socto certi dati termini con proportione, secondo la quantità de le distantie loro”. E poiché a suo avviso la pittura non è altro che “dimostrationi de superficie et de corpi degradati o acresciuti nel termine, posti secondo che le cose vere vedute da l’occhio socto diversi angoli s’apresentano nel dicto termine”, allora di conseguenza la prospettiva è necessaria poiché “discerne tucte le quantità proportionalmente commo vera scientia, dimostrando il degradare et acrescere de onni quantità per força de linee”. L’ultimo volume del De Prospectiva Pingendi parla delle “degradationi de’ corpi compresi da diverse superficie et diversamente posti”, e in particolare di “corpi più deficili”, che di conseguenza richiedono altri metodi di scorcio. “Ribadendo che la capacità di delineare le figure è condizione necessaria per poter operare la loro riduzione prospettica”, scrive Gizzi, “Piero espone il metodo per pianta e alzato di cui offre la prima codificazione scritta”: gli esercizi proposti dall’artista riguardano dunque corpi complessi come il mazzocchio, il basamento della colonna, il capitello, e anche la testa umana, scorciata da Piero nelle illustrazioni più famose del trattato. Il metodo di Piero prevede che la figura venga scorciata in pianta (“largheçça”) e in alzato (“alteçça”), e venga poi fissato un punto di vista, attraverso l’uso di un ago con un filo (Piero suggerisce di adoperare un pelo di coda di cavallo), per poi tracciare, ricostruisce Gizzi, “una linea parallela al piano che costituisce il termine, dove verranno poste le righe (una di legno per la larghezza e due di carta per l’altezza). Posizionata la riga sul termine, si tira il filo sino al punto da riportare sulla riga stessa e dove il filo tocca (bacte) la riga si segna il punto”. Questa operazione si ripete per tutte le sezioni in cui l’oggetto è scomposto, e una volta riportati tutti i punti sulle righe, si potrà ricostruire la figura.

Si tratta di un metodo particolarmente complicato soprattutto per lo scorcio della figura umana, tanto che l’artista, per dimostrare le sue teorie, offre al lettore una trattazione molto lunga. Infine, le ultime due proposizioni insegnano al lettore a ridurre in prospettiva un rinfrescatoio (un recipiente per tenere il vino in fresco) posto su una tavola da pranzo, e un anello appeso a un soffitto. L’opera si conclude con due componimenti encomiastici in latino, presenti solo nei codici tradotti e nel manoscritto della Biblioteca Palatina.

Il codice parmense, restaurato nel 2010 dallo Studio Crisostomi di Roma, si presenta con una legatura ottocentesca in marocchino rosso su quadranti, decorata a motivi floreali in oro, e si compone di nove fascicoli: sul verso della carta di guardia (sono detti “carte di guardia” i fogli non stampati, posti all’inizio e alla fine del libro, che proteggono il testo) appare un riferimento all’inventario della raccolta libreria del sacerdote ed erudito Michele Colombo (Campo di Pietra, 1747 - Parma, 1838), nel cui catalogo, conservato anch’esso alla Palatina, viene attribuito al “ms. pregevolissimo” un valore di 200 paoli, e viene riportata la notizia di una ripetuta offerta di dieci zecchini per il suo acquisto. Sempre Colombo, annota che “Sommamente pregevole si è questo codice che, secondo ogni apparenza, è l’autografo stesso dell’Autore”. Non sappiamo come Colombo si fosse procurato il manoscritto: quel che è certo, è che l’autografo del De Prospectiva Pingendi pervenne alla Biblioteca Palatina nel 1843, assieme a tutti i manoscritti della collezione dell’abate. E da allora, il pregiatissimo codice rinascimentale ha legato le sue sorti a quelle dell’istituto parmense. Un libro che, ha scritto Leonardo Farinelli, direttore della Palatina dal 1991 al 2007, “da solo potrebbe render famosa qualsiasi biblioteca”.

La Biblioteca Palatina di Parma

Situata nel Complesso della Pilotta di cui è parte integrante (si trova infatti al primo piano del Palazzo, a fianco del Teatro Farnese e della Galleria Nazionale di Parma), la Biblioteca Statale Palatina di Parma venne fondata nel 1761 da Filippo di Borbone, duca di Parma, Piacenza e Guastalla, con l’idea di creare un istituto per promuovere l’istruzione, per poi essere aperta al pubblico nel 1769 (all’inaugurazione pertecipò anche Giuseppe II, imperatore austriaco, cognato di Ferdinando di Borbone che nel 1765 era succeduto al padre Filippo). Possiede un vasto patrimonio librario: 700.000 volumi, 6.600 manoscritti, 3.000 incunaboli, oltre a codici miniati dell’XI e del XII secolo, e 50000 stampe. Tra le gemme più preziose del patrimonio spicca il Fondo Parmense, che contiene numerosi libri e documenti sulla storia della città ma di cui fanno parte anche nuclei su altri argomenti (per esempio il fondo spagnolo con numerose opere del “Siglo de Oro”), il Fondo Palatino (era la biblioteca personale dei duchi di Borbone-Parma), i manoscritti parmensi (il fondo che include il De Prospectiva Pingendi oltre ad altri elementi di spicco, come uno dei più antichi testimoni della Divina Commedia), i manoscritti palatini (tra i quali la Bibbia Atlantica, il tetravangelo greco dell’XI secolo, il Breviario di Barbara di Brandeburgo, i libri d’ore francesi e fiamminghi), la Collezione De Rossi (una delle raccolte più importanti al mondo di manoscritti e stampati ebraici), il gabinetto di disegni e stampe, la sezione musicale.

Alla Palatina di Parma si visitano anche gli splendidi spazi storici: la celebre Galleria Petitot, così chiamata dal nome dell’architetto francese (Ennemond Alexandre Petitot) che la progettò alla fine del Settecento, il grande Salone Maria Luigia con gli affreschi di Francesco Scaramuzza, che dipinse anche le decorazioni della Sala Dante, con temi tratti dalla Divina Commedia. La Palatina conserva anche numerose opere d’arte. Tra queste, la più famosa è probabilmente il busto di Maria Luigia, duchessa regnante dal 1814 al 1847, eseguito da Antonio Canova nel 1821, arrivato a Parma l’anno dopo (fu sistemata nella Galleria dell’Accademia di Belle Arti), ed entrato nel 1875 a far parte della Biblioteca, dove fu posto nella sala di lettura dedicata alla sovrana: è qui che ancora si ammira l’opera in marmo.

Biblioteca Palatina, Galleria Petitot. Foto di Giovanni Hänninen
Biblioteca Palatina, Galleria Petitot. Foto di Giovanni Hänninen

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