Dalla strada, il Labirinto della Masone non si vede. Arrivarci è facile: si corre lungo la via Emilia fino alla deviazione che porta a Fontanellato e a Soragna, una larga carrabile che spartisce il paesaggio. Dai capannoni che si rincorrono appena usciti dall’autostrada alla campagna piatta della bassa parmense, ormai lontani dalla città. Si segue la via di Fontanellato fino a che non si trova un boschetto, uno dei pochi rimasti nella Pianura Padana. Da lì si gira e s’arriva al Labirinto. Fuori, è protetto da una coltre di bambù e poi da una muraglia di mattoni. Il Labirinto tocca conquistarselo, bisogna volerlo, ci vuole la giusta disposizione. Franco Maria Ricci voleva che il suo labirinto serbasse non soltanto il fascino dei dedali antichi, la loro aura di mistero, e persino una reale sensazione di smarrimento, date le sue dimensioni: voleva che gli ospiti, percorrendolo, provassero un’esperienza simile a un rito, a una ricerca interiore.
Una volta che si entra nel Labirinto della Masone, trovare il centro e poi uscire non è semplice. Chi gira per parchi e giardini è abituato a labirinti di dimensioni ridotte, oppure formati da siepi basse che consentono di avere sempre tutta la situazione sotto controllo, col risultato che girare dentro un labirinto è quasi sempre una sorta di divertimento o poco più. Qui, è diverso: in un labirinto dove ogni lato misura cento metri c’è da impegnarsi seriamente, perché il rischio è quello di camminare, camminare e camminare, mezz’ora, un’ora, due ore, per trovarsi poi al punto di partenza. I bambù utilizzati per costruire il percorso, trecentomila piante che in certi punti arrivano anche a essere alte quindici metri, coprono completamente la vista, s’intrecciano, dànno forma a gallerie, sono fitte e impenetrabili, non concedono quasi mai punti di riferimento. È frustrante. E allora non c’è altro modo: bisogna concentrarsi. Ragionare. Riflettere sui propri errori. Ritrovare l’orientamento. Pensare per non perdersi. E c’è chi si perde davvero: si narra di turisti che non sono stati in grado di trovare l’uscita, e i dipendenti sono dovuti partire per recuperarli con le golf car in dotazione al personale. I numeri stampati sui cartelli che ogni tanto s’incontrano lungo il cammino servono anche a questo: a segnalare la propria posizione in caso di smarrimento.
La storia ufficiale vuole che il Labirinto della Masone sia nato, almeno sul piano ideale, nel 1977, quando Franco Maria Ricci, editore, collezionista d’arte, bibliofilo, irripetibile umanista contemporaneo, fece una scommessa con Jorge Luis Borges, cui è stato peraltro dedicato un altro labirinto, a Venezia, sull’isola di San Giorgio. Il labirinto è centrale nella letteratura di Borges. Per lo scrittore argentino, è “luogo dove caos e cosmos si riuniscono”, ha scritto Domenico Porzio, giornalista, critico d’arte e curatore dell’opera omnia di Borges. “Luogo contraddittorio perché è un’architettura che, insieme, protegge e incarcera chi lo abita”, luogo che “si dilata in metafore molteplici”, simbolo del caos e dell’infinito, luogo del tempo, del pensiero, dello spirito. Per Franco Maria Ricci, il labirinto è una sorta di archetipo. “È presente in tutte le epoche”, ha detto in un’intervista, “ed è stato un simbolo sacro e laico, dal labirinto greco e romano, temibile simbolo del potere, al labirinto medievale, simbolo di fede, ai giocosi e intricati giardini settecenteschi, ai labirinti presenti nei siti sacri indiani e orientali”.
Sono serviti anni per dar forma a quel concetto sul quale Ricci aveva a lungo meditato, leggendo i libri dell’amico Borges. Un sogno che aveva cominciato a prender forma nei primi anni Duemila, un luogo che potesse rappresentarlo, la sede della sua collezione d’arte, della sua casa editrice, dell’archivio di FMR, la rivista che ha avvicinato all’arte generazioni d’italiani e non solo e che ancor oggi è un modello di riferimento per l’editoria del settore. Sul finire degli anni Novanta, l’incontro da cui tutto è partito: Ricci conosce Davide Dutto, giovane studente d’architettura di Torino, che gli parla delle architetture dell’isola di Citera descritte nell’Hypnerotomachia Poliphili, il romanzo di maggior successo del Rinascimento. A Ricci quelle immagini ricordano la forma d’un labirinto. E forse gli rammentano anche la promessa fatta a Borges più di vent’anni prima. Scatta allora la voglia di tener fede a quel proposito, di cominciare a tradurre l’idea in un progetto concreto.
La forma del labirinto, aperto al pubblico nel 2015, nasce dai disegni di Davide Dutto, che impiega diversi tentativi prima di giungere a una soluzione ispirata ai trattati rinascimentali, agli esempî urbanistici del Cinquecento, ma anche a dedali più antichi, così che il Labirinto della Masone risulti, infine, in una somma di più elementi: una conformazione tipica del labirinto classico, come quello cretese a sette spire, una pianta quadrata che rinvia ai labirinti dei mosaici romani, il tutto inserito però in un giardino dalla forma stellata che rimonta alla trattatistica rinascimentale, in particolare al Trattato di Architettura del Filarete che immaginava uno schema scaturito dalla sovrapposizione di due quadrati, secondo un’idea che avrebbe ispirato l’urbanistica delle “città ideali”, a cominciare da Palmanova, forse la più fedele alle idee di Filarete, e da Sabbioneta, la città fondata dal duca Vespasiano Gonzaga, non distante da Fontanellato. Quella stella avrebbe visto sorgere massicci e imponenti bastioni in corrispondenza delle punte, allo scopo di proteggere il cuore della città. E con la stessa idea, anche qui i bastioni vegetali e i meandri tortuosi del labirinto proteggono il centro del dedalo.
Il bambù che dà forma ai corridoi, essenza orientale, piantato al Labirinto della Masone in diverse varietà, viene scelto per diverse ragioni: la curiosità e l’apertura di Franco Maria Ricci a essenze insolite (l’editore raccontava di come un giardiniere giapponese gli avesse suggerito di impiantare un piccolo boschetto di bambù nel giardino della sua casa di Milano), la facilità di gestione (il bambù è pianta estremamente resistente e difficilmente si ammala), la sua eleganza, le sue qualità di pianta sempre verde, che non perde mai le foglie, la sua capacità di assorbire l’anidride carbonica, la rapidità con cui cresce.
Prima d’arrivare al labirinto si visita la collezione, ospitata nella prima delle architetture che s’incontrano arrivando alla Masone. Un edificio a pianta quadrata, di cinquemila metri quadri. Forme ispirate alle architetture neoclassiche. Pareti esterne tutte nel laterizio tipico della pianura padana: Ricci voleva che ci fosse armonia tra il Labirinto e il territorio che lo accoglie. Dentro, le opere raccolte lungo decennî di collezionismo colto, eclettico, stravagante, e suddivise in sale tematiche. Tra i pezzi migliori, una Venere di Luca Cambiaso colta nell’atto di bendare Cupido, e poi una Sacra Famiglia di Girolamo Mazzola Bedoli che tocca uno dei suoi punti di massima tangenza col Parmigianino, un Battista del sofisticato, metallico Bartolomeo Schedoni, il tormentato Vir temporis acti di Adolfo Wildt, un’austera Elisa Baciocchi di Lorenzo Bartolini, un Cristo deriso di Valentin de Boulogne, una Tigre di Ligabue, una lunga teoria di ritratti tra i quali spiccano l’editore Treves dipinto da Vittorio Corcos e la nobile Francesca Majnoni dipinta da Hayez. Un’intera sala, la più macabra, è per le vanitas e i memento mori. C’è un ambiente destinato alle opere art déco. E non mancano neppure i pezzi da Wunderkammer: irrinunciabile il dente di narvalo, in questo caso piantato su di una testa di Polifemo. In un’altra sala si possono sfogliare tutti i numeri di FMR, messi a disposizione del pubblico che può così camminare lungo l’intera storia della rivista, sfogliando ogni singola pagina della perla nera dell’editoria mondiale.
Finita la visita alla collezione, ci s’immerge nel labirinto, avvolti da un silenzio interrotto solo dai suoni della campagna, dal fruscio del vento, dal canto di qualche uccellino, e dal vociare dei visitatori che s’incontrano lungo un cammino che, dall’entrata, in poco più di un’ora, se percorso con attenzione, dovrebbe condurre prima al centro e poi all’uscita. Al centro, si staglia la grande piramide progettata, al pari di tutte le architetture, da Pier Carlo Bontempi, che per i suoi edifici s’è ispirato, seguendo le idee di Ricci, alle utopie illuministe d’un Étienne-Louis Boulée, d’un Claude-Nicolas Ledoux, d’un Pierre François Léonard Fontaine: osservando la piramide di Bontempi ci s’accorgerà di quanto la sua forma richiami i maestosi cenotafi progettati dagli architetti dell’epoca dei lumi. È questo il cuore protetto dal labirinto di bambù, il centro al quale conduce il percorso della Masone, la piramide in cui il visitatore trova una cappella che Ricci, uomo di profonda fede cattolica, ha voluto collocare nel mezzo del dedalo per ricordare che il labirinto in passato è stato anche un simbolo religioso, l’allegoria del cammino, irto d’ostacoli, di errori e di ripensamenti, che il fedele compie per giungere alla vera sapienza e alla salvezza, al punto che lo schema d’un labirinto, simile a quello dei mosaici romani, decora il pavimento della cappella, proprio davanti all’altare. E la piramide, al pari dell’obelisco, dopo l’antichità era assurta a simbolo cristiano: e se l’obelisco allude all’elevazione dell’essere umano verso la divinità, la piramide è simbolo di perfezione, è l’immagine della Trinità cristiana, è l’immagine di Dio che veglia sull’umanità. Questo è il centro verso il quale tende la ricerca di chi s’inoltra lungo il Labirinto della Masone.
Borges forse non pensava che Ricci sarebbe riuscito a realizzare il suo labirinto. In uno dei racconti della sua raccolta Aleph, il re d’Arabia dice al re di Babilonia, dopo aver vagato confuso fino al tramonto nell’intricato labirinto che proprio il re di Babilonia aveva fatto progettare ai suoi migliori architetti, che lui aveva un labirinto più complicato e inestricabile del suo. Glielo avrebbe fatto conoscere dopo averlo imprigionato: quel labirinto era il deserto. Non esisteva al mondo un labirinto peggiore e più grande del deserto. E Borges lo avrebbe fatto notare a Ricci. Ricci, dal suo canto, avrebbe riconosciuto d’aver peccato un poco di superbia nell’idea di costruire nelle campagne di Parma il labirinto più grande del mondo. Però ci è riuscito: ha dato forma al suo sogno, ha reso concreta la sua utopia. Borges, invece, non ha fatto in tempo a vederlo. Nel 1985, per FMR, aveva scritto che il labirinto “è un evidente simbolo della perplessità, e la perplessità, la meraviglia da cui sorge la metafisica secondo Aristotele, è stata una delle emozioni più comuni della mia vita”. E se avesse visto il Labirinto della Masone, probabilmente si sarebbe complimentato con l’amico. Perché Ricci, facendo passeggiare Borges tra le pareti di bambù del labirinto, gli avrebbe sicuramente fatto provare, di nuovo, quel vivo senso di perplessità.
La tua lettura settimanale su tutto il mondo dell'arte
ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERL'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).