“Certi giardini vengono descritti come dei rifugi, quando in realtà sono delle trappole”. L’aria tenera d’inizio primavera che s’incanala lungo il viale dei pini della Fattoria di Montellori fa di tutto per smentire l’aforisma di Ian Hamilton Finlay, il poeta scozzese cui spetta un ruolo pionieristico nell’invenzione del giardino d’artista. I rumori del traffico che scorre lungo la vicina strada regionale arrivano ovattati, ogni tanto qualche raggio di sole si fa largo in mezzo alla coltre di nubi per disegnare geometrie passeggere sui tetti di Fucecchio, sulle facciate delle sue case, sui campanili che dominano dall’alto la Fattoria e il suo giardino. La stessa famiglia, i Nieri, possiede la villa dal 1895, e il giardino all’epoca era già lì, ad abbracciare di verde l’edificio neorinascimentale su cui si stende l’ombra dei pini. I Nieri hanno mantenuto nei decennî il giardino senz’alterare le forme originali. Le sue aiuole, i vialetti, i cespugli, il boschetto romantico all’inglese, tutto è rimasto com’era. E allora questo è un rifugio, viene da pensare nell’immediato. Un rifugio fiorito. Un rifugio dolce. Altro che trappola.
Tradotto così, cercando di coglierne il senso letterale e di mantenere il gioco di parole, l’aforisma di Finlay parrebbe avere un’unica, inequivocabile lettura. In inglese però la frase ha delle velature più sfumate, muove qualche dubbio, conserva un’ambiguità ch’è difficile rendere in italiano senza perder per strada l’arguta giustapposizione dei termini: Certain gardens are described as retreats when they are really attacks. È un manifesto dell’opera di Finlay: rassicurante e sovversiva al contempo, sospesa nella dialettica tra natura e cultura. L’eco del suo pensiero s’è riverberata dalle Highlands alla Toscana, e non solo perché alla Fattoria di Celle c’è una sua opera, il Bosco virgiliano. Ma perché è qui, nelle campagne che s’allungano tra la Piana Pistoiese, l’Empolese e la Valdelsa, su fino alle balze di Volterra, che s’è prodotto l’humus ideale per raccogliere e sviluppare le sperimentazioni di Finlay.
Terre fertili, quelle della pianura toscana. Terre rigogliose, terre modellate nei secoli dall’azione dell’essere umano che le ha lavorate, levigate, addomesticate, accarezzate, e ha prodotto quei “paesaggi toscani” tanto celebri, scolpiti nell’immaginario comune, dipinti dagli artisti di tutti i secoli, cantati dai poeti, quei paesaggi che oggi attirano i turisti di tutto il mondo. Il rispetto del paesaggio, da queste parti, è impresso nel codice genetico degli abitanti. A Siena, già nel Trecento, nel Costituto del Comune, si sanciva per legge la tutela della “belleça”. Naturale, dunque, che “la problematica dell’arte ambientale” originasse, come ha osservato Enrico Crispolti, “proprio da esperienze attuate in buona parte in Toscana”. La Fattoria di Montellori è una dell’esperienze d’arte ambientale più recenti, e al contempo più innovative: qui le opere mutano ogni anno, perché fatte di fiori. E non è una metafora: non si parla, come accade per pressoché qualunque parco che abbia un minimo d’ordinamento e venga gestito con cura, d’un giardino tanto incantevole da meritare il paragone con un’opera d’arte. Quando, nel 2008, Eva Perini e suo marito Alessandro Nieri hanno cominciato a progettare il “giardino contemporaneo” di Montellori, tramutando in raccolta d’arte all’aperto un campo che s’estendeva ai margini della villa, hanno coinvolto alcuni ben noti artisti italiani contemporanei, e hanno chiesto loro d’immaginare opere d’arte fatte di fiori. “Incontri tra arte e natura e tra artista e committente, con complicità e condivisioni che rendono possibili esiti sorprendenti e affascinanti; e attese e rinascite che, nell’incanto improvviso, ciclico ed effimero delle fioriture stagionali, svelano allo spettatore l’idea, l’intuizione, il gesto poetico”: così Eva Perini riassume l’idea da cui è nato il giardino contemporaneo. Per lei, l’arte è “costruzione di senso ed espressione di pensiero”, e ha voluto che gli artisti convocati a Montellori cercassero di dar corpo a quest’idea utilizzando i fiori come mezzo espressivo.
Ecco allora che il giardino contemporaneo della Fattoria di Montellori è un retreat, ma allo stesso tempo è anche un attack. In questo caso un attacco nel vero senso della parola, più che una trappola, dal momento che un’intera collezione fatta di fiori sfida la comune percezione dell’opera d’arte. In Toscana non c’è altro di simile: a Montellori le stesse opere, ogni anno, sono diverse, poiché è la natura che decide come devono essere, è la natura che decide se devono fiorire contemporaneamente, è la natura che decide il calendario delle inaugurazioni, è la natura che decide se quest’anno le fioriture saranno rigogliose e colorate oppure saranno più stentate o non ci saranno per niente, cambiando completamente l’aspetto del lavoro dell’artista, che deve dunque misurarsi con una situazione per lui nuova, non avendo il pieno controllo del risultato finale.
Quando, negli anni Sessanta, Nils-Udo creava le sue prime opere con le piante e coi materiali naturali, levandosi al pari di Finlay al ruolo di precursore dell’arte ambientale, questo dialogo con la natura nasceva come frutto d’una nuova consapevolezza, diceva l’artista tedesco: “sono parte della natura, sono incorporato in lei e vivo in lei, quindi mi sembrava che agire in conformità con le leggi della natura fosse qualcosa di evidente e necessario per la sopravvivenza. Preservare il carattere originario della natura, il suo stato integro, perché è come preservare l’aria che respiravo, base della mia esistenza. L’idea di piantare il mio lavoro letteralmente nella natura – di renderlo parte della natura, di sottometterlo alla natura – ai suoi cicli e ritmi, mi ha riempito da un lato di una profonda pace interiore e dall’altro di nuove possibilità e opportunità apparentemente inesauribili”. Anche le opere del giardino di Montellori partono dagli stessi assunti, pur essendo state realizzate per lo più da artisti non abituati a lavorare con gli elementi della natura.
Per alcuni, è stata un’esperienza completamente nuova. Me lo confessa Daniela De Lorenzo davanti alla sua opera, Respiro, un labirinto cretese costruito con novecento bulbi di narcisi bianchi. Vista dall’alto, la sua forma ricorda quella d’un cervello umano. Un labirinto nel senso stretto: se il dedalo mette chi vi entra di fronte a diverse possibilità per raggiungere il centro, il labirinto propriamente detto ha invece un percorso a senso unico, un’unica strada obbligata. Un labirinto che non vuole indurre in smarrimento i suoi visitatori, malgrado possa essere frustrante, percorrendolo, credere d’essere quasi arrivati e trovarsi invece di fronte a un’altra circonvoluzione, che sembra portarci fuori, lontani dal centro. È una metafora degli ostacoli che s’incontrano quando si è alla ricerca di se stessi. Ritrovarsi, dunque.
Vicino al Respiro di Daniela De Lorenzo si trova l’altra opera presente nel giardino contemporaneo di Montellori fin dalla sua nascita, lo Splendore in giallo di Remo Salvadori, traduzione floreale, con mille e duecento narcisi giallo oro, scelti per il loro portamento elegante e per la loro capacità di mantenerlo, di una delle opere più note dell’artista toscano, Nel momento: forme geometriche che richiamano alla mente il Rinascimento e l’arte di Piero della Francesca, forme che cercano d’introdurre la dimensione del tempo nell’opera d’arte, cielo e terra che s’incontrano, l’originale opera in metallo che si taglia e si piega come se fiorisse, per ammissione stessa dell’artista. L’opera è dunque fiorita davvero, e il tempo è arrivato con forza dirompente, dacché lo Splendore di Salvadori, come tutte le opere di Montellori, è un lavoro transitorio, in divenire, mai uguale a se stesso.
In quella poesia dell’effimero che è il giardino di Montellori può capitare di arrivare in certi periodi dell’anno e non vedere le opere. Sono i ritmi della natura che lo impongono. In primavera, dunque, non è possibile ammirare il Convivio di Luca Vitone, aiuola inaugurata nel 2010 e composta da quasi seicento bulbi di crocus sativus delle iridacee, la pianta dello zafferano, prezioso e delicato fiore violetto che sboccia all’inizio dell’autunno. Un’aiuola di forma circolare, coperta d’un fiore che a lungo ha dato sostentamento a molti contadini della Toscana, dal momento che lo zafferano viene ancora abitualmente coltivato non lontano da Fucecchio, nelle campagne di San Gimignano, dove la produzione di quest’essenza è attestata storicamente fin dal Duecento, mentre più a nord lo si raccoglie lungo i declivi che incoronano la cittadina di Barga nella valle del Serchio, alle porte della Garfagnana. L’opera di Vitone, la cui idea primigenia è da rintracciare in una mostra che lo stesso artista genovese aveva presentato per la prima volta nel 2000 proprio a San Gimignano, vuole dunque essere un invito a serbare la memoria della cultura contadina di queste terre.
Una lunga striscia rossa, sessanta metri di seicento tulipani, dal 2011 accompagna chi s’inoltra lungo il vialetto dei pini del giardino di Montellori: col suo Solco rosso, Marco Bagnoli ha tradotto coi fiori un elemento ricorrente nella sua pratica, la linea rossa che allude all’infinito, all’eterno, ma anche alla dimensione emozionale che l’esperienza dell’arte è in grado di dischiudere. Come tutte le opere nate a Montellori, anche il Solco rosso di Bagnoli nasce da una condivisione con Eva Perini e Alessandro Nieri, che sono abituati ad avere relazioni strette con gli artisti che coinvolgono nei loro progetti, li frequentano e li conoscono, amano la loro compagnia, e finiscono per instaurare rapporti duraturi. Molti degli artisti che hanno creato le opere del giardino si ritrovano, anni dopo, alle inaugurazioni delle fioriture. Anche il disagio è dunque perfettamente voluto, cercato, accolto: una striscia di tulipani lungo un viale può sembrare un intralcio, un elemento che introduce disordine, che rende faticoso il percorso, e se poi la striscia è rossa sembrerà quasi una ferita. Ma è dalla ferita che s’aprono nuove dimensioni.
È un po’ quello che accade con l’opera di Stefano Arienti che si trova dall’altra parte del giardino: una grande mano rossa esce dai cespugli che separano il giardino dall’aia e pare voler invitare il visitatore del giardino a seguirla, per farsi guidare con lei nella dimensione della natura, per vivere con lei, respirare con lei, essere parte di lei, essere parte del soffio universale che la governa. Inizialmente, la mano nasceva dalla fioritura di ottocento ciclamini rossi, che le davano una forma morbida, seducente, quasi sensuale. Poi, è stato deciso di cambiare fiore: tulipani al posto dei ciclamini, e quella mano fatata che sembra diventare un artiglio, la mano grifagna d’una strega dei boschi che, invece di chiamare con dolcezza il visitatore pare voglia ghermirlo, trascinarlo. Per ricordarci a forza, dato che con le buone spesso non lo capiamo, la buona creanza che dobbiamo all’ambiente.
L’ultima arrivata, nel 2012, è Amare me di Salvo, opera di dalie rosa che fioriscono in estate, con la quale l’artista riproponeva la scritta di una delle sue lapidi degli anni Settanta, atomi d’una mitografia personale che Salvo aveva cominciato a costruire in quegli anni, “insegne auto-pubblicitarie”, come le avrebbe definite Giorgio Di Genova, con cui l’artista siciliano aveva cominciato a invadere il milieu dell’arte contemporanea. Il marmo diventa erba, l’incisione diventa fiore, l’opera assume un significato nuovo. Chi è che dice “Amare me”? Forse sono le stesse piante a parlare a chi visita il giardino?
Viene alla mente un’immagine dannunziana, dal Poema paradisiaco: quella degli allori che parlano, gli allori che circondano il giardino che sale fiorendo “come un sogno dal cuor sale / rigato da la pura melodia / in una luce insolita spirtale / che non era del cielo ma sul mondo / effusa da la pagina immortale”. Qui a Montellori la natura parla, si muove, soffia, respira, s’anima nell’incontro con l’arte, nel dialogo fecondo col risultato della mente umana che immagina, crea, produce, intesse forme, fa nascere, dice Eva Perini, “opere volutamente non trasportabili, non alienabili e non consistenti, quasi stesure di colore su tele invisibili, profonde e leggere come delicate note musicali, che per statuto e modalità di rappresentazione esprimono perfettamente le ricerche e i motivi di una contemporaneità che riflette su convenzioni formali e strutturali per scardinarle e reinventarle”. Ordine e disordine che s’incontrano in un giardino fiorito nella campagna toscana, là dove sono nate le più ardite sperimentazioni d’arte ambientale, là dove tutto è cominciato con l’esperienza di Volterra 73, là dove Giuliano Gori ha indicato la strada d’un arte in completa fusione con la natura, là dove sono fioriti parchi e giardini d’artista con una concentrazione e una densità che forse non esistono in nessun’altra parte del mondo. Calma e agitazione. La pacatezza borghese d’un giardino ottocentesco, l’originalità ribelle d’un’arte che può essere vista solo quando la natura stabilisce che dev’essere vista. Rifugio e trappola. Retreat e attack.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).