Esistono precise ragioni per cui ci sono soltanto tre opere di Vincent van Gogh nelle collezioni pubbliche italiane: il Giardiniere e l’Arlesiana della Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea di Roma, e le Donne Bretoni della Galleria d’Arte Moderna di Milano. Una di queste ragioni è lo scarso interesse che la produzione di Van Gogh suscitò presso la critica italiana, per la quale, nel 1910, l’artista olandese era ancora uno sconosciuto o poco più. Tra i pochi critici italiani che ne avevano apprezzato l’opera figurava il pugliese Ricciotto Canudo, poeta e critico cinematografico, corrispondente da Parigi della rivista senese Vita d’Arte: nel 1908, in un suo articolo, aveva definito Van Gogh “il più grande colorista moderno”, includendolo nella “triade dei grandi Primitivi nuovi, con Cézanne e Gauguin”, che “non copiano l’uomo ma affermano in ogni loro legno inciso, in ogni segno dipinto, l’idea-uomo, con ingenuo e commovente orgoglio”.
Occorse l’intelligenza d’un pittore macchiaiolo, Gustavo Sforni, che fu anche grande collezionista, affinché l’Italia, in quel 1910 cui s’è poc’anzi fatto riferimento, potesse per la prima volta vedere dal vivo un’opera di Van Gogh. Nel febbraio di quell’anno, Sforni, lungimirante e facoltoso ventiduenne, era riuscito a partire per Parigi, accompagnato da Ardengo Soffici che già era stato anni addietro nella capitale francese e conosceva bene il suo mercato: scopo del viaggio era compiere un giro tra le gallerie alla ricerca delle novità più interessanti, giro che avrebbe condotto i due nella bottega di Paul Rosenberg, dove Sforni poté trovare e acquistare il contadino di Vincent van Gogh. Il giudizio di Soffici non sarebbe stato però positivo, né del resto poteva essere altrimenti: il suo ridimensionamento dell’olandese s’inserisce nel quadro d’un orientamento critico teso a identificare in Cézanne un caposcuola cui lo stesso Soffici riconduceva anche la pittura di Van Gogh, che a suo avviso era, con Gauguin, niente più che un ammiratore e un discepolo di Cézanne: “invece di avanzare nella nuova via che questi aveva tracciato”, Van Gogh e Gauguin, secondo Soffici, “dovevano esagerare i difetti della sua opera – come sempre avviene in casi imili – e tradire l’ideale che gli era caro”.
Vincent van Gogh, Giardiniere (settembre 1889; olio su tela, 61 x 50 cm; Roma, Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea) |
Il fiorentino aveva in mente proprio il Giardiniere (titolo, invero piuttosto infelice, che sarebbe stato assegnato all’opera successivamente: all’epoca era nota come Testa di contadino): Sforni aveva esposto la tela alla Prima mostra italiana dell’impressionismo, organizzata dallo stesso Soffici al Lyceum Club di Firenze tra l’aprile e il maggio del 1910. E pur riconoscendo a Van Gogh talento “e magari una scintilla di genio”, Soffici scrisse che gli “fallì la ragione, quando forse la maturità degli anni l’avrebbe portato a una comprensione più semplice della natura”. E ancora, scriveva Soffici, “pure non mancano pregi alla Testa di contadino di Vincent van Gogh. Ma è difficile, quando si è compreso e si ama l’arte genuina, sana e franca di un Renoir, di un Degas, di un Cézanne, non restare insoddisfatti davanti a opere come questa, la quale ritrae su per giù i meriti e le manchevolezze di tutte quelle del pittore olandese, e svela, anziché una tempra d’artista sincero, una volontà bistorta, alle prese con la materia ribelle ed invitta”.
Il primitivismo di Van Gogh, e l’autenticità, all’epoca vista quasi come selvaggia, di quello “stranissimo artista morto di scontentezza”, come l’aveva definito Canudo, erano però i tratti della sua personalità che più avevano affascinato Sforni, che nel 1913 si sarebbe peraltro recato in Provenza per vedere i luoghi di Van Gogh. Il Giardiniere è uno dei ritratti che l’artista eseguì durante il periodo di cura all’ospedale psichiatrico di Saint-Rémy-de-Provence e gli elementi formali che lo contraddistinguono sono quelli tipici del momento più tormentato della sua esistenza: la pennellata è pastosa, materica e frammentata, in certi momenti caratterizzata da una grande spontaneità, come avviene nelle righe della camicia, altre volte più minuziosa, con linee corte che lungo gli accostamenti dei colori complementari cambiano di continuo direzione, in verticale, in orizzontale, in obliquo, a seguire le curve degli elementi del paesaggio. Al centro è un giovane ritratto a mezzo busto, con un inusuale naturalismo: di recente è stato identificato come un certo Jean Barral, un contadino che lavorava a giornata a Saint-Rémy. Sullo sfondo, un orto rende il dipinto quasi un unicum nella produzione vangoghiana, dato che pochi sono i ritratti ambientati, e ancor meno sono i ritratti dove l’identificazione tra soggetto e ambiente è altrettanto profonda.
Per Van Gogh si trattò d’un ritorno a un tema che gli fu sempre caro: la malinconia che gli era causata dalla malattia gli aveva richiamato il periodo trascorso nel Brabante, ispirandogli pure il proposito di rifare alcuni suoi dipinti di quell’epoca, come I mangiatori di patate, benché l’artista non sia poi riuscito nel suo intento. Sjraar van Heugten, tra i suoi massimi studiosi, ha scritto che Van Gogh, pittore nato in campagna e al quale la vita rurale era del tutto familiare, riuscì a realizzare la sua ambizione di diventar pittore della vita contadina: una vita contadina che nella sua produzione s’esprime non soltanto attraverso i sofferti dipinti di Nuenen, ma ch’emerge anche dalle sue nature morte, dai suoi paesaggi, e in questo caso anche dal ritratto del Giardiniere che giardiniere non è.
Nelle avverse circostanze del suo ricovero a Saint-Rémy, Vincent van Gogh aveva trovato l’occasione di celebrare la perfetta unione tra l’uomo e la natura. Il 6 settembre del 1889, Vincent scriveva a suo fratello Theo una lettera in cui, oltre a rendergli trasparente la sua gran voglia di dedicarsi al genere del ritratto (e il contadino risale proprio al mese di settembre), gli parlava d’un suo dipinto che ritraeva la figura di un mietitore: “ci ho visto l’immagine della morte, nel senso che l’umanità sarebbe il grano che viene falciato […]. Ma in questa morte non c’è niente di triste, avviene nel pieno della luce del giorno, con un sole che inonda tutto con una luce d’oro fino”. È tenendo presente queste considerazioni che occorre legger la presenza del paesaggio alle spalle del contadino, che comincia a tingersi dei colori dell’autunno. Al giovane vigoroso che si fa incontro al riguardante corrisponde, dietro, l’orto che perderà presto il suo rigoglio: il “ciclo della vita” ch’è centrale e onnipresente nelle opere contadine di Van Gogh, l’alternarsi delle stagioni in un continuo processo di morte e rinascita, investe qui sia il campo verdeggiante sia il giovane paesano, e in pochi altri dipinti di Van Gogh vige una così sincera armonia, una così piena continuità, tra natura ed essere umano, ch’esplode in una sorta di ‘ansia serena’ attraverso i rovelli del suo segno ritorto e nervoso, capace di trovare posa e distensione solo nel volto del contadino. Anche nel periodo di Saint-Rémy son poche altre le opere che con tanta icastica immediatezza esprimono tutto quel dissidio interiore che ricaviamo dalle lettere dell’artista, e forse ancor più da certi suoi quadri: non è un caso che Giuliano Briganti considerasse il Giardiniere come il capolavoro di Saint-Rémy. Magari non senza una punta di campanilismo, dato che questo è il maggior capolavoro ‘italiano’ dell’artista: l’Arlesiana è la variante d’un soggetto più volte affrontato e replicato, le Donne bretoni sono una copia da Gauguin. Il Giardiniere è, al contrario, un dipinto unico e preziosissimo, che l’Italia ha pure rischiato di perder più volte: prima durante l’alluvione di Firenze del ‘66, dalla quale si salvò grazie alla prontezza di Sandra Verusio, moglie del proprietario d’allora, l’avvocato Giovanni Verusio, zio di Sforni, poi ancora negli anni Ottanta quando l’opera fu messa sul mercato e rischiò di finire all’estero perché lo Stato, che aveva notificato il dipinto nel 1954, fino al 1988 non mosse un dito per assicurarlo alle raccolte pubbliche, e infine nel maggio del 1998, tre anni dopo il suo ingresso alla Galleria Nazionale, quando fu rubato in uno dei furti d’arte più roboanti della storia, e poi recuperato poco più d’un mese dopo.
E oggi che finalmente l’opera sembra aver trovato posa, potrebbe non esser una cattiva idea ripensare al nome con cui la si presenta al pubblico. Émile Bernard, in una sua lettera, s’era riferito alla tela chiamandola Paysan provençal. Potrebbe essere un’idea.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).