Le origini delle lingue romanze passano dalla Sardegna: e qui, sull’isola, alla Biblioteca Universitaria di Sassari, è conservato uno dei più antichi “‘monumenti’ delle lingue romanze” (così lo ha definito lo studioso Giovanni Strinna), ovvero il Condaghe di San Pietro di Silki, un prezioso codice manoscritto (anzi: “il più prezioso pezzo della Biblioteca Universitaria di Sassari”, secondo lo studioso Francesco Artizzu), composto da 125 carte di pergamena (in origine erano però 143), contenente quattro distinti registri del monastero da cui prende il nome, che in antico era sede di una comunità benedettina femminile. Il termine sardo “condaghe” deriva dal greco Kontaktion, latinizzato in Condacium, e utilizzato per indicare il bastone attorno a cui si avvolgeva il volumen: si ha attestazione dell’introduzione di questo termine in Sardegna all’epoca della dominazione bizantina (534-698 d.C.), e lo si adoperava per riferirsi a un regesto di carattere amministrativo, ovvero un insieme di diversi atti (come compravendite, donazioni, lasciti, permute, decisioni di liti), che riguardavano in particolare i monasteri. Per il linguista tedesco Max Leopold Wagner (Monaco di Baviera, 1880 - Washington, 1962), i Condaghes sono “una collezione di atti di dono, compre, lasciti di provenienza, che formano la consistenza patrimoniale dei monasteri”.
Tutti i Condaghes che ci sono giunti appartengono a enti monastici che si trovavano nelle aree del giudicato di Torres e del giudicato di Arborea (due stati sovrani i cui territori si estendevano sulla Sardegna nord-occidentale: il primo durò dal IX secolo alla metà del XIII secolo, quando finì sotto il controllo di Genova, mentre il secondo dall’anno Mille circa fino al 1420, anno in cui il regno fu venduto agli aragonesi e la Sardegna per la prima volta diventava unita, sebbene sotto una dominazione straniera). Sono tutti redatti in sardo logudorese: fa eccezione soltanto quello di San Michele di Salvennor, che ci è pervenuto in una traduzione in castigliano della fine del XVI secolo. Il Condaghe di San Pietro di Silki è il più importante sia per quanto riguarda la quantità di atti che contiene, sia per l’arco temporale che copre, dal momento che i suoi documenti vanno dalla metà del XII secolo fino alla metà del XIII, anche se gli originali di alcuni atti trascritti risalgono alla fine dell’XI secolo (è tuttavia presente un foglio di guardia, quello situato tra la coperta e il testo per proteggere quest’ultimo, che contiene una nota in castigliano e che risale al XVIII secolo: è una nota decisamente importante perché rappresenta il primo tentativo noto di descrizione bibliografica del codice). Non tutti gli atti però si riferiscono al monastero di San Pietro di Silki: alcuni documenti riguardano le case di San Quirico di Sauren, di Santa Maria di Codrongianos e di Santa Giulia di Kitarone. Per questo di parla più propriamente di un codice “composito”, ovvero di una raccolta di Condaghes riferiti a più luoghi, anche se si tratta di registri uniformi, allestiti con tutta probabilità in un unico scriptorium.
Il Condaghe di San Pietro di Silki è poi particolare perché cela una storia in parte al femminile. Occorre intanto premettere che la registrazione degli atti avveniva su singole pergamene che poi, con il permesso del giudice di Torres, venivano ricopiate su appositi quaternioni (fascicoli di quattro fogli). Ed è grazie al lavoro di razionalizzazione promosso dalla badessa Massimilla, vissuta durante il XII secolo, che ci è giunta gran parte della documentazione di San Pietro in Silki. Massimilla, ottenuta l’autorizzazione per realizzare un nuovo Condaghe (così leggiamo nel foglio 88r), fece infatti trascrivere gli atti fino ad allora conservati nel Condaghe di San Pietro di Silki (che dunque doveva versare in un pessimo stato di conservazione) a una sua monaca, nota col nome di Bullia Fava (o Bulliafave): “si tratterebbe”, spiega Strinna, “di una delle rare attestazioni di scritture femminili dell’area non solo sarda”. Il Condaghe si apre proprio con la dichiarazione di Massimilla che intende far rinnovare il codice: “Ego Maximilla, abatissa de scu. Petru de Silki ki lu renouo custu condake, ad unore deus innanti, e de scu. Petru e de sca. Julia, e ccun boluntate dessu donnu meu iudike Gunnari, e dessu fiiu iudike Barusone, e dessos frates, e dessos maiorales de Locudore, dandem’isse paragula de renobarelu su condake”.
E proprio dalle carte del Condaghe è stato possibile ricavare i nomi delle badesse che ressero le sedi del monastero dal XI al XIII secolo: Teodora I, Massimilla, Jena, Speciosa, Maria, Benvenuta, Teodora II, Preziosa, Agnese, Susanna. “Si tratta”, ha spiegato Francesco Artizzu, “di donne di forte impegno e carattere, che riconoscevano come la loro carica derivasse per issa gratia de Deum, indirizzate non solamente a testimoniare Cristo con sas sorres manacas ma anche a difendere i diritti del monastero e a difendere e incrementare il patrimonio dei beni terreni al monastero affidati”.
Le schede non riproducevano gli originali nella loro interezza, ma conservavano comunque l’autenticità dell’atto registrato. Difficile trovare la data: spesso però gli atti sono marcati con il giorno della festività religiosa o della ricorrenza civile in cui erano avvenuti. La struttura era quasi sempre la stessa: dopo una intitulatio, ovvero un breve protocollo iniziale, che qualche volta poteva essere preceduto da una invocatio a Cristo, venivano elencati gli elementi essenziali dell’azione giuridica, e cioè i nomi delle parti, il tipo di documento, l’oggetto che lo riguardava, le caratteristiche dell’oggetto stesso (per esempio l’estensione, l’ubicazione e i confini di un terreno, il prezzo, e così via), e infine l’atto si chiudeva con l’elenco dei testimoni intervenuti. La maggior parte delle registrazioni che compongono il Condaghe di San Pietro di Silki è costituita da donazioni in favore dell’ente (150 documenti), ma numerose sono anche le liti giudiziarie (97 documenti), riguardanti soprattutto proprietà, mentre subito dopo si collocano gli atti d’acquisto (87 documenti). Seguono le permute (40 documenti), le spartizioni di servi (35), le confinazioni di terreni (11), le autorizzazioni alla trascrizione di atti (4). Il Condaghe è completato poi da un annullamento di una permuta, un’assegnazione di garanzia, una concessione in proprietà, una genealogia di servi, una manomissione di servi e una restituzione di beni dati in pegno. Si tratta di documenti di grande rilevanza per comprendere la struttura e il funzionamento della società all’epoca del giudicato di Torres: in particolare, risulta di notevole importanza il ruolo dei monasteri, che costituivano comunità dotate di una loro precisa identità giuridica, ma anche importanti centri economici (erano organizzati come aziende) e politici, oltre che religiosi.
I quattro registri di cui il Condaghe è composto furono redatti da diverse mani (ne sono state riconosciute circa trenta: i testi furono infatti rinnovati in diversi tempi), di amanuensi che si erano formati osservando la calligrafia toscana: la grafia è infatti una tarda carolina toscana di buona qualità. Non si è conservata la coperta originaria: quella che attualmente riveste il Condaghe è stata adottata nel 1969 in sostituzione di una coperta di epoca moderna.
Il Condaghe di San Pietro di Silki rimase fino al XIX secolo nella biblioteca del convento, anche se non si trattava più dello stesso monastero che aveva visto nascere i registri: nel 1467, infatti, l’arcivescovo di Sassari lo concesse ai frati minori osservanti, che decisero di erigere un nuovo edificio sul sito di quello più antico (le monache benedettine lo avevano già abbandonato agli inizi del XIII secolo). Nell’Ottocento, il Condaghe era un oggetto già noto agli eruditi e agli storici locali, ed è pertanto curioso sapere che nel 1867, all’epoca delle demaniazioni che seguirono le soppressioni degli ordini monastici stabilite dopo l’Unità d’Italia e che riguardarono anche il patrimonio librario di San Pietro di Silki che fu dunque incamerato dal demanio, il manoscritto risultava disperso. I frati, probabilmente tenendo per le sorti del manoscritto, lo fecero infatti uscire dal monastero per metterlo al sicuro. Anche se non è da escludersi che il Condaghe fosse uscito dalla biblioteca monastica per iniziativa di qualcuno che voleva venderlo in privato.
Riemerse soltanto nel 1897, quando il direttore della Biblioteca della Regia Università (come allora si chiamava l’odierna Biblioteca Universitaria di Sassari), Giuliano Bonazzi, scovò il manoscritto da un giovane orologiaio, e lo acquistò al prezzo di 140 lire, corrispondenti a circa 625 euro del 2022. Secondo Bonazzi, dopo la morte del religioso che custodiva il manoscritto, il Condaghe andò a finire in una casa di campagna, nascosto in una cassa, che in qualche modo (non sappiamo come) arrivò all’orologiaio: questi pensò di venderlo a un tabaccaio che ne avrebbe fatto carta per incartare sigari. Il commerciante però rimase affascinato dalla per lui strana grafia che ricopriva i fogli, e dunque, consigliato probabilmente da qualcuno che ne aveva intuito l’antichità, si recò da Bonazzi per farlo esaminare: ecco dunque come ci è arrivato il Condaghe. Lo stesso Bonazzi curò la prima edizione del testo, pubblicata nel 1900 e ristampata nel 1979 e nel 1997. È stato necessario attendere fino al 2013 per vedere la nuova edizione del manoscritto, a cura di Alessandro Soddu e Giovanni Strinna, rivista e accompagnata da un apparato critico, con glossario e indice dei nomi e dei luoghi. Oggi il Condaghe, completamente restaurato, si trova conservato tra i libri rari e di pregio del Fondo Antico della Biblioteca Universitaria di Sassari.
La Biblioteca Universitaria di Sassari ha una storia plurisecolare: nacque infatti nel 1558, con il lascito che il giurista Alessio Fontana, funzionario della cancelleria imperiale di Carlo V, destinò alla fondazione di un Collegio gesuitico. La collezione libraria di Fontana fu poi acquisita nel 1632 dall’Università di Sassari: da allora le sorti del nucleo fondante della biblioteca si legarono a quelle dell’ateneo sardo. Il patrimonio librario della biblioteca continuò a incrementare nei secoli successivi, specialmente a seguito delle disposizioni legislative del 1855 e del 1866 che sopprimevano le corporazioni religiose. L’evento consentì alla biblioteca di entrare in possesso di numerosi patrimoni librari dei monasteri sassaresi. Particolarmente importante fu la direzione di Giuliano Bonazzi, tra il 1896 e il 1899: l’incremento delle collezioni conobbe un notevole impulso (fu lui ad acquistare il Condaghe di San Pietro di Silki, il più importante manoscritto dell’istituto), e la biblioteca stessa fu dotata di nuove strutture, come le sale di lettura e i cataloghi per autori e per titoli.
Attualmente, l’istituto possiede circa 300.000 volumi, tra cui 74 incunaboli, 3.500 cinquecentine, circa 4.600 opere del XVII secolo e 3.300 del XVIII secolo. Tra i pezzi più importanti della Biblioteca Universitaria di Sassari figurano, oltre al Condaghe di San Pietro di Silki, una carta nautica su pergamena del Cinquecento (illustra il bacino Mediterraneo ed è ornata con mostri marini e simboli delle città), gli Statuti di Castel Genovese, una Bibbia membranacea, i manoscritti di Domenico Alberto Azuni, di Grazia Deledda e di Salvatore Farina, un centinaio di carte geografiche della Sardegna stampate dal XV al XIX secolo (circa la metà di queste ultime sono state acquisite negli anni Settanta sotto la direzione di Maria Carla Sotgiu Cavagnis). Da menzionare poi le stampe di importanti pittori sardi come Giuseppe Biasi, Mario Delitala e Stanis Dessy.
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