Nel piccolo e sorprendente Museo Diocesano della Spezia, in quella ch’era un tempo la navata dell’antico oratorio di San Bernardino e oggi è la sala centrale della raccolta, una grande teca di vetro accoglie due frammenti di tela: sono smunti, sbiaditi e a pezzi, ma le offese del tempo non hanno scalfito la forza che queste due immagini riescono a emanare. Sono resti d’un’opera più grande, che son stati restituiti negli anni Cinquanta a un grande pittore lombardo che fu molto attivo in Liguria: Carlo Braccesco. Un artista la cui riscoperta è un fatto relativamente recente: era il 1911 quando il restauro del polittico di Montegrazie, diretto da Alessandro Baudi di Vesme, condusse alla scoperta della firma “Carolus Mediolanensis” consentendo la ricostruzione dell’itinerario d’un autore che fino ad allora era noto solo dalle carte scoperte circa quarant’anni prima da Federico Alizeri. Per Roberto Longhi, che a Braccesco dedicò svariate attenzioni, il pittore milanese era “il re di ori del Quattrocento lombardo”, un artista “dignus intrare nell’empireo già tanto stivato di genio della pittura italiana”, “l’unico pittore lombardo che, anche spatriato, ebbe tanto peso da trasmettere la propria fama fino alla cultura del tardo Cinquecento milanese”.
Il primo santo del frammento di sinistra è sant’Erasmo, identificato dai paramenti vescovili e dal cero che tiene in mano, allusione al suo ruolo di patrono dei naviganti: in antico si riteneva che il fuoco di sant’Elmo (altro nome di sant’Erasmo), quel particolare fenomeno elettrico che avviene sugli alberi delle navi poco prima dei temporali, fosse segno della sua presenza. Vicino a lui compare san Girolamo, con la tipica veste da cardinale. Il frammento di destra vede invece la presenza d’un santo vescovo di difficile identificazione (in passato s’è proposto di leggervi la figura di san Gottardo) e di san Pantaleo, riconoscibile per via della cassetta da medico che tiene in mano e che allude alla sua professione. Nella parte alta incombono invece due angeli, e alle spalle dei personaggi s’osserva un paesaggio urbano, molto rovinato, ancor più delle figure.
Eppure, nonostante lo stato precario, queste tele così sciupate ancora riescono a sprigionare un’energia che coglie chiunque le veda al Museo, e che non lascia dubitare del loro status di opere tra le più interessanti del Rinascimento ligure. I santi di Carlo Braccesco sono fortemente caratterizzati, con una sottigliezza da finissimo fisionomista: il riguardante indugia a lungo sulle rughe profonde di sant’Erasmo, sull’espressione grave e assorta di san Girolamo, sul volto vissuto e segnato del santo vescovo, sul profilo affilato di san Pantaleo. Fisionomie così individuate erano tratto tipico della pittura lombarda del Rinascimento. Minuziosa è poi la cura con cui Carlo Braccesco restituisce le barbe e le acconciature dei santi (s’ammirino i riccioli dei peli della barba del santo vescovo, e quelli che, lungo la mandibola, son sfuggiti a una rasatura precisa) e i loro paramenti: la fine giubba di broccato di san Pantaleo è uno dei brani più alti dell’opera. Gustavo Frizzoni, a cui si deve la prima attestazione nota dei due frammenti (e che di poco precede i disegni di Alfredo d’Andrade, conservati a Torino, dove son riprodotti alcuni dettagli), pur ritenendoli a torto opere “di mediocre carattere”, li descriveva come “di un gusto tra l’italiano e il fiammingo”. Tutto avviene sullo sfondo d’una città del tempo: difficile riconoscere gli edifici, ma quando s’entra nei due frammenti di Carlo Braccesco par di farsi guidare dai quattro santi per le vie di quel borgo. Pochi altri artisti del tempo riescono a esser così convincenti.
Le due tele sono ancor oggi di proprietà della parrocchiale di Sant’Andrea di Levanto, dalla quale provengono e dove son rimaste fino al 1993: depositate prima alla Galleria Nazionale della Liguria di Palazzo Spinola a Genova, son state poi trasferite nel 2005 al Museo Diocesano della Spezia, e da allora non si son più mosse di lì. Si può ritenere che il giudizio sommario di Frizzoni abbia contribuito ad allontanare le attenzioni della critica dalle due tele di Levanto: come detto, occorse attendere fino agli anni Cinquanta perché qualcuno si rendesse conto dell’eccezionale qualità dei due frammenti. Il merito si deve ad Antonio Morassi, che identificò le due tele nel 1951 come opere di Carlo Braccesco, e nello stesso anno Gian Vittorio Castelnovi, letteralmente “folgorato dalla magnificenza dei frammenti” (così Gianluca Zanelli), ricollegò le tele a un documento del 1495 che attestava il pagamento, da parte della comunità di Levanto, di una “maestà” eseguita dal pittore lombardo. La “maestà” di cui parlano le carte è il polittico, oggi smembrato, che recava al centro un grande sant’Andrea, santo dedicatario della chiesa, un tempo nella collezione londinese di lord Abercomway, e che oggi risulta irrintracciabile, mentre ai lati faceva mostra dei santi Pietro e Paolo che sono stati recentemente acquisiti dalla Galleria Nazionale di Palazzo Spinola: erano sconosciuti a Longhi e furono resi noti da Federico Zeri nel 1955, quando ancora si trovavano in collezione privata. Alla macchina di Levanto sono state ricondotte anche alcune tavolette che dovevano far parte della predella e sono oggi sparpagliate presso musei e collezioni private in giro per l’Europa.
Quale ruolo potevano avere le tele di Levanto nel complesso destinato alla chiesa di Sant’Andrea? Partendo dal loro stato, è possibile immaginare che al centro, tra i quattro santi, spiccasse la figura d’una Madonna: vicino al santo vescovo di sinistra si notano i resti di quello che sembrerebbe essere un trono, sul quale si può immaginare assisa la Vergine. Sulla base di questo presupposto, per la funzione di queste tele è stata avanzata negli anni Ottanta, da Piero Donati, un’interessante ipotesi: lo studioso ligure, rilevando a sua volta come i santi sembrassero “fratelli di alcuni dei personaggi agenti nelle scene della predella” e come i vescovi sporgano in avanti la testa allungando il collo “con un moto leggermente deformante, esattamente come fanno molti personaggi, maschili e femminili, della predella”, proponeva intanto di cogliere “la mano di un grande pittore che sa variare i registri espressivi, giocando alternativamente sul versante dell’astrazione e della concretezza o, se vogliamo, della ieraticità e della tipizzazione”. E poi notava come, tenendo conto delle evidenti decurtazioni subite dalle tele di Levanto, le loro misure coincidessero con quelle degli scomparti del trittico: “appare allora pienamente legittima”, scriveva Donati, “l’ipotesi che il trittico fosse dotato di una cortina protettiva, destinata sì a preservare le preziose tavole ma funzionale anche al mantenimento di un equilibrio iconografico, poiché l’introduzione di un’effigie mariana in un contesto tutto maschile serviva a riportare l’insieme nel solco della consuetudine devozionale”. Le tele, dunque, anticamente erano unite ed erano nient’altro che un paramento destinato a coprire il trittico: una funzione compatibile, del resto, anche con la materia sottile sulla quale i santi son dipinti.
I santi acquisiti da Palazzo Spinola nel 2017 sono stati presentati con dovizia alla mostra sul Rinascimento in Liguria che s’è tenuta tra il 2019 e il 2020. Non sono ancora stati esposti vicino alle tele del Diocesano della Spezia, né il polittico di Carlo Braccesco è mai stato ricomposto. E un’esposizione che metta assieme tutte le parti sarebbe eventualmente una straordinaria occasione per meglio conoscere, e per far conoscere, una delle personalità più elevate del Rinascimento ligure, oltre che per seguitare la necessaria opera di divulgazione che le vicende del Quattrocento in regione da alcuni anni conoscono. Un’idea per una mostra futura?
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).