I Quattro Mori di Pietro Tacca a Livorno. La bellezza resa schiava


I Quattro Mori di Livorno, capolavoro di Pietro Tacca, sono quattro grandi statue in bronzo che raffigurano schiavi incatenati: furono aggiunti al monumento a Ferdinando I de’ Medici per celebrare la potenza del Granducato di Toscana e dei Cavalieri di Santo Stefano.

Come e ancor più degli altri sovrani assoluti di Antico Regime, i Medici vollero disseminare il loro territorio di immagini che li rappresentassero, nelle vesti di dominatori incontrastati di una Toscana finalmente unita e pacificata. Semplici busti, ma anche solenni simulacri a figura intera e, in qualche caso, monumenti equestri popolarono le strade e le piazze di Firenze, innanzitutto, e degli altri centri della regione. Particolarmente impegnato in quest’opera propagandistica fu il granduca Ferdinando I: nel 1587 il sovrano commissionò a Giambologna il monumento equestre di suo padre Cosimo I, che si eleva in Piazza della Signoria, e alcuni anni più tardi, nel 1602, richiese allo stesso Giambologna il proprio monumento equestre in bronzo, che troneggia al centro di piazza della Santissima Annunziata, sempre a Firenze. Tra queste due date, Ferdinando fece realizzare a Pietro Francavilla (Pierre de Franqueville; Cambrai, 1548 circa – Parigi, 1616), su disegno di Giambologna, la statua marmorea di Cosimo della pisana Piazza dei Cavalieri (1596) e le proprie effigi, anch’esse in marmo, che troviamo ancora a Pisa, in Piazza Carrara (1594), e ad Arezzo, sulla piazza del Duomo (1595).

Il granduca non poteva trascurare Livorno, il moderno centro portuale che costituiva il principale affaccio della Toscana sul Mediterraneo e l’ingresso privilegiato al Granducato dal mare. Così, nel 1595, fu commissionata un’ulteriore, colossale statua in marmo raffigurante il sovrano, questa volta allo scultore fiorentino Giovanni Bandini (Firenze, 1540 circa – 1599), che la ultimò nell’anno della sua morte. La scultura, lavorata a Carrara, giunse a Livorno due anni più tardi, nel 1601, ma non fu innalzata subito: al contrario, la statua attese per ben 16 anni, sdraiata e coperta, il momento della sua erezione. Questa volta non si sarebbe trattato della “solita” statua elevata su un basamento, ma di un monumento più articolato, con quattro figure di prigionieri musulmani posizionate attorno alla base, in corrispondenza dei suoi angoli. L’intento era quello di magnificare il granduca Ferdinando come Gran Maestro dell’Ordine dei Cavalieri di Santo Stefano, la cui croce spicca sulla corazza della statua scolpita da Bandini.

L’Ordine, istituito da Cosimo I nel 1561, aveva lo scopo di contrastare le frequenti incursioni barbaresche nel Tirreno settentrionale; la sua sede era a Pisa, nel Palazzo della Carovana (che attualmente ospita la Scuola Normale Superiore) e le sue navi stazionavano nel porto di Livorno, dove, nei pressi della darsena, si sarebbe eretto il nuovo monumento a Ferdinando. Nelle figure alla base del monumento si sarebbero dovuti eternare (nel bronzo, e non nel marmo della statua del granduca e del basamento) i prigionieri che spesso venivano catturati e ridotti in schiavitù dai Cavalieri nel corso di battaglie navali o di scorribande sulle coste dell’Africa settentrionale (esattamente come uomini e donne cristiani furono presi dai turchi nelle loro incursioni e resi schiavi). I prigionieri bronzei dovevano visualizzare la potenza dell’Ordine e del Granducato: la loro funzione era analoga a quella delle bandiere e degli stendardi sottratti al nemico che ancora oggi sono esposti come trofei di guerra nella chiesa di Santo Stefano dei Cavalieri, a Pisa.

Giambologna, Monumento equestre di Cosimo I (1587; bronzo; Firenze, piazza della Signoria)
Giambologna, Monumento equestre di Cosimo I (1587; bronzo; Firenze, piazza della Signoria). Foto di Guillaume Piolle
Giambologna, Monumento equestre di Ferdinando I (1602; bronzo; Firenze, piazza della Santissima Annunziata)
Giambologna, Monumento equestre di Ferdinando I (1602; bronzo; Firenze, piazza della Santissima Annunziata). Foto di Francesco Bini

Probabilmente già il granduca Ferdinando ebbe l’idea di aggiungere quattro “mori” in catene alla propria effigie. I lavori per le sculture iniziarono tuttavia sotto il suo successore, Cosimo II: intorno al 1615-1616 il sovrano affidava l’incarico della loro realizzazione al principale scultore attivo sulla scena fiorentina, il carrarese Pietro Tacca (Carrara, 1577 – Firenze, 1640); nel frattempo si costruì il basamento e vi fu posta sopra la statua di Bandini, innalzata il 29 maggio 1617. Pietro Tacca rappresenta non solo uno dei maggiori scultori di origine carrarese, se non il più grande in assoluto, ma anche un eclatante paradosso. Originario di una terra che da secoli si identifica con l’escavazione, la lavorazione e il commercio del candido marmo delle Alpi Apuane, Tacca deve la sua fama alla scultura in bronzo (il marmo ha un rilievo assolutamente secondario nella produzione dell’artista). La sua “conversione” dalla pietra al metallo avvenne poco dopo il suo arrivo a Firenze, nel 1592, e l’ingresso nella bottega di Giambologna. Il multiforme scultore fiammingo aveva riabilitato e rinnovato in ambito fiorentino, sia con statue di grandi dimensioni che con richiestissimi bronzetti, la scultura in bronzo, dopo che il magistero di Michelangelo, fautore di una scultura “per via di levare” che puntava a liberare la figura imprigionata all’interno del blocco lapideo, aveva segnato il trionfo della statuaria in marmo. Da Giambologna prende le mosse il percorso artistico di Pietro, che diventa in breve tempo il principale collaboratore dello scultore e poi alla sua morte, nel 1608, ne eredita lo studio in Borgo Pinti. Tacca traghetta ben dentro al Seicento il virtuosismo e la sofisticata eleganza del maestro, accentuandone da un lato la ricercatezza e il gusto per il bizzarro e il mostruoso (come provano in particolare le due fontane gemelle di piazza della Santissima Annunziata a Firenze, 1627-1630, inizialmente destinate a Livorno) e aprendo dall’altro a un maestoso naturalismo, esemplificato in particolare dai Quattro Mori, che si apparenta ai coevi esiti della ricerca scultorea in altri centri, a cominciare da Roma. E ormai barocco, nel suo dinamismo e nella ricerca della meraviglia, si può dire l’estremo frutto dell’attività di Tacca, il monumento equestre del re di Spagna Filippo IV a Madrid (1634-1640), in cui, per la prima volta, il cavallo è raffigurato ritto sulle zampe posteriori.

Nell’approcciare il lavoro per il monumento livornese del granduca Ferdinando, Tacca si confrontava con una lunga tradizione di raffigurazioni di prigionieri in monumenti celebrativi, dall’arte romana agli Schiavi e ai Prigioni di Michelangelo. Ma determinante fu soprattutto un esempio di pochi anni precedente, che Tacca conosceva bene, avendovi collaborato come assistente di Giambologna: il monumento equestre di Enrico IV sul Pont Neuf, a Parigi, la cui base presentava agli angoli quattro prigionieri in bronzo. L’opera era il frutto di un lavoro di équipe: il disegno complessivo del monumento spettava al pittore Ludovico Cardi detto il Cigoli (Cigoli di San Miniato, 1559 – Roma, 1613), mentre cavallo e cavaliere furono eseguiti, come si diceva, dall’accoppiata Giambologna-Tacca; i prigionieri furono realizzati da Pietro Francavilla, coadiuvato dal genero Francesco Bordoni (Firenze, 1580 – Parigi, 1654). Il monumento parigino andò distrutto ai tempi della Rivoluzione Francese; non se ne salvarono che alcuni lacerti del gruppo principale e le quattro figure dei prigionieri (Museo del Louvre). Dunque l’idea alla base del capolavoro di Tacca non era forse nuova (ma non è facile stabilire l’ordine di precedenza tra il monumento parigino e quello livornese, specialmente se accettiamo un avvio della progettazione dell’opera di Livorno, come suggeriscono alcuni documenti, già nel 1607-1608).

Giovanni Bandini (statua di Ferdinando I) e Pietro Tacca (Mori), Monumento dei Quattro Mori (1595-1626; marmo e bronzo; Livorno, piazza Micheli)
Giovanni Bandini (statua di Ferdinando I) e Pietro Tacca (Mori), Monumento dei Quattro Mori (1595-1626; marmo e bronzo; Livorno, piazza Micheli). Foto di Giovanni Dall’Orto
L'africano
L’africano. Foto di Francesco Bini
Alì Salettino
Alì Salettino. Foto di Piergiuliano Chesi
Morgiano
Morgiano
Alì Melioco
Alì Melioco. Foto di Piergiuliano Chesi

In ogni caso, l’artista superò di slancio il modello e le figure angolari di Francavilla: i suoi “schiavi” (come di solito li si indica nelle fonti dell’epoca) sono figure monumentali che, seppure incatenate al basamento, si appropriano dello spazio che le circonda, mediante pose e torsioni attentamente calibrate, in un continuo gioco di rimandi e variazioni, memore, in particolare, di Michelangelo. Tacca abbinò all’attento studio dei modelli e della tradizione l’ispirazione dal dato naturale; per cui studiò dal vivo dei veri prigionieri “turchi”, detenuti e ridotti in schiavitù nelle prigioni granducali di Livorno, note col nome di Bagno. Il primo biografo dell’artista, Filippo Baldinucci, nelle sue Notizie de’ professori del disegno, ci racconta come andarono le cose: “[…] egli applicatosi a tale insigne lavoro ne aveva incominciati grandi studj; ma il maggiore fu il portarsi a Livorno [...] quivi ebbe facoltà di valersi di quanti schiavi vi avesse riconosciuti de’ muscoli più leggiadri, e più accomodati all’imitazione, per formarne un perfettissimo corpo, e molti e molti ne formò nelle più belle parti”. Già queste parole di Baldinucci sono di estremo interesse: intanto per l’apprezzamento che traspare da loro, e da quelle che seguono, per l’aspetto e la prestanza fisica degli schiavi (inusuale all’epoca per persone appartenenti a etnie non europee); ma soprattutto perché ci fornisce preziose informazioni sul metodo di lavoro di Tacca.

Lo scultore è interessato a trarre da varî soggetti le loro parti più belle, per formare “perfettissimi corpi”, in ossequio alla teoria del bello ideale e della selezione dalla natura, esemplificata dall’episodio del pittore greco Zeusi che, come narrano Cicerone e Plinio il Vecchio, scelse le parti migliori di varie fanciulle di Crotone per creare l’immagine della bellissima Elena di Troia. Inoltre, ci dice Baldinucci, Tacca “formò nelle più belle parti” molti schiavi: si allude a una pratica che può sembrarci strana, ma che non era affatto inusuale all’epoca, quella di formare direttamente sui corpi, mediante della cera, dei calchi da cui si sarebbero tratti gli stampi da usare in fase di fusione (o meglio, in questo caso, trattandosi di statue di dimensioni molto maggiori del vero, calchi che si sarebbero poi ingranditi per creare gli stampi). Non meno interessante è quanto aggiunge poi Baldinucci: “Uno di costoro fu uno schiavo moro turco, che chiamavasi per soprannome Morgiano, che per grandezza di persona, e per fattezze d’ogni sua parte era bellissimo, e fu di grande aiuto al Tacca per condurne la bella figura, colla sua naturale effigie, che oggi vediamo. Ed io che tali cose scrivo, in tempo di mia puerizia in età di dieci anni il vidi, e conobbi, e parlai con esso non senza gusto, benché in sì poc’età, nel ravvisar, che io faceva a confronto del ritratto, il bello originale”. Tacca formò dunque diverse parti del bellissimo corpo, nonché il volto, di uno schiavo “moro turco” soprannominato Morgiano, le cui fattezze vanno riconosciute in quelle del prigioniero dell’angolo sudorientale del basamento, il giovane che volge in basso uno sguardo pieno di mestizia e di malinconia e l’unico effettivamente «moro» dei quattro, ovvero un africano di pelle nera (mentre gli altri tre sembrano turchi o magrebini).

Dalla settecentesca Cronaca di Livorno di Mariano Santelli apprendiamo il nome di un altro modello di Tacca: “un robusto vecchio, detto Alì”, su cui fu esemplata la figura con folti mustacchi nell’angolo sudoccidentale. Una lista degli schiavi presenti nel Bagno negli anni in cui Tacca vi si recò, recentemente rinvenuta dallo storico dell’arte americano Steven Ostrow, conferma che queste informazioni corrispondono al vero: tra gli schiavi troviamo “Margian [figlio] di Macamutto, di Tangiur [Tangeri], di anni 25, da vendersi” e diversi Alì, originari della Turchia. Il povero Morgiano era probabilmente schiavo già presso i turchi, e doveva essere stato catturato dagli ottomani in Sudan o dai marocchini nell’Africa occidentale. Le notizie fornite da Baldinucci e Santelli e la relativa conferma documentaria ci pongono quindi di fronte a un fatto di portata epocale: quelli di Morgiano e di Alì sono i primi ritratti scolpiti di schiavi identificabili nella storia dell’arte occidentale. Due prigionieri bronzei furono collocati alla base del monumento nel 1623, altri due tre anni più tardi. Un ulteriore elemento in bronzo, un trofeo di armi e bandiere ottomane posto ai piedi del granduca, fu installato soltanto nel 1638, e andò perduto, perché fuso, nel 1799, al tempo dell’occupazione francese di Livorno. Fortunatamente i mori, in quanto rappresentazioni di popoli oppressi, furono risparmiati; la statua del granduca fu fatta scendere dal suo piedistallo, e vi tornò durante la Restaurazione. Nel 1888 il monumento fu spostato di una ventina di metri dalla sua posizione originaria, rimanendo comunque vicino al porto labronico e a breve distanza dal mare. L’opera conobbe fin dalla sua creazione una notevole fortuna, e venne salutata come il capolavoro di Tacca.

Pietro Francavilla, Prigionieri (1618; bronzo; Parigi, Louvre)
Pietro Francavilla, Prigionieri, dal monumento a Enrico IV (1618; bronzo, rispettivamente 157 x 66 x 74 cm, 155 x 66 x 76 cm, 160 x 64 x 56 cm, 155 x 77 x 65 cm; Parigi, Louvre)
Michelangelo Buonarroti, Schiavo che si ridesta (1525-1530 circa; marmo, altezza 267 cm; Firenze, Galleria dell'Accademia)
Michelangelo Buonarroti, Schiavo che si ridesta (1525-1530 circa; marmo, altezza 267 cm; Firenze, Galleria dell’Accademia)
Michelangelo Buonarroti, Schiavo barbuto (1525-1530 circa; marmo, altezza 263 cm; Firenze, Galleria dell'Accademia)
Michelangelo Buonarroti, Schiavo barbuto (1525-1530 circa; marmo, altezza 263 cm; Firenze, Galleria dell’Accademia)
Ignoto scultore, Telamoni (XVIII secolo; marmo; Carrara, via Carriona). Foto di Alessandro Pasquali - Danae Project
Ignoto scultore, Telamoni (XVIII secolo; marmo; Carrara, via Carriona). Foto di Alessandro Pasquali - Danae Project
Ignoto scultore, Telamone (XVIII secolo; marmo; Carrara, via Carriona). Foto di Alessandro Pasquali - Danae Project
Ignoto scultore, Telamone (XVIII secolo; marmo; Carrara, via Carriona). Foto di Alessandro Pasquali - Danae Project
Ignoto scultore, Telamone (XVIII secolo; marmo; Carrara, via Carriona). Foto di Alessandro Pasquali - Danae Project
Ignoto scultore, Telamone (XVIII secolo; marmo; Carrara, via Carriona). Foto di Alessandro Pasquali - Danae Project
Ignoto scultore, Telamone (XVIII secolo; marmo; Carrara, via Carriona). Foto di Alessandro Pasquali - Danae Project
Ignoto scultore, Telamone (XVIII secolo; marmo; Carrara, via Carriona). Foto di Alessandro Pasquali - Danae Project

Nella sua stessa città natale, la statua che lo raffigura, scolpita da Carlo Fontana e collocata di fronte all’Accademia di Belle Arti nel 1900, riprende la posa dei mori: l’artista, dall’aria bohémienne, è seduto e ha le mani dietro la schiena. Ma a Carrara si registra anche un altro omaggio alle sculture livornesi, di molto precedente: sulla Via Carriona, in corrispondenza del Ponte Baroncino, tre telamoni settecenteschi che sorreggono un balcone si ispirano agli «schiavi» di Livorno, come certificano le loro teste rasate e le braccia incatenate dietro il dorso. Tanto è bastato perché queste sculture in marmo venissero tradizionalmente attribuite a Tacca stesso. Il monumento a Ferdinando I non è soltanto un capolavoro da ammirare, ma è anche un’opera problematica, che ci dà da pensare e riflettere, e che anzi può causarci un certo disagio. Questa è senz’altro una condizione che accomuna molti monumenti celebrativi che ci sono giunti dal passato: la loro esaltazione di un potere assoluto è quanto di più distante dai nostri valori di democrazia, libertà, tolleranza.

Qui però c’è dell’altro: vengono visualizzate la sopraffazione e la prigionia, oltretutto con una differenziazione, per etnia e religione, tra chi trionfa sopra e chi patisce in catene nella parte inferiore che non può non instillare inquietudine nel riguardante. Un monumento che può apparire scomodo, in questi tempi in cui il confronto tra mondo islamico e Occidente ha conosciuto asprezze tali da far evocare il fantasma dello «scontro fra civiltà», e in cui il movimento Black Lives Matter ha puntato il dito contro monumenti a personaggi tacciati di razzismo o legati alla tratta degli schiavi. A “riappacificarci” con il monumento contribuisce l’arte di Tacca: i suoi schiavi sono persone. Non sono figure stereotipate ma, come abbiamo visto, individui, l’uno diverso dall’altro. Vinti di cui però si riconosce e si esalta la bellezza, si trasmette il vigore. Sconfitti che sopportano la prigionia e la sofferenza con silenziosa dignità.

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Fabrizio Federici

L'autore di questo articolo: Fabrizio Federici

Fabrizio Federici ha compiuto studi di storia dell’arte all’Università di Pisa e alla Scuola Normale Superiore. I suoi interessi comprendono temi di storia sociale dell’arte (mecenatismo, collezionismo), l’arte a Roma e in Toscana nel XVII secolo, la storia dell’erudizione e dell’antiquaria, la fortuna del Medioevo, l’antico e i luoghi dell’archeologia nella società contemporanea. È autore, con J. Garms, del volume "Tombs of illustrious italians at Rome". L’album di disegni RCIN 970334 della Royal Library di Windsor (“Bollettino d’Arte”, volume speciale), Firenze, Olschki 2010. Dal 2008 al 2012 è stato coordinatore del progetto “Osservatorio Mostre e Musei” della Scuola Normale e dal 2016 al 2018 borsista post-doc presso la Bibliotheca Hertziana, Roma. È inoltre amministratore della pagina Mo(n)stre.





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