Un fondo ancora quasi tutto da studiare, con diverso materiale inedito, e censito scientificamente nella sua interezza soltanto nel 2017: è il prezioso fondo etiopico della Biblioteca Statale del Monumento Nazionale di Casamari, ovvero la biblioteca dell’importante abbazia cistercense che si trova a Veroli, nei pressi di Frosinone. La presenza di testi etiopici nel patrimonio librario di Casamari è dovuto alla storia delle relazioni che l’abbazia ha saputo tessere: dal 1930, infatti, svolge con continuità un’attività a supporto del monachesimo cattolico in Etiopia e in Eritrea e ospita costantemente giovani provenienti dal paese africano. L’inizio del rapporto che lega Casamari all’Etiopia ha inizio nel 1926, quando papa Pio XI invia l’enciclica Rerum Ecclesiae in cui sottolinea l’importanza delle missioni cattoliche fuori dall’Europa. Poi, nel 1930, il cardinale Alexis-Henri-Marie Lépicier propone di ospitare proprio a Casamari i monaci etiopi ed eritrei interessati al contatto con lo stile di vita dei cistercense. È invece nel 1940 che viene organizzata la prima missione in Africa, con un gruppo di monaci che da Casamari partono per l’Eritrea, al fine di aprire diverse case, da Asmara a Karan, da Addis Abeba a Gondar (oggi rimangono solo quelle di Asmara, Keren e Halay).
La presenza dei manoscritti etiopici a Casamari (sono venti in tutto) dipende dunque strettamente da questa storia. Nel censimento del fondo etiopico di Casamari, pubblicato, come anticipato, nel 2017 ed eseguito da Antonella Brita, Karsten Helmholz, Susanne Hummel e Massimo Villa, tutti dell’Università di Amburgo, i quattro studiosi ricostruiscono la storia delle acquisizioni: il primo gruppo di manoscritti, undici in totale, è giunto a Casamari tra gli anni Cinquanta e Sessanta, quando abate era Nivardo Buttarazzi (ha ricoperto il ruolo dal 1941 al 1988), mentre il secondo nucleo, composto da nove manoscritti, è arrivato tra il 1988 e il 1994 con l’abate Ugo Tagni.
Il primo codice (MS 29), del XVI o XVII secolo, contiene alcuni libri del Vecchio Testamento: il libro di Isaia, quello di Daniele, i libri sapienziali e un apocrifo, il libro di Enoch. Il 30 è invece un Dāwit, ovvero un salterio (il libro dei salmi) del XVIII secolo, mentre il 31 contiene il Vangelo di Giovanni (Bǝsrāta Yoḥannǝs in etiope). Il 32 è un codice del XX secolo è un breviario (Mǝʿrāf), il 33 è un Vangelo di Giovanni del XIX secolo, il 34 è un altro breviario composto tra il 1889 e il 1913, il 35 contiene un innario e risale al XVIII-XIX secolo (simili sono il 38 e il 39), e il 36 ha gli stessi contenuti del manoscritto che lo precede, ma risale interamente al XIX secolo, mentre il 37 è una collezione di testi liturgici, preghiere e inni, risalenti al 1881-1889.
Si passa poi al secondo nucleo, con il MS 113, del XVIII-XIX secolo, che contiene una Doctrina arcanorum e un poema innodico, seguito dal 114 che include un Lamento della Vergine (Saqoqāwa dǝngǝl) del 1889-1926. Il 115 è una collezione di inni e testi liturgici, datato 1732, mentre il 116 è un salterio dell’Otto-Novecento, così come il 118 che è invece del XIX-XX secolo, e il 120 del XIX secolo. Il 117 è una collezione di testi liturgici diviso in due unità, la prima delle quali del 1682-1692 e la seconda risalente invece al Settecento, mentre il 119 contiene un antifonario e una raccolta di inni eucaristici e risale all’Otto-Novecento. Infine, il 121, ultimo manoscritto del fondo, è un Libro della Rivelazione di Pietro a Clemente (Maṣḥafa Qalemǝnṭos), un codice diviso in tre unità: è proprio questo il codice più interessante e più antico del fondo, per adesso l’unico che è stato studiato, prima da Delio Vania Proverbio e Gianfranco Fiaccadori, poi da Alessandro Bausi. È diviso in due unità: un singolo foglio del XV secolo, mentre tutto il resto è stato copiato tra XV e XVI secolo, anche se il Qalemǝnṭos fu composto tra il XIII e XIV secolo (e il manoscritto di Casamari è uno dei più preziosi testimoni di quest’opera). L’opera, di lingua etiopica, rientra nel genere dei libri apocalittici, è composta di sette libri ed è rilevante in quanto è considerato dalla Chiesa etiopica uno dei suoi libri canonici, esattamente come la Bibbia.
Tutti i codici di Casamari sono in lingua Gǝʿǝz (pronuncia: “ghés”), una lingua estinta che si è parlata nell’impero di Etopia dal V secolo a.C. fino al XIV secolo, ma attualmente ancora utilizzata come lingua liturgica dalla Chiesa etiopica e da quella eritrea (è, in sostanza, una sorta di corrispettivo del latino per la Chiesa cattolica). La produzione di manoscritti in questa lingua ebbe inizio in Etiopia già nei primi secoli di diffusione del cristianesimo, e oggi nel mondo si stima esistano più di duecentomila manoscritti in Gǝʿǝz, ventimila dei quali si trovano in Europa (il più grande fondo di manoscritti Gǝʿǝz fuori dall’Etiopia si trova alla Biblioteca Vaticana), molti dei quali in città italiane, tra biblioteche pubbliche e collezioni private.
Alcuni dei codici si presentano anche decorati con miniature. È il caso del MS 29, che reca tre illustrazioni (un san Giorgio col drago, un Daniele con i leoni e san Michele), del 33, dove si trova un ritratto di un vescovo (abuna) della Chiesa etiope, Sāmuʾel zaWaldǝbbā, raffigurato assieme a un leone, e ancora un san Giorgio, e infine del 114, dove troviamo un san Michele, una Vergine col Bambino, una raffigurazione di Gabra Manfas Qǝddus (un santo venerato dalla Chiesa etiope) con alcune bestie selvagge, e di nuovo san Giorgio. Di notevole interesse sono soprattutto le illustrazioni del MS 29, che si presentano con lo stile tipico di molta miniatura etiopica: figure sostanzialmente stilizzate ma spesso descritte con gran minuzia decorativa (si veda per esempio il cavallo di san Giorgio), grandi fondi perlopiù monocromatici, ampie campiture cromatiche con quasi totale assenza di chiaroscuro, utilizzo molto marcato del contorno che viene usato per creare le forme, gesti semplici ma di grande efficacia espressiva.
Nonostante le prime ricerche sui manoscritti etiopici risalgano ormai a più di un secolo fa, solo di recente è emerso rinnovato interesse attorno a queste produzioni, e sono partite anche iniziative di mappatura delle varie collezioni che li raccolgono (quella su Casamari fa parte di uno studio che ha coinvolto anche il Castello d’Albertis di Genova e la Biblioteca Giovardiana di Veroli). Molto rimane però da fare: diversi manoscritti ci sono arrivati in condizioni precarie e necessitano di essere digitalizzati per poterli meglio preservare, ci sono manoscritti ancora non tradotti (lo stesso Qalemǝnṭos, nonostante fosse ben noto agli studiosi di manoscritti etiopici, è stato tradotto per intero in italiano solo nel 1992 da Alessandro Bausi), moltissimi dei quali non è mai stata prodotta una edizione critica o che addirittura non sono mai stati neppure oggetto di studio. Un patrimonio, dunque, ancora quasi tutto da scoprire.
L’abbazia di Casamari venne fondata poco dopo l’anno Mille, quando alcuni ecclesiastici di Veroli, con l’intento di costituire una comunità monastica benedettina, avviarono la costruzione di un monastero sulle rovine di Cereate, patria del console Caio Mario (da cui “Casamari”, ovvero “Casa di Mario”). Intorno alla metà del XII secolo, i monaci benedettini furono sostituiti dai cistercensi, che edificarono l’attuale monastero, gioiello di architettura cistercense. Dopo un periodo di splendore, a partire dalla metà del XIV secolo Casamari si avviò ad un lento declino fino a quando nel 1717 vi fu introdotta una colonia di monaci cistercensi riformati, detti Trappisti, provenienti da Buonsollazzo nel Granducato di Toscana, che conferirono nuovo impulso alla vitalità spirituale, culturale e materiale del monastero. In età napoleonica e nel corso dell’Ottocento, Casamari subì invasioni, saccheggi, incendi e spargimento di sangue. Spogliata dei suoi beni nel 1873 in seguito alle leggi di soppressione, l’abbazia, nell’anno successivo, fu dichiarata monumento nazionale. Nel 1929, Casamari, insieme ai monasteri da essa fondati, è stata eretta canonicamente in Congregazione monastica autonoma, aggregata all’Ordine cistercense. Gli edifici si articolano in modo armonico attorno al chiostro, cuore del monastero e punto di riferimento dell’intero complesso. Nell’abbazia di Casamari vive attualmente una comunità di quindici monaci.
L’abbazia di Casamari, ha una prestigiosa biblioteca avviata già agli inizi della vita monastica, che oggi custodisce più di 70.000 volumi, pergamene, codici miniati, manoscritti e alcuni incunaboli. La biblioteca occupa la parte estrema dell’ala occidentale del monastero, dove un tempo stava il refettorio dei conversi e vi si accede attraverso una scala esterna. La sala ha il soffitto a cassettoni, sostenuto da quattro archi a tutto sesto, che si dipartono da tre pilastri. Tra i volumi di pregio figurano una decina di manoscritti ed alcuni incunaboli. Il manoscritto più antico è una Regola di San Benedetto, della fine del secolo XII; altri risalgono al secolo XIV e XV. La biblioteca è uno degli ambienti più importanti del monastero, perché in essa sono custoditi non solo i libri di uso liturgico, ma anche quelli che personalmente i monaci consultano per studiare, non essendo loro consentito possederne di propri. L’abbazia conta anche su di un Museo-Pinacoteca: in alcune sale sono infatti esposti reperti archeologici, gran parte dei quali rinvenuti nelle vicinanze dell’abbazia, tra cui statue, cippi marmorei, are pagane, ex voto in terracotta, monete, epigrafi e una zanna di elephas meridionalis, oltre ad alcune tele tra le quali L’elemosina di san Lorenzo di Giovanni Serodine.
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