Si dice che Bruxelles sia una capitale a cui vada stretto il proprio Stato, volendo sottolineare la scala imponente della città per dimensioni e popolazione nel contesto di un paese relativamente piccolo. Lo stesso luogo comune potrebbe sposarsi anche per il suo Museo Reale di Belle Arti del Belgio (Musées royaux des Beaux-Arts de Belgique, o Koninklijke Musea voor Schone Kunsten van België), se non si tenesse però in mente che, a dispetto della sua taglia, il Belgio è un gigante della pittura, capace di dare un contributo fondamentale a diverse stagioni della storia dell’arte. Questa ricchezza si riflette in un sistema museale di altissimo livello, che trova a Bruxelles la sua punta di diamante nei Musei Reali di Belle Arti del Belgio. All’inizio degli anni Duemila questo straordinario apparato è stato riordinato e adesso è organizzato in più dipartimenti, che di recente sono stati nuovamente oggetto di un riallestimento: per tale motivo alcuni di essi restano al momento chiusi al pubblico.
Le diverse realtà sono sviluppate in quattro grandi collezioni: l’Old Masters Museum, il Fin-de-Siècle Museum, il Modern Museum e il Magrittemuseum, e due musei più piccoli dedicati a due artisti che sono il Wiertzmuseum e il Constantin Meuniermuseum. Mentre quest’ultimi sono situati in zone diverse della città, le quattro collezioni trovano spazio in sedi vicine tra loro, nel cuore della capitale belga, sulla collina di Coudenberg, nota anche come il quartiere reale, perché ospita appunto il Palazzo Reale e la piazza dei Re, oltre che altri edifici istituzionali. Attualmente restano chiusi per lavori di riammodernamento il Fin-de-Siècle Museum e il Modern Museum, le cui collezioni però vengono in parte esposte organizzando alcune importanti mostre. Se, in linea generale, la chiusura dei due musei può generare dispiacere, se ne rallegri il visitatore a cui viene generosamente tolta una difficilissima scelta, perché già di per sé l’Old Master Museum e quello di Magritte sono due istituzioni che il turista non può sperare di esaurire nemmeno in numerose visite.
Sebbene le collezioni abbiano storie piuttosto diverse, le origini del Museo Reale si devono a quel fremito che si diffonde durante il dominio sull’Europa di Napoleone, spinto dalla visione illuminista di dar vita a musei enciclopedici che possano degnamente chiudere in un perimetro murario tutte le manifestazioni d’arte ritenute più interessanti. Aperto nel 1803, dopo aver occupato alcune sedi temporanee il museo trovò posto definitivamente nell’imponente Palazzo delle Belle Arti, di gusto classicheggiante, costruito da Alphonse Balat intorno al 1880.
Ancora oggi in questa gigantesca struttura si sviluppa il Museo degli Antichi Maestri, una collezione sterminata composta da straordinari capolavori della storia fiamminga e di quella europea, che vanno dal XV al XVIII secolo. Si tratta di una ricca selezione di dipinti, che rende arduo qualsiasi tentativo di offrire una panoramica esaustiva sull’intero museo. I colori di ogni sezione individuano le diverse scuole e periodi storici; ovviamente il corpus più importante e interessante è costituito dagli artisti della scuola fiamminga, di cui sono rappresentati tutti i più significativi protagonisti e tutta la parabola. Una spettacolare sfilata di capolavori espone i primitivi fiamminghi, tra maestri ignoti e i grandi maestri che hanno costituito la gloria di questa scuola.
Superlativo è uno sportello di un polittico smembrato e sparso per mezza Europa, raffigurante il profeta Geremia, mentre sul retro è istoriato Noli me tangere, del misterioso Maestro dell’Annunciazione, ritenuto uno dei più alti rappresentanti della pittura provenzale del XV secolo, ma fortemente influenzato anche da tendenze fiamminghe e borgognone. L’immota e austera plasticità del profeta, descritto all’interno della nicchia con attributi ed elementi della sua attività, richiama alla mente soluzioni successive riprese da Antonello da Messina.
Di uno dei primi grandi iniziatori della pittura fiamminga, Rogier van der Weyden, sono esposte alcune opere religiose, come la Pietà e il Trittico Sforza, e di ritrattistica di qualità superlativa, tra cui il ritratto di Carlo il Temerario, il ritratto di Laurent Froimont e quello di Antonio di Borgogna. Sono dipinti che mostrano la sconfinata abilità del pittore di modulare in pienezza i volumi e di collocarli nello spazio, di sondare le temperature emotive attraverso una resa lenticolare e fondando una nuova iconografia nelle pose laiche della ritrattistica. Degli altri pionieri della pittura fiamminga Jan van Eyck e Robert Campin è esposto qualche brano ma dalle attribuzioni dubitative.
Degli artisti della generazione successiva va quantomeno citato un Compianto di Petrus Christus, opera che riflette l’influenza della Deposizione della Croce di Rogier van der Weyden, oggi al Prado, epurata però dagli accenti più drammatici per favorire invece un quieto senso di contemplazione suggerito dalle figure che si muovono in uno spazio rurale, che trasforma Gerusalemme in una città fiamminga; e il dittico con La giustizia dell’imperatore Ottone, grande capolavoro di Dieric Bouts, dove figure allampanate abbigliate da sontuosi abiti mostrano un rinverdimento dei caratteri del gotico internazionale. Anche dei due artisti più significativi del tardo XV secolo, Hugo Van der Goes e Hans Memling, sono esposte delle sontuose opere, in cui emerge il disegno più calligrafico, quasi come una sorta di arabesco continuo e dei colori di smagliante brillantezza.
Ma il visitatore che percorre le sale solo alla ricerca della firma celebre farebbe qui, più che in altri musei, un madornale errore, poiché anche gli artisti il cui nome resta ignoto realizzarono capolavori di altissimo livello, come il dipinto Virgo inter virgines del Maestro della Leggenda di Santa Lucia o il Maestro della vita di Giuseppe autore del Trittico Zierikzee in cui compaiano le eburnee raffigurazioni di Filippo il Bello e di Giovanna la Pazza.
Prima di incontrare gli ulteriori sviluppi di questa fortunata scuola, si trovano brani di pittori anche della scuola tedesca, molti dei quali si formarono ed operarono in area fiamminga. Gli esiti più alti sono quelli raggiunti dai due Lucas Cranach, padre e figlio, in particolare del Vecchio sono esposti capolavori quali Adamo ed Eva e Apollo e Diana, nei quali si evince quell’estremizzazione del linearismo fluido teso alla ricerca di una resa elegante ed armonica. Col volgere del secolo, gli artisti di questa parte del mondo iniziano ad accogliere nelle loro tele modelli e soluzioni desunte dall’arte italiana.
Tra questi un ruolo di primo piano è ricoperto da Gérard David, tra i massimi esponenti della scuola di Brugge, di cui il museo espone l’Adorazione dei Magi, basata su una scena affastellata di personaggi che abitano uno spazio creato con grande rigore prospettico e sensibilità al dato luministico, mentre le figure si ammantano di ambizioni monumentali. Di grande valore sono anche le opere di Quentin Metsys (o Massys) dove la plasticità si fonde in un perfetto connubio con il calligrafismo e la linearità. Ma i due geni che spiccano per originalità nel XVI secolo e la cui lezione ebbe smisurate ripercussioni per la pittura fiamminga sono Hieronymus Bosch e Pieter Bruegel, ambedue presenti in museo. Il primo, la cui parabola iniziò nel secolo precedente per finire nei primi decenni del Cinquecento, è rappresentato da una Crocifissione con donatore, opera di raffinata lucentezza e una copia di bottega del celebre Trittico delle Tentazioni di Sant’Antonio, custodito al Museo nazionale d’arte antica di Lisbona. È dal maestro olandese che Bruegel il Vecchio desunse la sua graffiante satira e il gusto per il grottesco, e a Bruxelles è rappresentato da un’intera sala, vero gioiello del museo. Caricaturale e onirica è la Caduta degli Angeli Ribelli, mentre opere come la Caduta di Icaro, l’Adorazione dei Magi e il Censimento di Betlemme mostrano quella suadente malia dei suoi paesaggi, bagnati da una musicale poesia, dove viene messa in scena un’umanità goffa e fragile, lontana da qualsiasi idealizzazione. Ancora lunga è la lista dei grandi nomi della pittura fiamminga che si apre ai nostri occhi, dimostrando l’importanza di questa feconda scuola.
L’altro apice della collezione è invece costituito dalla pittura del XVII secolo a dimostrazione di come la grandezza dell’arte fiamminga non si esaurì con il volgere dei secoli. Ed è in particolare la grande sala rossa tutta dedicata a Rubens a togliere il fiato a qualsiasi visitatore, in un’esperienza che è quasi stordente. Qui sono esposti numerosi capolavori del genio di Anversa, uno dei padri del Barocco Europeo. Le morbide e tiepide carni uscite dal pennello di Rubens si sporgono dai grandi teleri, impaginate con la grandiosità che gli è propria, esaltate da squisite cromie che si fanno più brillanti e fantasiose quando descrivono i trionfi o più calibrate e drammatiche quando spingono al raccoglimento e al pathos. Il vorticare impetuoso di panni e di pose e la tersa bruma che occupa il cielo, aprendosi solo di quando in quando per far passare il traslucidi bagliori di Dio, trasformano il racconto sacro in un’epopea mitica, come nel Martiro di San Lievin, nella Salita al Calvario o nel dipinto L’intercessione della Vergine e di San Francesco ferma i fulmini divini; all’opposto si pongono invece composizioni come l’Adorazione dei Magi dove una quiete domestica non viene interrotta nemmeno dall’affastellarsi di numerosi astanti.
E quante avventure incredibili ha ancora da offrire questo museo per l’occhio che arrivato a questo punto non è ancora sazio, quanti viaggi, smarrimenti e ritrovi offre queste fastosa collezione, tra le austere e aristocratiche figure cesellate dalla sicura mano di Antoon van Dyck, le connessioni psicologiche che tradiscono gli occhi dei ritratti di Rembrandt, e l’opulenza che trabocca dalle tele di Jacob Jordaens. I nomi e i capolavori sono interminabili e rimane spazio per i francesi come Philippe de Champaigne, Simon Vouet, Lorrain e altri, ma anche per gli italiani Annibale Carracci, Mattia Preti, Tintoretto, Crivelli, Barrocci, solo per citarne alcuni.
Ma vi è quantomeno un ultimo capolavoro su cui non è possibile sorvolare, la cui iconicità lo rende una delle opere più note e celebrate della storia dell’arte: La morte di Marat dipinto da Jacques-Louis David nel 1793. Dopo aver visto il tema sacro trattato con ineguagliabile grandezza, stupisce vedere come David sia riuscito a trasfondere la medesima intensità per trasformare un eroe della Rivoluzione Francese, in un santo martire. In una scena che in gran parte è occupata da uno sfondo tenebroso, emerge il candido corpo del politico francese privo di vita. Il novello Cristo è colto con il braccio abbandonato che si ricollega a quello di alcune celebri Deposizioni, mentre la vasca diviene il suo sepolcro così come il lenzuolo, che originariamente serviva per non disperde il calore dell’acqua, fa da sudario macchiato di sangue fuoriuscito da una ferita sul costato.
A questo punto il visitatore si potrebbe ritenere sufficientemente soddisfatto e abbandonare ogni altra impresa culturale, preservando le energie per il giorno successivo, ma qualora si tratti di un implacabile e ingordo fruitore di cultura, sappia che appena un corridoio e un ascensore lo separano dalla più corposa collezione di opere di René Magritte, raccolte per l’appunto nel Museo Magritte. Questo museo monografico disposto nel neoclassico palazzo dell’Hôtel du Lotto è il perfetto coronamento per intendere in profondità le ultime propaggini dell’arte fiamminga, benché attardatesi nel XIX secolo.
Infatti, nonostante René François Ghislain Magritte nascesse nel 1898 a Lessines, nella parte vallone del Belgio, vivendo e lavorando però a Bruxelles, si fece erede con la sua arte di quelle peculiarità ironiche e morbose della pittura fiamminga fondate sull’attenzione alla resa mimetica del vero. La fondazione del Museo Magritte è piuttosto recente, risale infatti al 2009, quando grazie a una lungimirante politica capace di attirare donazioni e depositi di opere importanti, si è riusciti a costituire una realtà capace di descrivere tutta la carriera del surrealista più celebre del Belgio, e a diventare un’istituzione molto visitata. Il museo si sviluppa su tre piani, dal più alto al più basso, ed espone oltre 150 tra dipinti, disegni, lettere, sculture e oggetti.
L’esposizione testimonia gli esordi nel campo dell’arte di Magritte lontani da quella produzione più nota, e vicini invece agli ideali artistici promossi dalla rivista 7 Arts, corrispettivo belga di De Stijl, dove si promuovevano tendenze dell’astrattismo geometrico e plastico. Si tratta di dipinti in bilico tra suggestioni futuriste e costruttiviste, dalla tavolozza squillante, ma di non particolare originalità. La visita continua poi con i disegni pubblicitari di gusto cubo-futurista che l’artista realizzava per sbarcare il lunario durante gli anni Venti. L’impluvio nell’arte di Magritte avviene con l’incontro dell’opera di Giorgio de Chirico, Canto d’amore, che mostra al belga le possibilità compositive e immaginative permesse dall’arte figurativa. Quel momento segna anche il suo avvicinamento alla compagine surrealista capitanata da André Breton, ma mantenendo pur sempre una poetica indipendente, in cui la casualità è limitata, e dove si assiste invece all’evocazione di una razionale assurdità. Così l’artista abbandona l’arte formale astratta benché si servirà costantemente dell’astrazione, non nella sua dimensione estetica, ma concettuale, isolando dettagli dalla loro realtà concreta e calandoli in contesti onirici.
Il museo permette di approfondire attraverso numerose opere, esposte a rotazione nella scure sale di mostra, i molteplici aspetti della sua arte, tra tutti l’uso del dettaglio quale modo di indagare e sovvertire l’ordine nella sua dimensione oggettiva, sottoponendo a un costante dubbio sistematico, alimentato da atmosfere paradossali e da titoli enigmatici, spesso scelti nella completa casualità con la sola volontà di spiazzare l’osservatore.
Ma si denota anche la sua concezione di una dimensione organica della realtà, che si riverbera in opere come il Sangue del Mondo, dove la natura è attraversata da mistero inesprimibile e inafferrabile. Anche la contaminazione tra raffigurazione e parole, forse lascito del suo impegno come grafico pubblicitario, è un altro pilastro su cui poggia la sua arte, come in L’usage de la parole, o l’ancora più celebre Il tradimento delle immagini (Ceci n’est pas une pipe), qui esposto attraverso grafiche e disegni. Ma il museo mostra anche produzioni meno note, quali il periodo conosciuto come vache, in cui le immagini si fanno più grottesche, dai colori smodati e dal disegno frastagliato.
Infine, la visita si conclude con una sezione che mette a fuoco il concetto di serialità nel corpus magrittiano, ben disposto a ripetere le sue opere più note in dettagli o interi, riportandole anche su supporti diversi, per assecondare il mercato. Terminata la giornata, il visitatore ne uscirà stravolto ma con la sicurezza di aver abbracciato col suo occhio tutte le più grandi meraviglie artistiche del mondo fiammingo.
L'autore di questo articolo: Jacopo Suggi
Nato a Livorno nel 1989, dopo gli studi in storia dell'arte prima a Pisa e poi a Bologna ho avuto svariate esperienze in musei e mostre, dall'arte contemporanea, alle grandi tele di Fattori, passando per le stampe giapponesi e toccando fossili e minerali, cercando sempre la maniera migliore di comunicare il nostro straordinario patrimonio.