Chi ha seguito il nostro podcast su Paolo Veronese (o chi è stato alla mostra a lui dedicata a Verona), saprà sicuramente che nell’ultima sezione dell’esposizione allestita al Palazzo della Gran Guardia, è possibile ammirare l’imponente Convito in casa di Levi degli Haeredes Pauli, di proprietà delle Gallerie dell’Accademia di Venezia ma in deposito a Verona presso Palazzo Barbieri, sede del Comune. L’opera occupa tutta una parete: è infatti un dipinto alto oltre cinque metri e lungo quasi dieci. Abbiamo deciso di dedicare un approfondimento al cosiddetto Convito in casa di Levi per diverse ragioni. Intanto, perché è utile per parlare più diffusamente della bottega di Paolo Veronese. Poi, perché è un’opera in cui il rapporto tra maestro e bottega emerge in modo chiaro e ci dà anche modo di vedere, all’interno dello stesso dipinto, le differenze tra la mano del maestro e quelle dei suoi allievi. E poi perché l’opera è stata oggetto di un lungo restauro. Ma andiamo con ordine.
Haeredes Pauli, Convito in casa di Levi o Convito in casa del fariseo, 1588-1590; Olio su tela, cm 509 x 984; Venezia, Gallerie dell’Accademia in deposito a Verona, Palazzo Barbieri |
Abbiamo detto che il dipinto è stato realizzato dagli Haeredes Pauli. Questa dicitura latina, nella formula “estesa” Haeredes Pauli Caliarii Veronensis (“Eredi di Paolo Caliari il Veronese”) veniva utilizzata, dopo la scomparsa di Paolo avvenuta nel 1588, come firma per i dipinti che uscivano dalla sua bottega e che erano realizzati dal fratello Benedetto (1538 circa - 1598) e dai figli Gabriele (1568 - 1631) e Carlo (o Carletto, 1570 - 1596). Si trattava, perciò, di una bottega a conduzione familiare: la firma Haeredes Pauli celava nient’altro che i tre più diretti eredi di Paolo Veronese, e si configurava come una specie di marchio (“brand”, diremmo oggi) che aveva l’obiettivo di assicurare ai committenti la qualità dei dipinti. Questo anche per il fatto che gli Haeredes Pauli facevano uso di uno stile che, pur con i suoi limiti, si rifaceva a quello del grande maestro. Si trattava di uno stile omogeneo: per questo motivo è difficile distinguere, nei dipinti che recano la firma degli Haeredes Pauli, le diverse mani dei realizzatori. E questo non è che uno dei problemi che riguardano, allo stato attuale delle nostre conoscenze, la bottega degli eredi del Veronese: un altro problema infatti consiste nello stabilire come questa bottega fosse organizzata. Ovvero, se si configurò come un collettivo di artisti nel quale ognuno aveva pari responsabilità, o se fu un gruppo con una forte gerarchia, come era quando Paolo era ancora in vita (della bottega, infatti, il capo indiscusso era Paolo, il cui nome costituiva una garanzia per i committenti). Sono poche le testimonianze documentarie sulla questione, che non può ancora essere chiarita in via definitiva.
Una di queste testimonianze documentarie riguarda proprio il Convito in casa di Levi: è una nota di pagamento risalente al 1590. Questo è il testo: Adì 13 settembre 1590. Recevi io, Gabriel Caliari, duchatti cinquanta dal reverendo padre fra Cosmo prochurattor nel monasterio di s. Jacomo della Zudecha; et questi sono a buon conto del quadro che noi li habbiamo fatto nel suo refettorio. Val ducati 50. Io Gabriel sopradito servitore. Da tale documento ricaviamo quindi diverse informazioni utili. La prima: il pagamento giunse nel 1590, quindi è lecito aspettarsi che il dipinto fu terminato quell’anno, tanto più che Gabriele Caliari parla del quadro “che noi abbiamo fatto”. La seconda: quel “noi abbiamo fatto” indica che il dipinto è un’opera collettiva degli Haeredes Pauli, anche se non conosciamo il modo in cui la bottega si divise il lavoro. La terza: l’opera fu realizzata per il refettorio del convento di San Giacomo della Giudecca, oggi non più esistente in quanto demolito nel 1806. La quarta: a ritirare la nota (e quindi, forse, anche a condurre la trattativa con i frati del convento) fu Gabriele, il figlio maggiore di Paolo. Questa nota, tuttavia, è insufficiente per capire se fosse veramente Gabriele il capo della bottega, anche perché ci sono rimasti altri documenti in cui è invece Benedetto a fare da tramite tra la bottega e il committente.
Il dipinto narra l’episodio evangelico in cui Gesù viene invitato a pranzo a casa di un fariseo, di cui non viene citato però il nome: la vicenda è descritta nel Vangelo di Luca (11:37-53). L’episodio a cui invece allude il titolo con cui è nota l’opera, ovvero la cena in casa di Levi, fa riferimento a un’altra situazione, quella della vocazione di Matteo: il vero nome dell’evangelista era infatti Levi, e dopo la chiamata organizzò una cena in casa sua assieme a Gesù e a tante altre persone. L’episodio descritto nel dipinto degli Haeredes Pauli, come si diceva, è il primo, quello in cui il padrone di casa non ha un nome preciso: possiamo dedurlo dai particolari iconografici dell’opera. L’ambiguità tra titolo e contenuto deriva dal fatto che lo scrittore d’arte Carlo Ridolfi, nel suo libro Le Maraviglie dell’Arte (una raccolta di biografie dei più illustri pittori veneti della storia, pubblicato nel 1648), parla di una gran tela per lo Reffettorio de’ Padri di san Jacopo della Giudecca, ov’entra nostro Signore alla Mensa di Levi Banchiere, laddove per “banchiere” dobbiamo intendere colui che sta seduto al “banco” per la riscossione delle imposte (Matteo era infatti un pubblicano, ovvero una sorta di esattore delle tasse). Ridolfi continua poi a descrivere il dipinto facendo riferimento all’episodio del banchetto tenuto a casa di Levi. Da allora, l’opera è sempre stata conosciuta come il Convito in casa di Levi, benché sarebbe più corretto identificarla come Convito in casa del fariseo, prendendo per buona l’ipotesi che l’episodio raffigurato sia quest’ultimo. Non è raro trovare anche chi si riferisce al dipinto chiamandolo Convito in casa di Simone, ipotesi iconografica che tuttavia è da escludere completamente in quanto manca la figura di santa Maria Maddalena, presente, come da racconto evangelico, nella cena a casa di Simone (e, anzi, assieme a Gesù assoluta protagonista).
Il confine tra i due soggetti, cena in casa di Levi e cena in casa del fariseo, è comunque molto labile, perché in entrambi i casi vengono rivolte critiche a Gesù, e in entrambi i casi Gesù risponde accusando chi lo critica, e sempre in ambedue i casi le iconografie sono tali da non rendere ben distinguibili le due situazioni per un particolare inequivocabile: i due episodi non hanno infatti elementi identificativi di rilievo. Nel dipinto degli Haeredes Pauli ci sono però due personaggi che sembrano rivolgersi direttamente a Gesù: uno è quello seduto di fronte a lui, e che Gesù sta guardando negli occhi. Dovrebbe essere il fariseo che lo ha invitato a cena. L’altro è invece il personaggio a destra, con l’ermellino, che accenna un passo in avanti, tiene un libro con la mano sinistra e alza invece la destra, come per volersi inserire in una discussione. Questo personaggio potrebbe essere identificato con il dottore della legge citato nell’episodio evangelico. Si racconta infatti che, durante la cena, il padrone di casa avesse criticato Gesù in quanto reo di non aver compiuto le abluzioni, ovvero i riti purificatori prima del pranzo: Gesù avrebbe dunque risposto scagliandosi contro l’ipocrisia dei farisei. Subito dopo, un dottore della legge avrebbe detto a Gesù che con quella critica offendeva anche la sua categoria, e a quel punto Gesù si sarebbe mosso in un’altra critica, questa volta proprio nei confronti dei dottori della legge. Il momento raffigurato dagli Haeredes Pauli è proprio quello in cui lo scriba (il libro potrebbe essere identificato come un simbolo della legge) si introduce nella discussione per esprimere il proprio disappunto a Gesù, che sta ancora finendo di parlare con il fariseo.
Lo schema compositivo ricalca quello del celeberrimo Convito in casa di Levi dipinto da Paolo Veronese per la Basilica dei Santi Giovanni e Paolo di Venezia nel 1573. Il Veronese, sempre attento a conferire un’impostazione architettonica di respiro monumentale alle sue opere, come emerge dalla mostra di Verona e come abbiamo detto anche nel podcast, per il suo dipinto dimostrò di rifarsi all’architettura del fronte scenico del palladiano Teatro Olimpico di Vicenza: in sostanza, un’architettura monumentale aveva il compito di dividere il proscenio (ovvero la parte del palco più vicina alla platea) dallo spazio retrostante, occupato, nel caso delle scenografie del Teatro Olimpico di Vicenza, dalla prospettiva delle strade della città di Tebe. Gli Haeredes Pauli, nel loro dipinto, sviluppano questo schema rendendolo però più pesante: il loggiato che divide il fondo della scena dallo spazio su cui si muovono i personaggi è infatti preceduto da un colonnato con otto colonne corinzie, che racchiude lo spazio dei personaggi. Lo sfondo è occupato da marmorei edifici classicheggianti, mentre lo spazio in primo piano è affollatissimo: ci sono personaggi abbigliati con vesti dalle fogge più disparate, ci sono madri con i bambini, diversi animali (cani, gatti, e anche una scimmia sull’angolo in basso a sinistra). Questa tendenza a caricare di personaggi le scene era tipica dell’arte degli Haeredes Pauli. Tuttavia, in questo dipinto è possibile tentare di distinguere anche la mano di Paolo Veronese.
Il refettorio di San Giacomo della Giudecca era infatti già concluso nel 1585, e non è da escludere pertanto che lo stesso maestro abbia partecipato in prima persona alla realizzazione dell’opera. Gli studiosi hanno riscontrato una maggior qualità nella porzione destra dell’opera, in particolare quella dove troviamo i personaggi compresi tra le ultime due colonne. Questi personaggi sono disposti in modo più armonioso e bilanciato di quelli che compaiono nel resto del dipinto: questo si spiega con l’intervento di una mano migliore rispetto a quelle che hanno realizzato gli altri elementi dell’opera.
Come si diceva all’inizio, il Convito in casa di Levi degli Haeredes Pauli è stato oggetto di un importante restauro, voluto dai curatori della mostra visitabile fino al 5 ottobre a Verona, ovvero Paola Marini e Bernard Aikema, e che è stato possibile anche grazie ai finanziamenti della Banca Popolare di Verona, di Inner Wheel-Distretto 206 e di fondazione CittàItalia. Il restauro, condotto dallo studio di Barbara Ferriani, intanto ha fatto in modo che l’opera, che versava in uno stato di conservazione non buono, venisse recuperata: era stata infatti interessata da cadute di colore e ingiallimenti (che hanno avuto peraltro l’effetto di rendere molto più evidenti le ridipinture, ovvero gli interventi successivi, a scapito della stesura originaria), e inoltre, data l’esposizione in un palazzo pubblico come il municipio di Verona, era stata soggetta all’azione della sporcizia. Infine, oltre al pieno recupero dell’opera, il restauro ha reso possibile l’individuazione delle mani dei tre eredi di Paolo, chiarendo così un aspetto dibattuto: se l’intero merito del dipinto dovesse essere attribuito a uno solo degli eredi, o a tutti e tre insieme. E, sempre per quanto riguarda la realizzazione, il restauro ha chiarito un aspetto importante, e cioè il fatto che gli artisti abbiano iniziato realizzando dapprima le architetture e inserendo i personaggi solo ad architetture ultimate.
Il risultato di questo restauro condotto in maniera esemplare si può vedere, ancora per pochi giorni, al Palazzo della Gran Guardia di Verona, dove è in corso la mostra Paolo Veronese. L’illusione della realtà. L’effetto è scenografico e spettacolare, perché il Convito sorprende l’osservatore per la sua imponenza e la sua grandiosità: e gli effetti prospettici sembrano davvero proiettarci nel loggiato di un ricco palazzo della Venezia del Cinquecento. Ci sembra davvero di partecipare alla cena, di assistere allo svolgersi dell’evento, di gettare lo sguardo al di là delle colonne per vedere meglio gli edifici sullo sfondo. Ci sembra che quei personaggi siano vivi, che ognuno si stia muovendo come in una sorta di dramma teatrale su un meraviglioso palcoscenico. È la potenza della pittura veronesiana, della quale gli Haeredes Pauli furono degni continuatori... !
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).