È curioso pensare che il Sansone vittorioso di Guido Reni (Bologna, 1575 – 1642), una delle opere più famose del Seicento, oggi conservato alla Pinacoteca Nazionale di Bologna, in origine fosse destinato a decorare un camino: la tela infatti fu commissionata al grande artista da un nobile bolognese, il conte Francesco Maria Zambeccari, che la voleva come sovracamino per la sua residenza, e questo spiega anche l’originale e inusuale forma mistilinea del dipinto, con due volute che affiancano una centina lobata, una struttura che esalta la forza dell’eroe biblico (“il Sansone”, scrisse lo storico dell’arte Gian Carlo Cavalli, “appare come una statua vivente entro la nicchia premeditata”). L’opera fu realizzata tra il 1614 e il 1616 e rimase nella casa del conte fino al 1664, quando fu acquistata, grazie all’interessamento di un importante artista bolognese del tempo, Lorenzo Pasinelli, dall’arcivescovo di Bologna, Girolamo Boncompagni, il quale a sua volta, nell’anno della sua scomparsa e cioè il 1684, lasciò il Sansone vittorioso al Senato della città di Bologna. Le opere delle collezioni pubbliche di Bologna confluirono poi in gran parte nelle raccolte della Pinacoteca Nazionale di Bologna in età napoleonica, e ancora oggi possiamo ammirare l’opera nell’istituto di via Belle Arti, all’interno della sala dedicata proprio a Guido Reni.
Del quadro parla già Carlo Cesare Malvasia nella Felsina pittrice, la raccolta di vite di pittori bolognesi pubblicata nel 1678: Malvasia lo descrive come “Il superbo Sansone fatto per il camino della Sala del Sig. Co. Francesco Maria Zambeccari, oggi posseduto, fra gli altri pezzi insigni dello stesso Guido, dall’Eminentiss. Sig. Card. Boncompagno vigilantissimo nostro Arcivescovo”. L’opera, in virtù del forte interesse che suscitarono, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, gli artisti che si collocavano nel solco del classicismo secentesco, avrebbe riscosso un certo successo in quel periodo: tra quanti ne hanno scritto merita un cenno un passaggio di Percy Bysshe Shelley che s’intrattenne qualche tempo a Bologna durante il suo viaggio in Italia, cominciato nel 1818 e conclusosi tragicamente nel 1822, e che ebbe modo di visitare la Pinacoteca Nazionale da poco aperta. “Vidi molto altro di Guido”, si legge in un suo ricordo del soggiorno bolognese pubblicato postumo negli Essays: “un Sansone che beve acqua dalla mascella di un asino in mezzo ai Filistei massacrati. Perché dovrebbe fare questo, solo Dio che gli ha dato questa mascella lo sa, ma certo è che il dipinto è molto bello. La figura di Sansone è in forte rilievo in primo piano, colorata, per così dire, nelle tonalità della vita umana, e piena di forza ed eleganza. Attorno a lui giacciono i Filistei in tutti gli atteggiamenti di morte. Uno prono con le lievi convulsioni del dolore che gli passano appena dalla fronte, mentre sulle labbra e sul mento gli giace la morte pesante come il sonno. Un altro appoggiato al suo braccio, con la mano bianca e immobile che gli pende davanti. In lontananza altri cadaveri. E ancora più in là, il mare azzurro e le montagne azzurre e una vela bianca e tranquilla”.
Il soggetto rappresentato, l’eroe biblico Sansone, era stato affrontato già altre volte in anni recenti: pochi anni prima, Pieter Paul Rubens aveva eseguito un dipinto raffigurante Sansone e Dalila (opera del 1609 oggi alla National Gallery di Londra), soggetto scelto anche dall’olandese Gerrit van Honthorst per un suo celebre dipinto del 1615 circa, per non dimenticare poi il dipinto di Annibale Carracci conservato alla Galleria Borghese di Roma e raffigurante il Sansone in carcere. Anche Caravaggio poco tempo prima, nel 1607, aveva rappresentato l’eroe in un suo dipinto, le Sette opere di misericordia, conservate presso la chiesa del Pio Monte della Misericordia di Napoli: il Sansone di Caravaggio compie lo stesso gesto di quello di Guido Reni, ovvero beve l’acqua dalla mascella d’asino, ed è necessario sottolineare come, nel dipinto di Caravaggio, l’eroe simboleggi una delle opere di misericordia richieste da Gesù nel Vangelo di Matteo al fine di poter guadagnare il regno dei cieli, ovvero il dare da bere agli assetati. La leggenda di Sansone è narrata nell’Antico Testamento, precisamente nel libro dei Giudici. È divenuta proverbiale la forza dell’eroe biblico, una forza che gli era stata concessa da Dio e che gli consentiva di compiere grandi imprese: una di queste è quella cui fa riferimento il dipinto. Sansone infatti si era scontrato con i Filistei, che lo avevano catturato, legato con funi e portato nella città di Lechi. Ma l’eroe, grazie alla sua forza prodigiosa trasmessagli da Dio, riuscì a rompere le corde, quindi trovò una mascella di un asino e con questa, usata come arma, uccise mille dei suoi avversari. In seguito alla vittoria, poiché Sansone era assetato, Dio fece sgorgare una sorgente dal suolo grazie alla cui acqua l’eroe poté dissetarsi. Un errore in un’antica traduzione del libro dei Giudici portò a confondere il nome del luogo su cui si consumò lo scontro, il “monte della Mascella”, con la stessa mascella, conducendo all’equivoco dell’acqua sgorgata direttamente dalla mascella: è per questo che osserviamo l’eroe bere dall’osso d’asino.
Il Sansone vittorioso di Guido Reni raffigura l’eroe nel momento in cui ha finito di combattere contro i suoi nemici e sta bevendo l’acqua raccolta dalla fonte con la mascella dell’asino. Il tema scelto è adatto per rappresentare la figura di un condottiero dal fisico scultoreo, in una posa che mette in evidenza i suoi muscoli delineati con evidente sapienza anatomica, dal momento che Guido Reni decide di raffigurare il suo eroe nudo, fatta eccezione per un velo arancione che gli cinge la vita e gli copre i genitali e che si muove in maniera innaturale, ricordando gli svolazzi della Galatea di Raffaello nella Villa Farnesina. La posa è teatrale: Sansone si mostra con il corpo rivolto frontalmente verso l’osservatore, la testa in torsione si gira verso la mascella d’asino dalla quale scende l’acqua, un braccio è sollevato verso l’alto e l’altro è poggiato sul fianco, mentre il piede sinistro è posto sopra uno dei filistei sconfitti, che vediamo giacere sulla terra intorno a Sansone. La fa risaltare la bellezza apollinea dell’eroe, una bellezza che si fa anche simbolo della sua forza morale, del suo valore di condottiero e della sua fede in Dio, così come la nudità si fa simbolo della forza della Verità che sconfigge i nemici di Dio. Proprio questa bellezza straordinaria contribuisce a stemperare l’eroismo della figura di Sansone nel segno di una grazia ricercata: il Sansone vittorioso, ha del resto scritto Andrea Emiliani, uno dei massimi studiosi del Seicento bolognese, “è un simbolo operante di una venustà ibrida e anti-eroica, levata al cielo come un’idea di cultura e di grazia: di grazia e di cultura si ammantano, nel cadere di una sera immersa nel silenzio, i corpi caduti, o addormentati in seno a una dolcissima morte”.
Pur essendo il principale alfiere del classicismo bolognese, e quindi portato a realizzare figure idealizzate, Guido Reni era anche un pittore dotato di una notevole padronanza dello studio dell’anatomia e del corpo umano, aspetto che si nota non soltanto nel Sansone vittorioso ma anche in altre, fondamentali opere. Sono molti infatti i dipinti che offrono una testimonianza di questa qualità della pittura reniana, come il Nesso che rapisce Deianira, opera conservata al Louvre, oppure il San Sebastiano della Pinacoteca Nazionale di Bologna. Un ulteriore e significativo esempio è dato dalla Maddalena con due angeli, che oggi si trova presso una collezione privata dopo che nell’aprile del 2008 è stata venduta dalla casa d’aste Dorotheum di Vienna: si noti l’eccezionale cura e il vivo realismo con cui Guido Reni dipinge il teschio, simbolo di penitenza. Osservando queste opere si percepisce con chiarezza l’attenzione che Guido Reni dedicava allo studio delle parti del corpo umano, e dunque possiamo desumere che l’artista nutrisse un certo interesse per la scienza, probabilmente nutrito dal fatto che a Bologna, sul finire del Cinquecento, fosse attivo il grande naturalista Ulisse Aldrovandi, che allestì un’importante raccolta di animali, piante e minerali e che di sicuro contribuì a dare una notevole spinta all’attività scientifica nella città di Bologna, i cui riflessi è forse possibile riscontrare anche nella pittura di Guido Reni.
Quanto ai possibili modelli che potrebbero aver ispirato il Sansone vittorioso, si può partire, anzitutto, dalla statuaria classica. La posa del Sansone di Guido Reni s’ispira infatti a quella del celeberrimo Apollo del Belvedere, copia romana di un bronzo dell’artista greco Leocare scoperta alla fine del Quattrocento e sistemata poi nel Cortile del Belvedere in Vaticano, mentre il braccio sinistro appoggiato sul fianco recupera quello del gruppo del Laocoonte. Si potrebbe poi menzionare un’opera di Michelangelo, il Genio della Vittoria, scultura del 1534 conservata attualmente a Firenze presso Palazzo Vecchio, dalla quale il pittore bolognese avrebbe ripreso la posa della gamba poggiata sopra il nemico sconfitto. Del resto Guido Reni conosceva le opere di Michelangelo: a partire dal 1600, infatti, il pittore si recò spesso a Roma, e nella capitale dello Stato Pontificio soggiornò anche per lungo tempo, ovvero fino al 1614, anno del suo definitivo ritorno a Bologna. A Roma, Guido Reni ebbe commissioni importanti ma ebbe anche modo di studiare da vicino le opere dei maggiori artisti del Rinascimento oltre che dei grandi contemporanei, Caravaggio su tutti (senza lo studio dell’opera di Michelangelo Merisi non si potrebbero spiegare certi elementi della Crocifissione di san Pietro conservato presso la Pinacoteca Vaticana, realizzato tra il 1604 e il 1605 e che presenta evidenti analogie con l’omologo dipinto realizzato da Caravaggio per la Cappella Cerasi in Santa Maria del Popolo a Roma). Guido Reni riprende poi opere proprie: la posa di Sansone è la stessa del Narsete vittorioso su Totila dipinto pochi anni prima, nel 1612, nella Cappella Paolina della basilica di Santa Maria Maggiore a Roma (una delle importanti commissioni cui s’è fatto riferimento), mentre i due filistei riversi a terra richiamano i bambini nell’angolo in basso a sinistra della Strage degli innocenti, opera del 1611.
L’antichità, nell’opera di Guido Reni, è filtrata attraverso l’esempio di Raffaello, che come Guido Reni era condotto dal principio ispiratore del bello ideale (per i contemporanei, peraltro, Guido Reni era una sorta di nuovo Raffaello), e se Raffaello rendeva moderna l’antichità, allo stesso modo Guido Reni rendeva moderno il Rinascimento, rileggendolo attraverso le conquiste contemporanee dei Carracci e di Caravaggio, raggiungendo dunque, più spesso di quanto si potrebbe immaginare, vertici d’inatteso naturalismo, che comunque non si confonde con la realtà ed è sempre stemperato da quel linguaggio cristallino, armonioso, terso che è proprio della pittura reniana. Secondo Cesare Gnudi, nessun artista nel Seicento aveva compreso Raffaello più di Guido Reni, e la modernità del suo classicismo sta anche nei modi più “filtrati e letterari” che erano tipici di tutti quegli artisti desiderosi di tornare alle regole classiche in epoche di crisi per dare spazio a una misura in cui potesse tornare la bellezza.
“Se il ritornello della generazione precedente era stato che ogni rivoluzione impone un ritorno alla natura”, ha scritto Andrea Emiliani, “la proposta di Guido è quella di una solida regola culturale, di una norma poetica capace anche di tornare ad affrontare un antico problema, quello della universalità della lingua che proprio da Roma si muoveva”. Il programma di Guido Reni era dunque diverso rispetto a quello di Ludovico Carracci (che guardava alla quotidianità) o a quello di Annibale Carracci (nelle cui opere il classicismo, alieno da sentimenti nostalgici, mirava comunque alla verità): la sua pittura è colma d’un idealismo limpido che ammette aperture al naturalismo per far vivere quel “teatro della natura neoplatonica” in cui, citando ancora Emiliani, “si prepara a irrompere il fine dichiarato, insostituibile, della virtuosa bellezza”.
Il Sansone vittorioso, malgrado le sue peculiarità e la sua modernità, rimase “senza seguito nell’ambiente pittorico bolognese che a queste date seguiva prevalentemente lo stile di Ludovico Carracci”, come ha scritto la studiosa Giovanna Degli Esposti, “e dunque non era in grado di comprenderne la peculiare realtà poetica e lo stesso Malvasia, del resto, si limita a lodarne il disegno senza peraltro dedicarle molta attenzione”. Eppure, questo sostanziale isolamento dell’opera forse più straordinariamente classica del repertorio reniano non deve muovere a sorpresa, così come non è strano che il successo “commerciale”, per così dire, arrise più ai Carracci che a Guido Reni. In occasione della prima, importante mostra su Guido Reni, curata da Cesare Gnudi e Gian Carlo Cavalli nel 1954 a Bologna, nelle sale dell’Archiginnasio, lo stesso Cavalli partì proprio dal Sansone vittorioso per soffermarsi sulle cause di tale isolamento, in un periodo in cui l’artista rafforzava il suo idealismo classicheggiante puntando “affascinato dalla segreta armonia dei marmi antichi, ad un mondo statuario in cui il rapporto con la natura possa trovare una misura assoluta”. Fatto è che l’artista proponesse una “pittura letterata e colma di ‘stile’” che si rivolgeva a clienti sofisticati con un’arte che nasceva tutta nella mente e che veniva proposta “in tempi non classici ma di Controriforma”: era però una pittura sostenuta sempre da una “meditazione cosciente, incline ad operare in forme razionali e riflesse entro la vita dei sentimenti”. E oggi la riconosciamo tra le punte più avanzate della sua epoca.
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ISCRIVITI ALLA NEWSLETTERGli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
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