Conosciamo buona parte della vicenda biografica di Guido Cagnacci, il grande artista romagnolo, grazie a un nucleo di lettere e documenti raccolti alla metà del Settecento da un pittore di Rimini, Giovanni Battista Costa, che definì Cagnacci un “eccellente dipintore” fornito di “talenti meravigliosi”, la cui reputazione fu tuttavia insozzata dai racconti che correvano sulle “bocche volgari”. E sebbene le dicerie sul suo conto non gli avessero impedito d’esser chiamato dall’imperatore Leopoldo I alla corte di Vienna, dove Guido morì nel 1663, la sua pessima fama probabilmente ne determinò la sfortuna critica, fino alla completa riabilitazione nel Novecento.
Fu un singolo episodio a condizionare la vita e la carriera artistica di Guido Cagnacci: nel 1628, l’artista aveva scambiato una promessa di matrimonio con la contessa Teodora Stivivi. I due innamorati progettarono una fuga insieme per convincere i genitori di lei ad acconsentire allo sposalizio, ma il piano fu sventato dagli sbirri pontifici, che catturarono Teodora: in attesa di trovare i cavalli per partire, Guido l’aveva portata in casa di suo padre Matteo, che però denunciò la sua presenza alla curia. La giovane fu così tratta in arresto dal bargello del vescovo e segregata in un convento per volontà della sua famiglia. Ne sarebbe uscita un paio d’anni più tardi, a condizione di sposare un parente d’egual condizione, che avrebbe salvato l’onore di Teodora, ma soprattutto la sua cospicua dote e la rendita che le era stata lasciata dal defunto primo marito. Guido tentò per anni di far valere le sue ragioni in sede processuale, senza riuscirci e, anzi, ottenendo di venir diseredato dal padre.
L’eco dello scandalo continuò a seguire il pittore ovunque si recasse: gli allontanò le simpatie dei committenti, gli procurò minacce, e gli appioppò probabilmente una fama da corruttore di giovani, che l’artista non riuscì a scrollarsi di dosso. Era vero, comunque, che Guido Cagnacci avesse una certa confidenza col genere femminile, oltre che uno sconfinato amore per le donne: non si spiegherebbero altrimenti quei corpi muliebri così vivi, palpitanti, seducenti, procaci, frementi che popolano i suoi capolavori. Cleopatre, Lucrezie, Maddalene, sante, eroine della mitologia e della storia che s’offrono al riguardante con quelle “tette turgide da salumiera” e quella “pelle piena di salute al burro” di cui parlava Arbasino in Fratelli d’Italia ricordando la Morte di Cleopatra della Pinacoteca di Brera. Quest’immagine d’una bellezza gastronomica, terrena, estremamente fisica, si potrebbe estendere a tutte le donne dei capolavori di Guido Cagnacci. Anche quando la donna è una santa che ascende alle sfere della divinità, come la Maddalena portata in cielo ch’è sempre stata tra i dipinti più lodati del pittore di Santarcangelo. Ne realizzò due versioni: la più antica è quella della Alte Pinakothek di Monaco di Baviera, in deposito al castello di Schleissheim in Germania, mentre la più recente, e probabilmente la più riuscita, è quella che s’ammira nella Sala di Marte in Palazzo Pitti, a Firenze.
Guido Cagnacci, Maddalena portata in cielo (1640 circa; olio su tela, 162,5 x 122,8 cm; Monaco di Baviera, Alte Pinakothek, in deposito presso il castello di Schleissheim, inv. 542) |
Guido Cagnacci, Maddalena portata in cielo (1642-1645 circa; olio su tela, 192,5 x 138,5 cm; Firenze, Palazzo Pitti, Galleria Palatina, inv. 1912 n. 75) |
I commentatori antichi e quelli moderni son tutti concordi sulla forza di quest’immagine. Vale anche per i detrattori, che condannando le licenze di Guido Cagnacci paradossalmente hanno esaltato l’originalità della sua invenzione: nel 1838, un accademico della Crusca, Giovanni Masselli, pur riconoscendo a Cagnacci il merito d’aver dipinto le figure “con mirabile impasto e con tinte che molto rassomigliano al vero” e di aver dato “bel rilievo alle parti, colla ben intensa collocazione di pochi lumi sulle parti più rilevate, e colla non men giudiziosa distribuzione delle mezze tinte e delle ombre”, condannava le “libertà capricciose” del pittore romagnolo, e in particolare “quell’angelo” che “non potrà esser lodato da veruno che ami nella pittura la convenienza e il decoro”. In effetti, nella Maddalena portata in cielo si dispiega una delle soluzioni più audaci dell’artista: la santa, completamente nuda e con solo un velo sottile che le fascia la vita, con la chioma fulva che le scende sul corpo lasciando però in evidenza i suoi capezzoli rosei ed esaltando le tonalità perlacee della sua pelle, viene condotta verso il paradiso da un angelo che la sostiene tenendola sotto le cosce, colto mentre volge lo sguardo verso le sue terga. La scena si svolge nel cielo, ma c’è poco d’etereo e di spirituale: la Maddalena di Cagnacci è un’ode alla fisicità, ed è una delle Maddalene più carnali della storia dell’arte. Un groviglio di corpi, un intreccio di carni, una presenza fisica evidenziata non solo dalla forza delle gambe dei due protagonisti, che occupano buona parte del registro inferiore della composizione, ma anche dagli arrossamenti delle dita e delle guance, da quel volto così vero e naturale, dalla spontaneità dei gesti. Nella storia dell’arte non esiste niente che sia anche solamente avvicinabile a questa mirabile e sorprendente invenzione cagnaccesca.
E non c’è soltanto il suo amore per le donne a giustificare questa e altre immagini: c’è la centralità del corpo umano, comune a tutta l’arte secentesca, che Cagnacci percepisce secondo la propria sensibilità di “pittore erotico”, come lo ha definito Antonio Paolucci. “Erotico” nel senso letterale del termine, perché come nessun altro l’artista romagnolo avvertì l’eros che pulsa nel cuore e nel sangue dei suoi soggetti. Non è peraltro raro trovare, nel Seicento, donne audaci anche in dipinti sacri: si pensi alla Tentazione di san Francesco di Vouet nella cappella Alaleoni di San Lorenzo in Lucina a Roma.
Di sicuro, poi, c’è anche la sintonia con una committenza che non disdegnava nudi femminili giustificati dalla necessità di render veritiero il soggetto storico, sacro o religioso: e Guido Cagnacci era un formidabile dissimulatore. La Maddalena, nella versione monacense, era stata vista da Costa nella raccolta del senatore bolognese Angelelli (che poi la cedette all’elettore palatino: ecco perché oggi si trova in Germania), e aveva scritto che “il Cagnacci, quando per tant’altre sue riguardevoli opere celebrato non fosse, il sarebbe unicamente per questa, tale è la bellezza di questo quadro in molti generi di perfezione”. Più di recente, Daniele Benati, in occasione della grande mostra monografica su Cagnacci del 2008 a Forlì, ha riconosciuto che l’artista aveva compiuto “un salto enorme” rispetto alla produzione precedente nel periodo in cui dipingeva la Maddalena portata in cielo: un periodo in cui Cagnacci, ha scritto lo studioso, si stava orientando “verso soluzioni di straordinaria potenza e forza comunicativa”. Per la sua Maddalena, di sicuro aveva guardato a Simone Cantarini, l’eccentrico e rissoso pittore pesarese che col suo San Giacomo in gloria aveva operato una straordinaria fusione tra le arie cristalline e la misura classica di Guido Reni e il naturalismo ricavato osservando i pittori della sua terra, le Marche. È reniana anche la partitura cromatica su cui Guido Cagnacci imposta la sua Maddalena, specialmente nella più lucida e brillante versione tedesca. La versione fiorentina si distingue invece per quei suoi effetti meteorologici più intensi, per il chiaroscuro più accentuato, e volendo anche per un più vivo naturalismo: l’opera arrivava a Firenze nel 1705 e, in una lettera, il gran principe Ferdinando de’ Medici la elogiava in quanto “ben conservata, di colore freschissimo e ben disegnata”. E mi suggerisce Giuseppe Adani che il sottinsù, le gambe sospese, il cielo coperto di nubi, hanno una matrice correggesca: una forza che il romagnolo Cagnacci trae dalla terra in cui nacque l’emiliano Allegri, rivisitando le novità che il Correggio consegnò alla storia della pittura.
Benati aveva intitolato il suo saggio “il corpo e l’anima”: e oggi, noi ammiriamo questa Maddalena e la annoveriamo tra i prodotti più alti dell’arte secentesca non soltanto perché ci sentiamo vicini a quella donna così viva, ma anche perché forse nessun altro pittore del tempo aveva saputo operare, in termini tanto alti e al contempo tanto terreni, quella fusione tra corpo e anima ch’è uno dei temi filosofici e teologici più avvertiti del secolo. E che s’avverte tutta in quella santa così fisicamente presente e così desiderosa di salire al cielo.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).