Reca la data del 17 ottobre 1786 la visita a Cento di Johann Wolfang Goethe, opportunamente ed estesamente appuntata nella sua Italienische Reise. Il grande letterato, giunto in questo operoso lembo di Pianura padana in una mite sera d’autunno velata di nubi innocue, vi aveva trovato una cittadina gradevole, pulita, animata, immersa in una terra fertile, e specialmente vi aveva trovato la patria del Guercino: un nome che a Cento, annotava Goethe, correva sulla bocca di tutti, giovani e vecchi, come quello d’un santo. E di quell’artista così “profondamente e virilmente esperto, sano, senza crudezza”, come lo descrisse Goethe, con gli aggettivi qui riportati dalla traduzione del Viaggio in Italia di Eugenio Zaniboni, lo scrittore aveva apprezzato soprattutto uno di quei lavori che hanno “grazia gentile e onesta, una libertà e una grandiosità pari alla compostezza, e poi quel carattere peculiare, che ce li fa riconoscere a prima vista, una volta che l’occhio si sia addestrato”.
Era il Cristo risorto che appare alla madre: Goethe l’aveva visto nel luogo per il quale fu dipinto, l’oratorio della Compagnia del Santissimo Nome di Dio, mentre oggi noi lo ammiriamo nelle sale della Pinacoteca Civica. Nel mezzo, una storia non così tranquilla: il 6 luglio del 1796, all’arrivo in città dei due commissarî napoleonici che l’erudito locale Gaetano Atti menziona nel Sunto storico della città di Cento come “Ciney” e “Berthollet” (con tutta probabilità i pittori Jacques-Pierre Tinet e Jean-Simon Barthélemy), il dipinto fu razziato assieme ad altri che adornavano le chiese della città natale del grande Giovanni Francesco Barbieri, per esser trasferito in Francia. Arrivò a Parigi il 31 luglio dell’anno successivo, e dal 1798 fu esposto al Louvre: solo nel 1816, con la Restaurazione, il quadro poté tornare a Cento, e fu dapprima sistemato nell’oratorio di San Rocco, per poi trovare definitiva collocazione, nel 1839, nella Pinacoteca Civica, che apriva al pubblico quell’anno.
Tanti aggettivi son stati spesi per descrivere questo quadro così toccante, così intenso, così sentito. Il Guercino vi narra l’apparizione di Cristo alla Vergine, subito dopo la Resurrezione, in un episodio che non compare nei vangeli canonici, ma che si legge in un apocrifo, il vangelo di Gamaliele, e che riscosse un certo credito presso i teologi del Medioevo: Gesù è dipinto col consueto vessillo crocesegnato, l’attributo iconografico d’origine medievale, simbolo di vittoria, che lo identifica come colui che ha trionfato sulla morte. È colto in un elegantissimo e classico contrapposto, avvolto dal manto ventilante ch’è mosso dallo stesso refolo che fa svolazzare lo stendardo e scompagina il libro che la giovanissima Vergine stava leggendo. Lei s’inginocchia, si getta sul corpo scultoreo e monumentale del figlio, con la mano destra gli accarezza l’addome tornito e ferito, fa scorrere le sue dita affusolate sulla pelle perlacea di Gesù, e lui ricambia il gesto abbracciando affettuosamente la madre, rimanendo in piedi dinnanzi a lei. Maria non tradisce l’emozione: lo sguardo è trepido e colmo di profonda malinconia, gli occhi gonfi e umidi, la bocca s’apre in una smorfia angosciata. Lui la guarda serio e compassionevole, gli occhi bassi e fissi su di lei, il volto quasi imperturbabile, ma parimenti velato di tristezza: l’atteggiamento e la posa sono quelli del figlio di Dio che s’è sacrificato per gli uomini, ma il gesto della mano sinistra, la lieve carezza che sfiora le spalle della madre dai tratti delicati e quasi adolescenziali, e la cupezza che adombra il volto, sono quelli del figlio che ricambia commosso l’amore materno e che non fa mancare alla mamma la sua pietas filiale.
Guercino, Cristo risorto appare alla Madre (1628-1630; olio su tela, 260 × 179,5 cm; Cento, Pinacoteca Civica) |
Goethe fu intimamente colpito dall’intensità del momento raffigurato dal Guercino, dalla posa del Cristo “oltre ogni dire seducente”, da quello scambio d’occhiate tra Gesù e la madre, così vivido, struggente e palpitante: “Lo sguardo muto e dolorante, col quale egli la contempla, è unico: quasi che il ricordo dei dolori suoi e dei dolori di lei, non ancora sanato dalla resurrezione, aleggi tuttavia innanzi a quel nobile spirito”. Altri commentatori si dimostrarono rapiti dalle cromie, dai contrasti di luce e ombra, dal vigore della macchia guercinesca: Francesco Algarotti, che ne parlò in una lettera scritta il 27 settembre del 1760 all’ingegnere Eustachio Zanotti, lo descrisse come un “bellissimo dipinto”, sostenuto da un disegno “ricercatissimo”, dalla “soavità” e dalla “forza” delle tinte, asserendo di non aver “mai veduto due figure meglio campeggiare in un quadro”, e dove “quella forza del lume, che dà tal risalto agli oggetti, si accorda a meraviglia col vero”. Il “gran contrasto di luce e di ombra, l’una e l’altra arditamente gagliarde, ma miste a gran dolcezza per l’unione, e a grande artifizio per rilievo”, fu ammirato anche dall’abate Luigi Lanzi, che incluse il dipinto nella sua Storia pittorica dell’Italia dal Risorgimento delle belle arti fin presso al fine del XVIII secolo, pubblicata nel 1796. E tra gli entusiasmi più recenti figura quello del gran studioso del Guercino, Denis Mahon, che nel Cristo risorto che appare alla madre leggeva gl’inizî della fase più “classica” del centese, contraddistinta da una marcata tensione all’idealizzazione e alla semplificazione che gli derivava da “un’accettazione pressoché completa”, scriveva Mahon, “delle regole della teoria classica”, e poi da figure più monumentali, da un naturale più misurato.
Il dipinto, lo sappiamo dal Libro dei conti dell’artista, fu terminato nell’anno 1630, in un periodo a partire dal quale si potrebbero far risalire i prodromi dell’avvicinamento a Guido Reni: tema su cui gli studiosi hanno a lungo dibattuto. E proprio in questo torno di tempo, e più precisamente il 23 luglio del 1629, il cardinal Bernardino Spada, legato pontificio a Bologna, visitò lo studio del Guercino, raccomandando il pittore a Maria de’ Medici per gli affreschi del Palais de Luxembourg in luogo dello stesso Reni, dacché, scriveva il prelato, “il Guercino da Cento […] appresso Guido è grandemente simato et adoprato in Italia” e “per essere d’età più fresca e di natura più assidua al lavoro, potrebbe non solamente resistere a la grandezza de l’opera desiderata da V.M., ma anco spedirla assai più presto; e per havere un dissegno vigoroso et un colorito di grandissima forza e vivezza, vien judicato da ogn’uno, e da Guido istesso, attissimo a rappresentamenti di battaglie e d’attioni grandi e maestose”. Spada aveva ben colto la differenza che separava il Guercino da Guido Reni: per quanto il Barbieri si fosse avvicinato al maestro bolognese, per quanto le sue figure avessero acquisito un’inusitata dimensione statuaria, per quanto anche le pose tendessero a rivelarsi molto più costruite di quanto non fosse per lui usuale, mai le sue opere giunsero al grado d’astrazione verso cui seppe spingersi il Reni.
La sua arte non cedeva alla tentazione d’imitare l’antico, e al contempo rimaneva saldamente legata al reale, al veridico: quell’“elemento umano” che, per Mahon, aveva progressivamente abbandonato l’arte di Guido Reni, in Guercino rimaneva ancora elemento saldamente distinguente. Daniele Benati ha ben evidenziato come non risulti alcunché di reniano nella “scarna attrezzeria ‘di scena’ adottata per aggettivare il racconto”: gli arrossamenti delle mani e del volto della Vergine e la prestanza fisica di Gesù pertengono al mondo del reale, quasi del popolaresco. E probabilmente si può dire lo stesso della sincerità degli affetti, della verità coinvolgente dei gesti, di quel “teatro dei sentimenti” su cui lo stesso Benati ha scritto a lungo per riferirsi all’arte del Guercino, tanto da imbastirvi una porzione ben significativa della grande mostra di Palazzo Farnese a Piacenza del 2017. Un teatro, ha rammentato lo storico dell’arte emiliano, “in cui l’azione, fermata nel suo culmine, si può effondere in puro sentimento, come avveniva nel coevo melodramma, capace di restituire anche le passioni più estreme ma nello stesso tempo di stemperarle in momenti di commovente bellezza”. Un teatro che, in questo dipinto, assume anche un’evidenza concreta con la grande tenda scostata, quasi fosse un sipario, nell’angolo destro della composizione. Un teatro che forse trova nel capolavoro della Pinacoteca di Cento la sua più divina espressione.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).