Per risalire alle origini della Biblioteca Universitaria di Pavia occorre andare indietro fino al 1754, quando l’istituto venne fondato da Maria Teresa d’Austria nell’ambito della sua riforma del sistema universitario e di quello dell’istruzione pubblica del Ducato di Milano allora governato dagli Asburgo d’Austria: nel 1763 l’incarico di direttore fu affidato a Gregorio Fontana che sistemò i libri presso il Collegio Ghislieri e nel 1772 aprì la Biblioteca al pubblico, prima di trasferire il tutto nei locali del nuovo palazzo universitario che, a partire dal 1778, anno a cui si fa risalire la nascita “ufficiale” della biblioteca, avrebbero accolto quella che allora si chiamava la “Imperial Regia Biblioteca Ticinese”. Uno dei vanti della Biblioteca Universitaria di Pavia è sempre stata la sua raccolta di libri scientifici: nonostante l’istituto si fosse formato incamerando librerie private o ecclesiastiche, la preferenza fin da subito fu accordata ai testi scientifici e per circa un secolo la Biblioteca continuò ad arricchirsi con acquisizioni che assicuravano l’aggiornamento sui temi più attuali e fornivano all’istituto gli strumenti più moderni a sostegno dello studio e della ricerca universitaria.
Entrarono così a far parte della biblioteca il fondo del medico e botanico Albrecht von Haller, che includeva volumi di storia naturale, botanica, fisica, chimica, farmacopea, anatomia umana e fisiologia, e al quale seguì la biblioteca di Carlo Giuseppe di Firmian, governatore generale della Lombardia austriaca dal 1771 al 1782, che includeva numerosi libri di scienze naturali e di medicina, e poi ancora la biblioteca del medico Joseph Frank, quella del vice prefetto dell’Orto Botanico di Pavia, Giuseppe Moretti, specializzata in scienze naturali, parte della biblioteca del naturalista Santo Garovaglio, specializzata invece in botanica, la biblioteca del medico Alfonso Corradi, che includeva una ricca sezione di storia della medicina. Non ultimo, entrava a far parte della biblioteca, nel 1840, il fondo Aldini, ovvero il nucleo dei libri dell’accademico e bibliografo Pier Vittorio Aldini (Cesena, 1773 - Pavia, 1842), il quale nel 1830 decise di vendere, per ragioni di carattere finanziario, la sua importante raccolta di manoscritti: l’allora direttore della Biblioteca Universitaria, Luigi Lanfranchi, che era ben consapevole del valore della collezione, avviò una trattativa con il governo austriaco, che durò per ben dieci anni ma alla fine si risolse positivamente, dal momento che nel 1840 l’amministrazione della Lombardia austriaca concesse un contributo straordinario per acquistare i manoscritti di Aldini. Questa preziosa raccolta include 583 codici: benché prevalgano i testi di argomento religioso, una grande importanza rivestono gli erbari antichi presenti nel fondo.
Il più singolare è di sicuro l’Aldini 211: si tratta di un codice membranaceo del XIV secolo, scritto a piena pagina, con rigatura tracciata a inchiostro e scrittura in minuscola gotica, titoli in rosso, e lettere iniziali dei paragrafi grandi in rosso e azzurro. La particolarità di questo erbario, copia di un Herbarium anonimo del Duecento che raccoglie conoscenze e leggende circa le proprietà terapeutiche di decine di piante diverse, sta nel suo ricco apparato iconografico: la trattazione è infatti alternata a 154 disegni policromi, che spesso occupano la pagina intera, e raffigurano le erbe affrontate nel testo. In diversi punti, peraltro, le carte furono raschiate con la pietra pomice per ragioni di censura, come indica la frase prohibitum est posta talvolta sopra la scrittura abrasa.
L’Aldini 211 è un codice che si distingue soprattutto per il suo valore storico: nel testo sono frequenti le citazioni di medici e scienziati, che denotano la buona cultura di chi ha compilato il testo, nonostante il latino adoperato nella trattazione appaia talvolta claudicante. L’apparato illustrativo è costituito da disegni a volte realistici e altre invece fantastici: spesso infatti tra le raffigurazioni delle piante compaiono mani, volti e anche animali di fantasia (draghi, per esempio), che ci trasmettono la vastità delle credenze medievali sulle piante, situate a metà tra scienza e magia. Della mandragora, per esempio, l’autore scriveva che era usata esternamente come antiflogistico (ovvero come antinfiammatorio) e analgesico, applicando le sue foglie sulle parti infiammate o dolorose, e che il suo uso interno era considerato tossico. Tuttavia, secondo quanto scritto nell’Herbarium, il succo della corteccia della radice poteva essere adoperato come forte purgante e, se mescolato al vino, aveva anche proprietà anestetiche per amputare parti del corpo senza provare dolore. Inoltre, l’autore dell’Herbarium afferma che la mandragora aveva un odore molto sgradevole, al punto che respirare i suoi effluvi avrebbe potuto far diventare pazzi. L’Aldini 211 raffigura la mandragora con le forme di un uomo, con un disegno decisamente particolare: la parte più alta infatti è occupata da foglie e bacche, la radice ha la forma di un corpo virile, è tracciata a penna e ombreggiata ad acquarello, mentre ai piedi della radice umanizzata si nota un cane che estirpa la mandragora, e sulla destra vediamo anche il suo padrone, in ginocchio, con le orecchie tappate per non sentire le urla mortifere della pianta.
Più vicini al nostro modo di studiare e conoscere le piante sono due manoscritti più recenti, l’Aldini 528 e l’Aldini 533. Il primo è un manoscritto cartaceo, legato in cuoio rosso a fregi d’oro, che trasmette l’Iconographia nollullarum herbarum (“Iconografia di alcune erbe”) di Damiano Mascaroni, monaco della certosa di Pavia che compilò nel 1779 questo erbario, dipingendo personalmente ad acquerello cento tavole di fiori ed erbe tipici del territorio pavese, e dedicandolo al priore della certosa stessa, padre Arsenio Quintieri. Si tratta di un’importante opera realizzata con l’intento di documentare l’aspetto di alcune piante: il frontespizio dell’opera, in lettere capitali, è racchiuso in una cornice sui colori del rosa e del giallo, mentre l’interno presenta, su ogni carta, la raffigurazione a tutta pagina una pianta medicinale, con la didascalia esplicativa nel margine inferiore, interno o esterno. Il testo è importante anche perché si tratta di una delle prime opere in cui le piante vengono illustrate con il nome che segue la classificazione di Linneo: il botanico svedese Carl Nilsson Linnaeus (Rashult, 1707 - Uppsala, 1778), divenuto poi Carl von Linné e italianizzato in Carlo Linneo, introdusse nel 1735 il sistema di nomenclatura binominale delle piante, tuttora in vigore, che prevede l’utilizzo di due nomi per classificare piante, animali e minerali, il primo riferito al genere di appartenenza e il secondo alla specie.
L’opera di Mascaroni si distingue per lo spiccato realismo con cui il monaco disegnò le piante (si veda per esempio l’illustrazione dell’Achillea millefolium). L’Aldini 533 riporta invece un Herbarium che accoglie 84 raffigurazioni di piante ed erbe, una su ogni carta, recto e verso (ovvero sul fronte e sul retro). La particolarità di questo codice sta nel fatto che si tratta di un “erbario a impressione” (o erbario impresso): si chiamano così quegli erbari in cui le immagini delle piante venivano realizzate con l’utilizzo di veri campioni vegetali di foglie o rami, che venivano poi affumicate con una sorgente (il più delle volte una candela), e quindi compresse su di un foglio di carta in modo che si conservasse una perfetta riproduzione dell’originale. Terminata questa operazione, l’originale veniva gettato e il foglio conservava una sua impressione, che talvolta poteva essere colorata affinché risultasse più verosimile (si cercava infatti di imitare il più possibile gli originali). Si riteneva che gli erbari impressi fossero più scientificamente affidabili degli herbarii picti, ovvero quelli in cui l’illustrazione veniva semplicemente disegnata. Le didascalie dell’Aldini 533 sono vergate da un’unica mano che scrive prevalentemente in lettere capitali, talvolta in umanistica. La data di compilazione stimata è il 1525-1530, sulla base dello studio dei pigmenti e della tecnica adoperata per realizzare le raffigurazioni delle piante e delle erbe medicinali. L’allestimento di questo codice si inserisce nella produzione di erbari nel periodo fra il 1530 e il 1550, fondamentale per l’evoluzione delle collezioni botaniche.
Altri due erbari, infine, meritano una menzione. La Biblioteca Universitaria di Pavia conserva un incunabolo dell’Hortus sanitatis di Johannes de Cuba (Johann von Wonnecke Caub; 1430 - 1503), pietra miliare dell’editoria botanica in quanto tra le prime opere di botanica a essere stampate (a Magonza, nel 1491, da Jacob Meydenbach). Il libro fu scritto in latino perché rivolto principalmente a un pubblico europeo, venne stampato in formato in folio (circa 50 centimetri), e alla prima stampa seguirono anche tre riedizioni e una traduzione in francese. L’Hortus sanitatis veniva utilizzato da medici e speziali italiani e stranieri, ed era ornato da moltissime xilografie sui regni animale vegetale e minerale che, nell’esemplare della Biblioteca Universitaria di Pavia, sono colorate a mano. La trattazione si compone di cinque libri: De Herbis, con 530 capitoli dedicati a piante ed essenze botaniche; De Animalibus, 164 capitoli sugli animali, aperti da una sezione sull’essere umano; De Avibus, 122 capitoli sugli uccelli e altri animali associati all’aria; De Piscibus, 106 capitoli su pesci e animali acquatici; De Lapidibus, 144 capitoli su pietre e minerali. Sui margini dell’esemplare della Biblioteca Universitaria di Pavia ci sono note manoscritte che rivelano quanto i lettori fossero coinvolti dalla descrizione dei regni naturali: le informazioni medievali, necessariamente incomplete, da verificare e sistematizzare, invogliavano infatti i lettori a confrontarle con le loro conoscenze e poi a intervenire sul testo. Lo facevano medici e speziali ma anche persone semplicemente interessate a scoprire le proprietà terapeutiche delle piante: il grande formato del volume e i margini generosi bene si prestavano a raccogliere i risultati del confronto.
È invece più tarda la Pomona italiana, un’opera monumentale con 152 schede pomologiche (la pomologia è lo studio dei frutti) e 160 acquetinte realizzate da numerosi artisti liguri e toscani fra i quali alcune donne, sotto la supervisione del suo autore, Giorgio Gallesio (Finalborgo, 1772 – Firenze, 1839). La Pomona italiana fu un’impresa editoriale senza precedenti per il nostro paese: descrive e raffigura infatti “le varietà più squisite degli alberi da frutto coltivati in Italia”, come si legge nel testo, fu stampata su carta pregiata e decorata con finiture di alta qualità, tanto che il costo era proibitivo per la maggior parte delle persone, anche per le classi agiate (la Pomona italiana fu infatti stampata in poche decine di copie). Il trattato, stampato a Pisa da Amoretti con prima uscita del 1817 (ma le varie dispense uscirono a più riprese fino al 1839, anno in cui venne data alle stampe la quarantunesima, e l’opera era ancora incompleta), offre la rappresentazione più completa delle varietà frutticole italiane che erano presenti nel nostro paese nel primo Ottocento, e riveste altresì una notevole importanza documentaria e tassonomica per conoscere lo stato della pomologia all’epoca in cui il trattato fu compilato.
La Biblioteca Universitaria di Pavia, una delle più antiche d’Italia, cominciò a lavorare nel 1754 come biblioteca ausiliaria dell’Università di Pavia, ma iniziò ad avere una propria fisionomia solo nel 1763 quando il primo direttore, il matematico Gregorio Fontana, diede disposizione di raccogliere i libri presso il Collegio Ghislieri, che diventava di fatto la prima sede della biblioteca, aperta al pubblico nel 1772. Con il trasferimento nel nuovo Palazzo Centrale dell’Università, terminato nel 1778, la biblioteca, che allora si chiamava “Imperial Regia Biblioteca Ticinese”, inaugurava ufficialmente. La prima sede dell’istituto fu il Salone Teresiano (la biblioteca fu infatti fondata da Maria Teresa d’Austria nell’ambito delle sue riforme dell’istruzione e del sistema universitario), dove in pochi decenni vennero radunati circa cinquantamila volumi, acquistati grazie alle risorse messe a disposizione dal governo della Lombardia austriaca. Dopo l’Unità d’Italia, la biblioteca perse in parte il suo legame con l’ateneo pavese a causa di nuovi regolamenti e a causa dell’istituzione delle varie biblioteche di facoltà che andarono a soppiantarne le funzioni. Oggi, la Biblioteca Universitaria di Pavia è uno degli istituti periferici del Ministero della Cultura.
L’attuale patrimonio librario consta di oltre 500.000 volumi, tra cui 1.404 manoscritti, 1.153 pergamene, 711 incunaboli, 7.000 cinquecentine, oltre 8.000 gride, più di 3.000 stampe, un migliaio di carte geografiche. Tra i pezzi più pregiati figurano un manoscritto di 81 carte con la trascrizione dell’Enchiridion di Sant’Agostino risalente all’XI secolo e un messale romano del XIV secolo, entrambi collocati nel fondo Aldini; gli incunaboli dell’Opera di Lattanzio e dell’Hypnerotomachia Poliphili; le lettere di Ugo Foscolo, Vincenzo Monti, Pietro Metastasio, Ippolito Pindemonte, Camillo Benso di Cavour; il fondo dei libri rari, 160 volumi molti dei quali risalenti al Cinquecento; la raccolta di stampe; il Tractatus de venenis di Pietro d’Abano, parte del lascito di Santo Garovaglio; il fondo Marinetti, arrivato alla biblioteca tra il 1913 e il 1916, quando Filippo Tommaso Marinetti, che frequentò per qualche tempo l’ateneo di Pavia, donò all’istituto 42 manifesti futuristi, alcune sue pubblicazioni, e le pubblicazioni di altri poeti aderenti al movimento quali Folgore, Buzzi, Papini, Palazzeschi, D’Alba, Govoni, Chiti.
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