di
Federico Giannini, Ilaria Baratta
, scritto il 21/01/2020
Categorie: Opere e artisti / Argomenti: Giuseppe Penone - Arte contemporanea
Fino al 2 febbraio 2020, la chiesa di San Francesco a Cuneo e il Castello di Rivoli ospitano la mostra “Giuseppe Penone. Incidenze del vuoto”, a cura di Carolyn Christov-Bakargiev, e promossa dalla Fondazione CRC di Cuneo assieme al Castello di Rivoli. In questo articolo, una lettura unitaria delle opere in mostra secondo la prospettiva del rapporto natura-cultura nell’arte di Giuseppe Penone.
“Una divisione netta tra umano e natura è una visione forzata dalla realtà”. Lo diceva Giuseppe Penone (Garessio, 1947) alla storica dell’arte Arabella Natalini in una conversazione pubblicata nel catalogo della sua mostra personale Prospettiva vegetale tenutasi nell’estate del 2014 al Forte di Belvedere a Firenze. Fin dai suoi esordî, avvenuti alla fine degli anni Sessanta, Penone ha sempre considerato la natura, la cultura e l’essere umano come delle entità connesse e indivisibili, e la scultura come una sorta di mezzo per esprimere tali connessioni. Il punto di partenza di questa riflessione era molto pratico, se vogliamo: il tema del rapporto con la natura era stato toccato marginalmente dall’arte del Novecento. Ed era un tema che interessava poco o niente le avanguardie: “tutta l’arte del Novecento”, affermava in quel contesto Penone, “è un’arte che si è sviluppata nell’atelier, in un contesto urbano, in una dimensione completamente cittadina”. Ed è solo negli anni Sessanta che si sviluppa l’idea di un ritorno alla natura nonché a una “visione delle cose molto più aperta e meno vincolata all’idea di un progresso dell’opera d’arte”. Questo ritorno, tuttavia, presupponeva anche un nuovo metodo di lavoro: l’opera d’arte non era più un oggetto staccato dal contesto, ma diventava parte stessa del contesto, e la materia non più solo un mezzo, ma oggetto stesso della riflessione dell’artista. Il rapporto tra natura e cultura è, del resto, centrale non solo per Penone ma per pressoché tutti gli artisti che animarono il movimento dell’Arte Povera, di cui lo scultore piemontese fa parte fin dagli albori: “povera”, secondo il termine coniato nel 1967 dal critico d’arte Germano Celant, in quanto presuppone una atteggiamento (inteso non soltanto come pratica artistica, ma anche nel senso letterale di modo di comportarsi) che “predilige l’essenzialità informazionale, che non dialoga né col sistema sociale, né con quello culturale, che aspira a presentarsi improvviso, inatteso rispetto alle aspettative convenzionali, un vivere asistematico, in un mondo in cui il sistema è tutto”. Essendo quello dell’arte povera un approccio anticonvenzionale, tali dovranno essere anche i materiali: che diventano quindi “poveri”, appunto.
La ricerca di Penone si distingue fin da subito per l’utilizzo di materiali da una parte presenti in natura (il legno, l’acqua, la pietra, le foglie, anche la stessa pelle dell’artista), e dall’altra presenti da sempre nell’arte (la creta, il marmo, il bronzo), per arrivare a quello che era l’obiettivo comune dei poveristi: “creare situazioni reali sia di energia elementare, sia fisica-chimica sia emozionale-filosofica” (così Carolyn Christov-Bakargiev nel catalogo della mostra Incidenze del vuoto). Fisica e filosofica (cioè, parafrasando, naturale e culturale: alla base dell’aggettivo “fisico” c’è il termine con cui gli antichi greci identificavano la natura, ovvero phýsis, benché per i greci la parola avesse un significato più esteso e indicasse anche l’origine delle cose, mentre la “filosofia” è, etimologicamente, “l’amore per il sapere”) perché, per gli artisti dell’Arte Povera, continua Christov-Bakargiev, “natura e cultura sono reciprocamente definite e correlate poiché la natura (tutto ciò che non è artificiale, non creato dall’uomo, ma nasce spontaneamente) è un concetto culturale, mentre la cultura non è esente dalla natura ma è soggetto alle sue leggi”. Ed ecco dunque perché l’interazione tra uomo e natura diventa uno dei fondamenti dell’arte di Penone, fin dalle opere giovanili: uno dei primi momenti di questa riflessione è la serie Alpi Marittime, fotografie che Penone scatta nel 1968, a soli ventun anni, per documentare alcune sue azioni compiute nei boschi del suo Piemonte, durante le quali fissava un calco in metallo della propria mano agli alberi che incontrava nelle sue sortite, a simboleggiare la capacità dell’uomo d’intervenire sulla crescita degli elementi naturali, senza però essere in grado di riuscire ad arrestare il corso delle cose, dal momento che la pianta, eccezion fatta per il punto in cui l’artista ha compiuto la sua azione (un contatto che, perciò, vien quasi serbato come fosse un ricordo), continuerà a crescere. Così aveva scritto in un disegno legato ad Alpi Marittime: “Sento il respiro della foresta, / odo la crescita lenta e inesorabile del legno, / modello il mio respiro sul respiro del vegetale, / avverto lo scorrere dell’albero attorno alla mia mano / appoggiata al suo tronco. / Il mutato rapporto di tempo rende fluido il solido e solido il fluido. / La mano affonda nel tronco dell’albero che per la velocità della crescita e la / plasticità della materia è l’elemento fluido ideale per essere plasmato”.
Alpi Marittime, malgrado la sua precocità, è un’opera che riveste una notevole importanza nel percorso artistico di Penone, perché l’idea dell’uomo che interferisce con la natura tornerà nelle sue ricerche, e in alcuni casi sarà anche ribaltata, come accade nei Gesti vegetali, serie di opere realizzate tra il 1983 e il 1986. Sono dei manichini, dalle sembianze umane, che vengono ricoperti di terra e sui quali l’artista lascia l’impronta delle proprie mani (la stessa impronta è un soggetto ricorrente in Penone: è il segno più tangibile di un passaggio o di un processo, tanto che l’artista ha messo in evidenza impronte non solo nelle sue sculture solide, ma anche in quelle “fluide”, realizzate con acqua): sono realizzati in metallo, perché il metallo, se lasciato in balia degli elementi naturali, si ossida e i suoi colori diventano simili a quelli di un albero. Questi manichini vengono poi inseriti in ambienti boschivi, così che diventino partecipi dei processi naturali e così che piante, alberi e vegetali entrino in simbiosi con loro, dato che le sculture si fonderanno con l’ambiente circostante, e verranno modificate dall’ambiente stesso. Può capitare, per esempio, che una scultura venga sistemata in un bosco sopra una pianta appena nata, che continuerà a crescere invadendo la scultura, e la scultura dovrà adattarsi alla crescita della pianta. Di recente, Penone ha provato ulteriori nuove soluzioni per i suoi Gesti vegetali: alla mostra di Cuneo, i manichini sono stati sistemati entro nicchie della chiesa di San Francesco, al fine di ricevere luce che possa favorire la crescita dei vegetali sistemati sopra le opere, anche in assenza di un ambiente naturale.
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Giuseppe Penone, Opera dalla serie Gesti vegetali (1983-1986; bronzo; collezione). Exhibition view, Incidenze del vuoto @ Cuneo, chiesa di San Francesco |
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Giuseppe Penone, Opera dalla serie Gesti vegetali (1983-1986; bronzo; collezione). Exhibition view, Incidenze del vuoto @ Cuneo, chiesa di San Francesco |
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Giuseppe Penone, Opera dalla serie Gesti vegetali (1983-1986; bronzo; collezione). Exhibition view, Incidenze del vuoto @ Cuneo, chiesa di San Francesco |
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Giuseppe Penone, Opera dalla serie Gesti vegetali (1983-1986; bronzo; collezione). Exhibition view, Incidenze del vuoto @ Cuneo, chiesa di San Francesco |
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Giuseppe Penone, Opera dalla serie Gesti vegetali (1983-1986; bronzo; collezione) |
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Giuseppe Penone, Opera dalla serie Gesti vegetali (1983-1986; bronzo; collezione) |
Le impronte caratterizzano anche una delle più recenti opere di Penone, Dafne, un tronco di un albero, realizzato in bronzo, che all’interno riproduce le venature del legno dell’alloro e all’esterno è stato modellato dall’artista con le dita: sulla superficie sono dunque visibili tanti piccoli solchi lasciati dalle sue mani. Il titolo della scultura, Dafne, richiama il mito raccontato da Ovidio nelle sue Metamorfosi, quello della ninfa Dafne che, inseguita dal dio Apollo invaghitosi di lei, chiama in aiuto il padre Peneo affinché la trasformi in una pianta di alloro così da permetterle di sfuggire al dio, accecato dall’irrefrenabile desiderio di farla sua. Penone ha chiamato così la sua scultura non solo perché il tema della metamorfosi (e quindi del cambiamento, basilare per l’Arte Povera così come le sensazioni lo erano state per gli espressionisti, come la compresenza dei punti di vista lo era stato per l’avanguardia cubista, come il movimento lo era stato per i futuristi, e così via) è alla base tanto della narrazione ovidiana (che comunque interessa poco all’artista, o meglio: il momento per lui più stimolante è il finale della fiaba) quanto dei processi cui Penone intende dar forma, ma anche per una sorta di allegorica continuità tra la ninfa e la pianta che, spiega l’artista, per difendersi dagli attacchi di insetti e altri animali sprigiona un’intensa fragranza che li allontana.
Uno degli aspetti interessanti della riflessione di Penone sta nel fatto che nei confronti dei cambiamenti e delle mutazioni la sua posizione rimane, in certa misura, distaccata: per sua stessa ammissione, per esempio, la sua arte è scevra di retorica ambientalista, dal momento che Penone, in diverse occasioni, ha avuto modo di rimarcare che l’uomo non può distruggere la natura, che continuerà tranquillamente a compiere il suo corso anche senza l’uomo. Semmai, per Penone l’uomo può modificare l’ambiente distruggendo risorse, causando l’estinzione di animali, intervendo in maniera radicale e probabilmente definitiva su certi luoghi (tutte azioni che portano l’uomo, sostanzialmente, a distruggere se stesso): l’essere umano fa parte della natura e, data tale connessione, ogni azione sulla natura avrà conseguenze anche su di lui, ma dal punto di vista della natura, l’azione dell’uomo non comporta sconvolgimenti significativi. In altri termini: è l’uomo che deve preoccuparsi per le sue azioni in quanto in grado di ritorcersi contro di lui, mentre la natura esisterà anche quando l’uomo non esisterà più. L’uomo, del resto, esiste in quanto vive nella natura, e Penone ha spesso cercato di dar corpo, attraverso le sue opere, a questa idea di continuità.
Per esempio, con Suture, una scultura in acciaio, plexiglass e terra realizzata tra il 1987 e il 1991: è un’opera che imita le articolazioni che si trovano tra le ossa del cranio (e che in termini scientifici sono dette, appunto, suture), e che è sostenuta da una struttura a ipsilon che, al contrario, intende riprodurre la nervatura delle foglie. Torna così la coesistenza di essere umano ed elemento naturale: “Suture”, dice Penone nel dialogo con Carolyn Christov-Bakargiev inserito nel catalogo della mostra Incidenze del vuoto, “rappresenta il cervello dell’albero, come a indicare la continuità tra corpi umani, naturali e architettonici. La scultura monumentale è modulata sulla forma della struttura cerebrale umana divisa in quattro sezioni da lame di acciaio, che collegano i punti terminali delle suture. L’opera muove dalla mia intenzione di realizzare una scultura attraverso un segno, quasi lasciato con una matita. Un tratteggio che imita le suture craniche, ovvero quelle articolazioni fisse tra le ossa del cranio umano”. Le suture, per adoperare la metafora di Penone, sono come “foglie del cervello”, e “alterano il proprio volume in conformità a potenziali deformazioni cerebrali”: in più, tra le suture e la struttura che le sostiene, l’artista ha anche inserito della terra, quasi come a dire che tutte le riflessioni che l’uomo elabora con il suo cervello partono dalla natura.
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Giuseppe Penone, Dafne (2014; bronzo, 273 x 100 x 100 cm; Collezione privata). Exhibition view, Incidenze del vuoto @ Cuneo, chiesa di San Francesco |
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Giuseppe Penone, Dafne (2014; bronzo, 273 x 100 x 100 cm; Collezione privata). Exhibition view, Incidenze del vuoto @ Cuneo, chiesa di San Francesco |
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Giuseppe Penone, Suture (1987-1991; acciaio, plexiglass, terra; 345 x 400 x 370 cm; Collezione privata). Exhibition view, Incidenze del vuoto @ Cuneo, chiesa di San Francesco |
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Giuseppe Penone, Suture (1987-1991; acciaio, plexiglass, terra; 345 x 400 x 370 cm; Collezione privata). Exhibition view, Incidenze del vuoto @ Cuneo, chiesa di San Francesco |
La relazione tra umano e vegetale si esprime poi attraverso il tema dell’albero, più volte declinato da Penone nelle sue opere. L’albero è del resto una sorta di scultura che già si trova in natura. “Gli alberi”, sottolineava l’artista nella conversazione con Arabella Natalini, “per me sono un’idea di scultura perfetta, se si pensa che l’albero è un essere vivente che fossilizza il suo vissuto nella sua forma, e che ogni parte, ogni singola foglia, ogni singolo ramo è presente per una necessità legata alla sua sopravvivenza, alla sua vita; non c’è nulla di casuale nell’albero, nulla in eccesso o in difetto, la sua forma è esattamente quello che gli serve per vivere e per la sua strategia di sopravvivenza. Possiamo chiamare azione il crescere di una foglia, di un germoglio, di un ramo; tutte queste azioni sono registrate nella sua struttura, quindi il ritrovare la forma dell’albero all’interno del legno, della materia legno, è, secondo me, una tautologia della scultura perfetta”. E forse è proprio per il fatto che l’albero memorizza se stesso nella sua forma e per il fatto che è un essere fluido che continua a crescere per tutta la sua esistenza, che è diventato l’elemento più riconoscibile dell’arte di Penone, la presenza più frequente nelle sue opere, il soggetto che più si presta a trasmettere i pensieri dell’artista anche sotto forma di allegorie, come quella che anima la scultura Identità, metafora d’un incontro: un grande albero scuro e spoglio, di bronzo, sopra al quale l’artista ha inserito una copia in alluminio, che al contrario è del tutto bianca. Le Identità cui allude il titolo dell’opera sono quelle dei due alberi, che sembrano speculari, ma in realtà sono diversi, e i loro colori rendono ancor più palese questa condizione. Eppure, malgrado abbiano caratteristiche per lo più inconciliabili, ci sono dei punti di tangenza rappresentati dagli specchi inseriti tra i rami, che introducono diversi spunti: lo specchio come simbolo di saggezza e conoscenza in quanto strumento di autocoscienza, lo specchio come riflessione sulla simmetria in natura come mezzo di adattamento e sopravvivenza (ovvero i motivi per i quali anche il corpo umano e la grande maggioranza dei corpi animali sono strutture simmetriche), lo specchio come soglia tra interiorità ed esteriorità, e via dicendo.
Identità riprende, peraltro, il tema della dualità già affrontato in Matrice, opera del 2015: è un grande abete in bronzo, di trenta metri di lunghezza, sezionato in orizzontale al fine di ottenerne due parti, scavate poi seguendo gli anelli concentrici del tronco per ottenere una specie di solco che scorre attraverso il legno della pianta. Il primo “doppio” che s’incontra in Matrice è quello che si ricava dallo scontro tra il passato e il presente: il vuoto al centro dell’albero è stato infatti ottenuto con un’azione sugli anelli dell’albero, e quindi sulla sua storia, dal momento che, come tutti sappiamo fin da bambini, gli anelli del tronco di un albero indicano la sua età. Il presente che dunque agisce sul passato, oppure lo scava per portarlo a galla: l’azione di Penone è qui anche simbolo del tempo che scorre. E c’è poi, immancabilmente, anche l’intervento umano: in un punto del tronco scavato, Penone ha inserito una fusione in bronzo che ricalca la forma dell’albero, ma che conserva delle “sinuosità antropomorfe”, come spiega l’artista stesso, per dare evidenza della relazione tra umano e natura. Di nuovo attraverso l’impronta dell’uomo. “Era mia intenzione”, ha detto Penone, “rendere chiaro che le sezioni longitudinali ricomposte e la scultura di bronzo formano un’unica identità; ne è segno la carbonatura del legno nella sezione arborea corrispondente. Ciascuna delle parti che forma l’unità dell’opera porta con sé le tracce del processo”. Matrice introduce inoltre considerazioni anche sull’essenza stessa della scultura, e non solo perché si tratta di un albero, che, come s’è visto, è la “scultura perfetta” secondo Penone: le varie parti di cui Matrice è composta, la sua forma, i trattamenti che ha subito, forniscono a chi osserva l’opera l’immediata percezione dei complicati processi che stanno alla base della nascita di una qualsiasi scultura, che richiede un’elaborazione più lunga e complessa rispetto a quella di opere realizzate con altri mezzi (la pittura, per esempio, almeno secondo Penone: la sua visione “da scultore”, con Matrice, emerge forse più chiara che in ogni altra opera). A quest’idea si lega nuovamente, in senso quasi circolare, il tema del doppio: intanto perché, tecnicamente, una scultura è perfettamente riproducibile a partire da un modello, e poi perché la scultura è, essenzialmente, l’arte dei pieni e dei vuoti.
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Giuseppe Penone, Identità (2003; bronzo, acciaio, colore ad olio, 63 x 25 x 27 cm; Collezione privata). Exhibition view, Incidenze del vuoto @ Cuneo, chiesa di San Francesc |
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Giuseppe Penone, Identità (2017; bronzo, acciaio, 1257 x 730 x 610 cm; Collezione privata). Exhibition view, Incidenze del vuoto @ Castello di Rivoli |
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Giuseppe Penone, Identità (2017; bronzo, acciaio, 1257 x 730 x 610 cm; Collezione privata). Exhibition view, Incidenze del vuoto @ Castello di Rivoli |
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Giuseppe Penone, Matrice (2015; legno di abete e bronzo, 110 x 250 x 3000 cm; Collezione privata). Exhibition view, Incidenze del vuoto @ Cuneo, chiesa di San Francesco |
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Giuseppe Penone, Matrice (2015; legno di abete e bronzo, 110 x 250 x 3000 cm; Collezione privata). Exhibition view, Incidenze del vuoto @ Cuneo, chiesa di San Francesco |
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Giuseppe Penone, Matrice (2015; legno di abete e bronzo, 110 x 250 x 3000 cm; Collezione privata). Exhibition view, Incidenze del vuoto @ Cuneo, chiesa di San Francesco |
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Giuseppe Penone, Matrice (2015; legno di abete e bronzo, 110 x 250 x 3000 cm; Collezione privata). Exhibition view, Incidenze del vuoto @ Cuneo, chiesa di San Francesco |
La presenza dell’assenza, il ruolo del vuoto, sono elementi portanti dell’arte di Penone, fin da Alpi Marittime, dove il vuoto lasciato dall’azione dell’artista forniva la chiave di lettura per cogliere il senso dell’opera, passando dai Gesti vegetali, dove il vuoto è lo spazio nel quale arte e natura dialogano, fino ad arrivare a Identità e Matrice: nella prima il vuoto è il luogo dell’incontro, nella seconda è l’assenza che fa emergere la storia della pianta. Il rapporto tra vuoti e pieni è, in sostanza, un processo di modificazione, una metafora che rimanda ulteriormente allo scorrere del tempo e all’alternarsi dei cicli della natura. Ecco dunque le Incidenze del vuoto secondo Penone, nella mostra che, per la prima volta, dedica un approfondimento verticale a questo elemento dell’arte dello scultore piemontese: il vuoto è un dato che, pur nella sua immaterialità, accoglie presenze, racconta storie, dialoga col “pieno”, e di conseguenza guida la progettualità dell’artista.
E non a caso molti critici hanno insistito sulle qualità architettoniche dell’arte di Penone: del resto, anche un architetto deve necessariamente tener conto di vuoti e pieni nella progettazione d’un suo lavoro. A Cuneo, Penone ha cercato un proficuo dialogo con la chiesa di San Francesco, e probabilmente, da artista colto, deve aver tenuto a mente i proporzionamenti antropometrici di Francesco di Giorgio Martini, che sul finire del Quattrocento progettava la facciata d’una chiesa secondo le proporzioni del corpo umano. Nell’idea di Penone, la pianta della chiesa cuneese è in certa misura simile al corpo d’un essere umano: le Suture del cranio corrispondono all’abside, mentre la lunga Matrice, sistemata lungo la navata centrale, costituisce la spina dorsale. L’architettura come proiezione d’un’idea si pone pertanto in rapporto diretto con la mente umana, e quindi con la natura: c’è piena e totale vicinanza tra queste realtà. Penone è avveduto del fatto che natura e architettura non si contrappongono: perché, di base, non c’è opposizione tra natura ed essere umano. Occorre solo ricordarlo.
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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta
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