L'Allegoria di Giovanni Bellini: un enigma irrisolto


L'Allegoria di Giovanni Bellini rappresenta uno dei più grandi enigmi della storia dell'arte. Riassumiamo in questo post alcune delle principali interpretazioni.

“È difficile scoprire il significato dell’allegoria che Bellini ha dipinto. La Vergine, seduta su una terrazza che su affaccia su un lago, riceve l’omaggio di una donna che s’inginocchia, accompagnata a destra e a sinistra da figure in piedi la cui identità non è stata accertata. Dietro una balaustra aperta, due uomini apparentemente rappresentano san Giuseppe e san Paolo. Un melo in un vaso è scosso da un ragazzino nudo, e alcuni bambini raccolgono la frutta. Nelle colline dietro al lago, un asino rumina e un pastore si occupa del suo gregge; vediamo poi un centauro e un eremita che riposa in una caverna. La perfetta composizione della scena è davvero gradevole, così come la purezza e la scelta delle forme, la grazia dei movimenti e la delicatezza dei volti. I colori sono dolci, si mescolano e galleggiano nella soleggiata foschia di mezzogiorno”. Con queste parole, Giovanni Battista Cavalcaselle descriveva, nella sua A history of painting in north Italy scritta con Joseph Archer Crowe e pubblicata nel 1871, uno dei dipinti più enigmatici della storia dell’arte: l’Allegoria di Giovanni Bellini (1430 circa - 1516), oggi conservata agli Uffizi dove giunse nel 1793, in seguito a uno scambio con la Galleria Imperiale di Vienna, fortemente caldeggiato da Luigi Lanzi. Anche Cavalcaselle s’era accorto di quanto fosse poco penetrabile il soggetto raffigurato dal pittore veneto che, com’è noto, non di rado si trovò a lavorare per illustri esponenti del patriziato veneziano che erano soliti commissionare opere il cui significato era intuibile unicamente da chi faceva parte di ristrette cerchie di coltissimi amanti dell’arte, delle lettere, della storia e delle scienze.

Giovanni Bellini, Allegoria sacra
Giovanni Bellini, Allegoria sacra (variamente datata tra il 1487 e il 1504; olio su tavola, 73 x 119 cm; Firenze, Uffizi

Dunque, lo stesso Cavalcaselle, che fu peraltro il primo studioso ad attribuire l’opera a Giovanni Bellini (un’attribuzione oggi comunemente accettata), evitò d’avventurarsi in interpretazioni. Il primo storico dell’arte a tentare di sciogliere il difficile rompicapo fu il tedesco Gustav Ludwig (1852 - 1905): siamo nel 1902 e il tentativo di spiegazione chiamava in causa un poemetto allegorico scritto all’incirca negli anni Cinquanta del Trecento, dal titolo Le pèlerinage de l’âme (“Il pellegrinaggio dell’anima”), opera del monaco francese Guillaume de Deguileville (1295 circa - 1380 circa). Uno dei punti fermi di ogni interpretazione è la presenza di figure sacre, tanto che il nome con cui è forse più noto il quadro è Allegoria sacra: e proprio a un’allegoria del viaggio dell’anima attraverso Inferno, Purgatorio e Paradiso farebbe riferimento il dipinto secondo quanto ipotizzato da Ludwig. La terrazza sarebbe la rappresentazione del Giardino dell’Eden, luogo in cui si raccolgono le anime in attesa del giudizio che dovrebbe farle salire al Paradiso. Le anime sarebbero rappresentate dai bambini che giocano attorno all’albero: nel poemetto si fa infatti riferimento a un albero rigoglioso e a un altro secco, e possiamo notare arbusti secchi sulla riva del lago. L’anima protagonista del viaggio sarebbe simboleggiata dal bambino seduto sul cuscino, vestito: si trova in quella posizione in quanto in attesa di giudizio da parte della Madonna, dei santi, e dell’allegoria della giustizia, rappresentata dalla donna coronata che si trova alla sinistra della Vergine. I due santi che vediamo in piedi sulla destra vengono identificati da Ludwig come i santi Bartolomeo e Dionisio, che svolgono funzione di patrocinatori dell’anima presso il tribunale celeste. All’esterno della terrazza, il paesaggio alluderebbe proprio al viaggio compiuto dall’anima per arrivare fino al paradiso: un viaggio durante il quale si sono rese necessarie virtù come la pazienza (l’asino), l’umiltà (il gregge di pecore) e l’astinenza (la capra), al fine di rifuggire il vizio (il centauro), colpevole di tentare l’eremita. Per avvalorare la propria tesi, Ludwig chiamava in causa anche alcune miniature tratte da antichi manoscritti francesi, in cui troviamo raffigurazioni simili a quelle utilizzate da Giovanni Bellini: ne proponiamo due, una tratta dal manoscritto 1138 della Bibliothèque Nationale de France, che contiene una redazione del poemetto di Deguileville, e che illustra le anime che giocano attorno all’albero, e un’altra, con l’allegoria della giustizia, tratta da un ulteriore manoscritto miniato del poemetto, anch’esso conservato presso la BNF (numero 377).

Particolare dei bambini al centro della scena
Particolare dei bambini al centro della scena


Anime che giocano
Anime che giocano attorno all’albero mistico, da Le pèlerinage de l’âme di Guillaume de Deligueville (XV secolo; Manoscritto Bib. Nat. F. fr. N. 1138 Fol. 168 recto)


Le donne sulla sinistra
Le donne sulla sinistra


Allegoria della giustizia
Allegoria della giustizia, da Le pèlerinage de l’âme di Guillaume de Deligueville (XV secolo; Manoscritto Bib. Nat. F. fr. N. 377 Fol. 148 verso)

L’interpretazione fornita da Ludwig rimase per diverso tempo quella ritenuta più credibile. Tuttavia, a esaminare le contraddizioni della proposta dello studioso tedesco pensò, nel 1946, Nicolò Rasmo (1909 - 1986), che fece intanto notare come Le pèlerinage de l’âme non fosse mai stato pubblicato in Italia: allo storico dell’arte trentino appariva dunque poco verosimile che Bellini (o il suo committente) lo conoscessero in modo così approfondito. Ma la maggior stortura della spiegazione di Ludwig stava, secondo Rasmo, nel fatto che lo studioso tedesco ammetteva per il bambino seduto un duplice ruolo: quello dell’anima in attesa di giudizio, ma anche quello di simbolo di Gesù Cristo. Ludwig infatti spiegava la figura in piedi accanto alla Madonna alludendo a un passo del poemetto trecentesco nel quale la Vergine chiede alla Giustizia di modificare il destino di Gesù, che avrebbe dovuto soffrire i dolori della Passione. Non potendo però interferire nei piani divini, si sarebbe abbandonata al pianto, consolata da una pia donna: per Ludwing, sarebbe proprio la figura che vediamo nel dipinto accanto alla Madonna, in piedi. Secondo Rasmo, l’ipotesi di un duplice ruolo è da escludere categoricamente in quanto non plausibile. Molte altre sarebbero le incongruenze con il poemetto (per esempio, il fatto che l’albero rigoglioso, nell’opera letteraria, crescesse nel terreno del Giardino dell’Eden, e non dentro a un vaso, e il fatto che lo stesso Giardino nel dipinto venga rappresentato come una terrazza invece che come un vero giardino), che lascerebbero perciò intendere che l’allegoria non rappresenti nient’altro che una Sacra Conversazione. Insomma, una semplice Sacra Famiglia con santi (san Giuseppe sarebbe la figura accanto a san Paolo) ma, secondo Rasmo, del tutto nuova e originale nell’ambientazione e nella raffigurazione prospettica.

I santi identificati come san Giuseppe e san Paolo
I santi identificati come san Giuseppe e san Paolo

Seguendo l’ordine strettamente cronologico nel quale si sono succedute le interpretazioni, arriviamo al 1953, quando il francese Philippe Verdier (1912 - 1993) rifiutò la troppo semplicistica proposta di Rasmo per tornare ad abbracciare l’idea di un significato allegorico. Verdier era convinto che la proposta di vedere nelle donne accanto alla Vergine delle sante non meglio identificabili era solo un modo per evitare di risolvere il problema: quelle figure dovevano per forza avere un significato. Sul fatto che la terrazza rappresentasse il Paradiso terrestre, Verdier era concorde con Ludwig, e il fatto che ci fosse solo un albero, e per di più in un vaso, doveva essere letto come una semplificazione. Verdier concordava con Ludwig anche sull’autore che avrebbe ispirato il dipinto: ancora Guillaume de Deguileville, con un’altra opera però, ovvero Le pèlerinage de Jésus-Christ (“Il pellegrinaggio di Gesù Cristo”), del 1358, poemetto che si configura come una sorta di commento al Salmo 84. Esattamente come l’Annunciazione, opera di un drammaturgo fiorentino del Quattrocento, Feo Belcari, specializzato in drammi di carattere religioso: per Verdier, la rappresentazione di Belcari costituiva un’altra possibile fonte di Giovanni Bellini. Sia nel poemetto di Deguileville che nel dramma di Belcari veniamo a conoscenza delle quattro figure note come le quattro “figlie di Dio”: Giustizia, Verità, Pace e Misericordia. Il poemetto del monaco francese descrive una contesa tra le quattro figlie in merito alla redenzione del peccato originale: Pace e Misericordia vorrebbero infatti salvare l’umanità redimendo Adamo, autore del primo peccato, mentre le altre due auspicano una severa punizione (che, secondo la Giustizia, dovrebbe addirittura essere eterna). Le quattro si rivolgono dunque alla Sapienza, che stabilisce un verdetto: l’umanità dovrà essere redenta dal Signore stesso che si farà uomo e sconterà il peccato per tutti. La Madonna, secondo l’interpretazione di Verdier, sarebbe simbolo della Sapienza (uno dei suoi attributi è infatti Sedes Sapientiae, “Sede della sapienza”), e le donne ai suoi lati sarebbero le personificazioni di due delle quattro virtù contrapposte, ovvero la Misericordia e la Giustizia. Il bambino seduto sarebbe lo stesso Gesù, mentre le figure dietro alla balaustra sarebbero Simeone il Vecchio, l’anziano che nel Vangelo di Luca predice a Maria le sofferenze della Passione (apparse in una visione sotto forma di spada) e Isaia, il profeta che aveva annunciato la Passione.

Pochi anni dopo, nel 1956, Wolfgang Braunfels (1911 - 1987) preferì tornare su posizioni antiallegoriche ipotizzando che il quadro fosse una mera rappresentazione del Paradiso terrestre: a detta dello storico dell’arte tedesco, non sarebbero esistite in tutto il Quattrocento altre allegorie cristiane all’infuori di quella belliniana, dettaglio sufficiente a far cadere l’ipotesi di un significato recondito del dipinto, in quanto ritenuta non in accordo con i tempi. Sarebbe stata cioè plausibile nel Duecento o nel Trecento, ma non in un secolo in cui non si erano trovati esempi di soggetti al contempo religiosi e didascalici. E a ciò occorreva aggiungere che gli “allegorici” non erano riusciti ancora a trovare un testo di riferimento che potesse spiegare, senz’alcuna contraddizione e in modo del tutto calzante, ogni singolo particolare dell’opera.

La Speranza di Giotto
Giotto, Speranza (1305 circa; affresco, 120 x 60 cm; Padova, Cappella degli Scrovegni)
C’era però chi non considerava ancora chiusa la questione, anzi. Nel 1968 Giles Robertson (1913 - 1987) partì dalle osservazioni di Verdier e riconobbe ancora Gesù Cristo nel bambino seduto sul guanciale, ma modificò l’interpretazione del significato dell’allegoria: non più allegoria della redenzione, bensì allegoria dell’incarnazione, tanto da proporre, come titolo dell’opera, Meditazione sull’incarnazione. I putti intorno a Gesù Bambino rappresenterebbero, come in Ludwig, le anime, in questo caso redente grazie al sacrificio di Gesù incarnato e, sempre come in Ludwig, la donna incoronata sarebbe personificazione della giustizia. Nel 1977 Susan Delaney propose un ulteriore modo d’intendere le tre donne sul lato sinistro della scena: la Madonna in trono accompagnata da due delle tre virtù teologali (la speranza e la fede). La studiosa chiamava addirittura in causa l’Allegoria della Speranza dipinta da Giotto nella Cappella degli Scrovegni per spiegare la figura di Giovanni Bellini, per il solo fatto che entrambe sono sospese a mezz’aria: tuttavia, possiamo tranquillamente affermare che la distanza tra le due opere è tale da far sembrare labile qualunque nesso. Mancherebbe la carità: secondo la Delaney, sarebbe rappresentata dall’albero al centro della terrazza. Un’ipotesi che la studiosa cercava di avvalorare chiamando in causa alcune incisioni, tra le quali una di Hans Holbein, pensata come stemma dello stampatore Reynold Wolfe e nota come l’Albero della Carità. La pianta è accompagnata da iscrizioni in greco e latino tratte dalla lettera di san Paolo ai Corinzi (Charitas non quaerit quae sua sunt, ovvero “La carità non cerca il proprio interesse”, e altre). L’incisione, del 1543, è di diversi decenni posteriore all’Allegoria di Bellini (la cui datazione è incerta e dibattuta tanto quanto il significato del dipinto, comunque l’opera fu realizzata prima del 1504), ma la tradizione dell’albero della carità risalirebbe proprio a san Paolo, quindi Bellini avrebbe potuto conoscerla. Le virtù sarebbero da porre in relazione col sacrificio di Cristo: secondo san Bonaventura, l’albero della carità rappresenterebbe la carità di Cristo. Il legno dell’albero rimanderebbe, inoltre, alla morte sulla croce. I bambini attorno a Gesù sarebbero personificazione della purezza necessaria per ricevere l’Eucarestia, simboleggiata dai frutti dell’albero, mentre la presenza dei diversi santi attorno alle figure principali è spiegata da Susan Delaney in diversi modi che non è forse il caso di analizzare singolarmente: ci limitiamo a dire che, secondo la sua interpretazione, il significato unitario del dipinto sarebbe da individuare, per usare le sue parole, in una “immagine lirica della Chiesa cristiana vista nel contesto del Rinascimento veneziano”. Alla stessa città di Venezia farebbero riferimento i santi Sebastiano e Giobbe che vediamo sulla destra e il cui culto era parecchio diffuso in città, mentre il paesaggio rappresenterebbe l’importanza della Chiesa per il mondo.

Albero della Carità di Hans Holbein
Hans Holbein, Albero della carità (1543; incisione, stemma dello stampatore Reynold Wolfe; Washington, Folger Shakespeare Library)
All’ipotesi di un’allegoria della redenzione tornarono, nel 1981, Stefano Coltellacci e Marco Lattanzi, che dichiaravano plausibile l’ipotesi di vedere nelle figure attorno alla donna allegorie di virtù, ma non escludevano l’ipotesi di identificarle come due sante: tuttavia un’interpretazione sicura, a loro dire, non sarebbe possibile. Interessante il tentativo di individuare nell’orientale col turbante la figura di un eretico che viene cacciato dalla spada di san Paolo (e che quindi non può essere redento): per Coltellacci e Lattanzi si trattava di un riferimento d’attualità, perché nel Quattrocento, a Padova, avevano trovato particolare diffusione le teorie del filosofo islamico Averroè, figura attorno alla quale sorsero notevoli polemiche dacché coloro che seguivano il suo pensiero si ritenevano indipendenti rispetto ai precetti della Chiesa, ed erano quindi considerati “incompatibili” con la dottrina cristiana. Una suggestiva ipotesi avanzata nel 1983 da Carlo Del Bravo (1935) metteva in relazione l’opera con uno scritto dell’umanista Lorenzo Valla (1407 - 1457) che circolava nella Venezia del tempo, il dialogo De vero falsoque bono (“Il vero e il falso bene”), scritto nel 1430 circa. Nello scritto si sostiene che il bene ultimo a cui dovrebbe tendere il credente è la felicità cristiana, che secondo l’interpretazione di Del Bravo sarebbe simboleggiata, nel dipinto, dalla figura in trono. La felicità è accompagnata da due qualità che servono per ottenerla, ovvero l’onestà e la virtù. La terrazza rappresenterebbe il paradiso terrestre, e gli alberi i ligna voluptatis, gli “alberi della felicità”, di cui parlava il profeta Ezechiele nei capitoli 33 e 36 del suo libro (ripreso da Valla) nel descrivere l’hortus voluptatis (“il giardino della felicità”, ovvero il giardino dell’Eden). Il riferimento a Ezechiele spiegherebbe anche lo sfondo: il libro del profeta biblico descrive infatti una terra desolata e città deserte al di là del giardino della felicità, e il corso d’acqua a dividere le due realtà avrebbe anch’esso valore simbolico.

Particolare dello sfondo
Particolare dello sfondo

Tra le interpretazioni più recenti, occorre segnalare quella avanzata nel 1994 da Maurizio Calvesi, che ritiene la terrazza una visione del paradiso terrestre (di cui san Pietro e san Paolo sarebbero i guardiani) avuta da sant’Antonio Abate, che andrebbe individuato nella figura dell’eremita nella caverna, e la curiosissima ipotesi formulata nel 1996 da Werner Hofmann: l’Allegoria sarebbe nient’altro che un capriccio (benché denso di significato simbolico, che consisterebbe nell’eliminazione delle barriere tra realtà e immaginazione), ovvero una composizione di fantasia in cui vengono aggiunti elementi anche di natura diversissima. Ipotesi del tutto improbabile: se così fosse, Giovanni Bellini avrebbe inventato un genere pittorico con un paio di secoli d’anticipo. Sebbene tra gli ultimi commentatori prevalga la posizione di chi vede nel dipinto un’allegoria della redenzione (l’ipotesi veniva ribadita da Meinolf Dalhoff in un articolo apparso nel 2002 sul Burlington Magazine), risulta ancora impossibile trovare una spiegazione convincente del dipinto. Non esistono (o non sono ancora stati scoperti) documenti che possano aiutarci nell’impresa. In occasione del restauro che l’opera subì nel 2002, Antonio Natali ribadì che, quando si cerca di spiegare dipinti complessi come questo, l’“assunto scientifico” richiede il riferimento a una fonte che ha ispirato l’artista. Ne consegue che le ipotesi vengono formulate sulla base della fonte cui si vuol riferire il dipinto: e ognuno potrebbe dunque proporre una lettura diversa. La conclusione, dunque, non può che essere una: “cultura classica e cultura teologica paiono qui miscelarsi in un congegno umanistico, che potrà rivelarsi soltanto se si riuscirà a recuperare il testo verisimilmente letterario a cui s’ispirò il Bellini quando, negli anni che stanno a cavallo fra Quattro e Cinquecento, dipinse quest’opera. A meno che non si dia il caso, da taluno ventilato, che ogni immagine simbolica del quadro sia stata giustapposta alle altre su un’invenzione dovuta all’artista medesimo”.


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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