Un brano di cultura raffaellesca a Genova: gli affreschi del Bergamasco in Palazzo Tobia Pallavicino


Giovanni Battista Castello, detto il Bergamasco, tra il 1558 e il 1561 progettò e affrescò uno dei più sontuosi palazzi di Genova: Palazzo Tobia Pallavicino.

Immaginiamoci una città in grande fermento economico e culturale, quale era la Genova di metà Cinquecento. Immaginiamoci un’aristocrazia che ha fondato la propria ricchezza sui traffici marittimi con tutto il mondo allora conosciuto. Immaginiamo che questa aristocrazia voglia creare un nuovo quartiere residenziale che possa accogliere sontuosi palazzi, attraverso i quali ospitare poi i rappresentanti delle potenze straniere: la Repubblica, infatti, mancava di sedi di rappresentanza, e gli ambasciatori e i sovrani stranieri, a partire ufficialmente dal 1576, venivano ospitati nelle più sontuose dimore cittadine, elencate in una serie di liste note come i Rolli (parola che potremmo tradurre un po’ come “ruoli”, “elenchi”). Immaginiamo, infine, un ricco membro di questo patriziato, Tobia Pallavicino, che di mestiere commerciava l’allume (un minerale che veniva usato in ambito tessile) e che nel 1558 decise di farsi costruire il suo palazzo all’inizio della Strada Nuova, la magnifica via, aperta otto anni prima, che costituiva il fulcro del ricco quartiere residenziale di cui si diceva sopra. Ecco: una volta che avremo finito di immaginare ci saremo figurati uno splendido edificio, espressione della volontà, da parte del proprietario, di vivere in una costruzione aggiornata sul gusto più moderno, e di gareggiare in magnificenza con le altre residenze della Strada Nuova. Questo edificio, se ci recheremo in Strada Nuova, sarà il secondo che troveremo: è Palazzo Tobia Pallavicino, noto anche come Palazzo Carrega-Cataldi dal nome delle due famiglie che ne detennero la proprietà tra il Settecento e l’Ottocento, e oggi sede della Camera di Commercio di Genova.

La facciata di Palazzo Tobia Pallavicino
La facciata di Palazzo Tobia Pallavicino

Ma torniamo alla metà del Cinquecento. Tobia Pallavicino aveva incaricato del progetto un artista colto e versatile, Giovanni Battista Castello (Crema, 1525/1526 - Madrid, 1569), detto il Bergamasco per via della sua provenienza, e per non confonderlo con un miniatore omonimo vissuto negli stessi anni (e che era noto, al contrario, come “il Genovese”). Il Bergamasco non si occupò soltanto della struttura architettonica, essendo lui architetto, ma anche delle decorazioni: era, infatti, un valente pittore formatosi sulla cultura raffaellesca. Stando a quanto ci dicono le fonti, il Bergamasco aveva dapprima studiato a Crema sotto la direzione di Aurelio Busso, e poi era recato a Roma per aggiornare la propria cultura figurativa sull’esempio dell’arte del grande Raffaello. Aurelio Busso è attestato come scolaro di Polidoro da Caravaggio, pittore che, a sua volta, fu allievo di Raffaello: il Bergamasco non avrebbe dunque potuto guardare ad altri esempi. Tra l’altro, la tradizione vuole che il soggiorno a Roma sia stato patrocinato proprio da Tobia Pallavicino, che avrebbe conosciuto Giovanni Battista Castello, quand’era ancora ragazzino, proprio a Genova, dove sarebbe giunto ancora assieme al suo maestro. Tuttavia, stando al racconto (chissà quanto veritiero) di Raffaele Soprani nelle sue Vite, Aurelio Busso lo avrebbe “lasciato in abbandono”. Il giovane artista, “non perdendosi d’animo”, avrebbe comunque continuato la sua attività di pittore per essere poi notato, come si diceva, dallo stesso Pallavicino, che avrebbe deciso di inviarlo a Roma “fin’a tanto ch’ei s’acquistò nome di ben fondato disegnatore”.

E già nell’atrio del sontuoso Palazzo Tobia Pallavicino riusciamo a percepire quanta cultura romana il Bergamasco avesse importato in quel di Genova. La volta di questo scenografico ambiente, concluso da uno scalone doppio (la cui rampa sinistra, peraltro, conduce a una porta finta, posizionata lì solo per ragioni di simmetria: quando si dice l’estetica prima della funzionalità... !), è infatti decorata con grottesche: si tratta di motivi con elementi geometrici, vegetali, animali e fantastici che si intrecciano in tessuti ornamentali su sfondo solitamente bianco, offrendo all’osservatore effetti di leggerezza, ariosità e armonia. Per comprendere l’origine del termine “grottesche”, occorre tornare indietro agli ultimi anni del Quattrocento, quando furono rinvenuti i resti della Domus Aurea, il palazzo dell’imperatore Nerone: dal momento che per visitarla occorreva recarsi sotto terra, le persone del tempo avevano iniziato a riferirsi a questo ambiente come alle “romane grotte”. E le pareti di queste “grotte” erano colme di motivi ornamentali come quelli di cui abbiamo detto sopra: gli artisti furono entusiasti della scoperta, e dalla fine del Quattrocento le grottesche iniziarono a fare la loro comparsa nelle decorazioni di moltissimi palazzi. Con il Bergamasco, le grottesche arrivavano per la prima volta a Genova. E non avrebbero potuto esordire in un ambiente più adatto: il programma iconografico infatti voleva l’atrio decorato con le immagini degli dèi dell’Olimpo. Ecco quindi Apollo, Diana, Giunone, Leda, Giove, Saturno... e c’è anche un raffinatissimo Argo, il gigante dai cento occhi, che negli affreschi del Bergamasco assume le fattezze di un avvenente giovane con occhi sparsi su tutto il corpo, che dal basso sembrano quasi piccoli tatuaggi che coprono buona parte della sua pelle. Un po’ come veniva rappresentato sugli antichi vasi greci, insomma.

La volta dell'atrio
Giovanni Battista Castello detto il Bergamasco, volta dell’atrio di Palazzo Tobia Pallavicino (1558-1561; affreschi e stucchi; Genova, Palazzo Tobia Pallavicino)


Nel medaglione Leda, e nei peducci dell'arco Apollo e Diana
Nel medaglione Leda, e nei peducci dell’arco Apollo e Diana


Saturno e Argo
Saturno e Argo


Argo
Argo


La scala che conduce alla... porta finta
La scala che conduce alla... porta finta

Nel vano che conduce al grande salone del pianterreno, dovevano comparire le raffigurazioni dei quattro elementi naturali: acqua, aria, terra, fuoco. C’era però spazio solo per tre elementi. E a proposito di ciò, si racconta un aneddoto: quando Tobia Pallavicino chiese a Giovan Battista Castello dove fosse finito il quarto elemento (gli unici che aveva potuto raffigurare nei riquadri erano l’acqua, la terra e il fuoco), l’artista avrebbe risposto affermando che l’aria era rappresentata dalle nuvole su cui siedono Giunone e Leda nei grandi medaglioni ottagonali che decorano la volta dell’atrio. Di fronte a una risposta così arguta, è facile immaginare come il nobile committente non avesse avuto alcunché da ridire... !

Il vano con le allegorie degli elementi
Il vano con le allegorie degli elementi


Allegoria dell'acqua
Allegoria dell’acqua

Proseguendo si entra nel salone: qui, il grande affresco della volta rappresenta il Parnaso, la montagna greca dove, secondo la mitologia, il dio Apollo si riuniva con le nove Muse, le divinità patrocinatrici delle arti. Apollo è al centro, con la cetra, lo strumento musicale suo tipico attributo iconografico. Le Muse sono attorno a lui: danzano, suonano, oppure si dedicano alla poesia. Il cavallo alato che compare subito sotto Apollo è Pegaso: la leggenda vuole che questo mitico animale, con un colpo di zoccolo, abbia aperto una sorgente, chiamata poi Ippocrene, che avrebbe donato, a chi l’avesse bevuta, ispirazione poetica. Il grande affresco è immerso in una struttura decorata a stucchi e ornata, sui lati, da grandi riquadri che ospitano le allegorie delle arti. La grazia che pervade la composizione rimanda al più celebre esempio del Parnaso affrescato da Raffaello nella Stanza della Segnatura: il Bergamasco, essendo stato a Roma, lo avrà di sicuro conosciuto. Così come di sicuro avrà conosciuto la Loggia di Psiche: l’ariosità delle pitture dell’artista lombardo-ligure sembra riecheggiare quella del Raffaello della Farnesina, e dati i rapporti di amicizia che Tobia Pallavicino intratteneva con il ricco banchiere Agostino Chigi, proprietario di Villa Farnesina, l’ipotesi che sia stato lo stesso patrizio genovese a suggerire all’artista di recarsi a visitarla non appare così improbabile.

Giovanni Battista Castello detto il Bergamasco, Il Parnaso (1558-1561; affreschi e stucchi; Genova, Palazzo Tobia Pallavicino)
Giovanni Battista Castello detto il Bergamasco, Il Parnaso (1558-1561; affreschi e stucchi; Genova, Palazzo Tobia Pallavicino)


La volta del Salone
La volta del Salone

Salendo al piano superiore, entriamo nell’atrio del piano nobile: il soffitto è decorato, al centro, con un affresco in cui troviamo la figura di Apollo citaredo, ovvero suonatore di cetra, accompagnato da tre muse, mentre nei sei medaglioni laterali troviamo figure musicanti. La pressoché onnipresente figura di Apollo, come possiamo intuire, rimanda allo stesso Tobia Pallavicino: il programma iconografico che aveva in mente era fortemente celebrativo, e mescolava elementi che lasciano denotare quanto raffinata fosse la sua cultura mitologica, ad altri che invece hanno la chiara funzione di esaltare le qualità del committente. Apollo è un dio che, attraverso la propria arte, concede armonia e felicità agli uomini: lo stesso intendeva fare Tobia Pallavicino attraverso le sue attività commerciali. Apollo è un dio che protegge gli artisti, e lo stesso ruolo era stato assunto dal committente. Ma Apollo era anche un dio che puniva chi osava sfidarlo: nel vestibolo al piano nobile compare un affresco in cui Apollo abbatte il mostruoso Pitone, che aveva commesso il grave errore di perseguitare la madre del dio. Anche Tobia Pallavicino era dunque poco tollerante nei confronti dei suoi avversari?

La volta dell'atrio del piano nobile
La volta dell’atrio del piano nobile

Nell’ultimo salotto, attiguo all’atrio e oggi allestito a ufficio, il Bergamasco realizzò alcuni affreschi che narrano gli episodi salienti della favola di Amore e Psiche, tratta dalle Metamorfosi di Apuleio. Il momento saliente del racconto, quello in cui Psiche scopre chi è il suo amante cogliendolo nel sonno, è posto al centro del soffitto: una meravigliosa Psiche, bionda e seminuda (a coprirla c’è solo un velo che le cinge i fianchi) sta scostando le coperte dal letto mentre Amore giace ancora addormentato, con la testa poggiata su un braccio. Ad accompagnare lo sguardo verso le due figure è lo scenografico baldacchino le cui tende si aprono, a mo’ di sipario, quasi stessimo assistendo a una rappresentazione teatrale. Suggestioni emiliane nei dolci passaggi chiaroscurali, e venete nel colorismo piuttosto acceso di questo e di tutti gli altri episodi della favola che decorano le pareti laterali, si mescolano sul sostrato raffaellesco per esplorare nuove soluzioni, destinate peraltro a far scuola nella Genova di metà Cinquecento: ricordiamo che ci troviamo tra il 1558 e il 1561.

Giovanni Battista Castello detto il Bergamasco, Amore e Psiche (1558-1561; affresco; Genova, Palazzo Tobia Pallavicino)
Giovanni Battista Castello detto il Bergamasco, Amore e Psiche (1558-1561; affresco; Genova, Palazzo Tobia Pallavicino)


Psiche porta il vasetto a Venere
Psiche porta il vasetto a Venere

Giovanni Battista Castello aveva, in sostanza, portato grandi novità a Genova. Se dovessimo trovare un artista particolarmente rappresentativo della Genova del tempo (escluso l’inarrivabile e geniale Luca Cambiaso, s’intende), non avremmo grandi difficoltà a fare il nome del Bergamasco: assieme a Cambiaso e ad Andrea Semino è il maggior esponente della pittura genovese del tempo, una pittura destinata a far scuola. E una pittura, quella dell’artista originario della Lombardia, destinata a ripetersi in altre imprese per Tobia Pallavicino. Poi, coi secoli, il lussuoso palazzo di Strada Nuova sarebbe passato, come detto in apertura, ad altri proprietari, arricchendosi di nuovi splendidi apparati decorativi: ma di questo vi parleremo la prossima volta!

Bibliografia di riferimento

  • AA.VV., Genova Palazzo Tobia Pallavicino, Sagep, 2013
  • Claudia Cieri Via, L’arte delle metamorfosi. Decorazioni mitologiche nel Cinquecento, Lithos, 2003
  • Cristina Bartolini, Gianni Bozzo, Genova: Palazzo Carrega Cataldi, Sagep, 2000
  • Elena Parma, La pittura in Liguria: il Cinquecento, Carige, 1999
  • Emanuela Brignone Cattaneo, Roberto Schezen, Genova: edifici storici e grandi dimore, Allemandi, 1992
  • Ezia Gavazza, La grande decorazione a Genova, Sagep, 1974


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Gli autori di questo articolo: Federico Giannini e Ilaria Baratta

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