Sono altresì fatture di questo Pittore, e delle sue più speciose a fresco, quelle che spiccano sopra le porte conducenti alla galleria nel palazzo dell’Eccellentissimo Marcello Durazzo del fu Gio.Luca: e rappresentano Prometeo, che anima l’uomo; Ercole, che abbatte l’idra; e Tizio, a cui l’avvoltoio divora il cuore. È quest’ultima una figura sì viva, e di tal forza d’espressione, che fa spavento a chi vi si affissa. Il brano è tratto dall’edizione settecentesca delle Vite de’ pittori, scultori et architetti genovesi, iniziate da Raffaele Soprani (Genova, 1612 - 1672) e continuate da Carlo Giuseppe Ratti (Savona, 1737 - Genova, 1795) con un secondo tomo pubblicato nel 1769. Il “Pittore” a cui si fa riferimento è Giovanni Andrea Carlone (Genova, 1639 - 1697), e il “Palazzo dell’Eccellentissimo Marcello Durazzo del fu Gio.Luca” è quello attualmente conosciuto come Palazzo Reale. Siamo, ovviamente, a Genova. Gli affreschi di cui parla Ratti sono quelli che decorano la Galleria della Cappella: abbiamo deciso di parlarne perché rappresentano un caso molto particolare del tardo barocco genovese, e perché sono tra i più magnifici e impressionanti di tutti quelli che formano il sontuoso apparato scenografico di un palazzo dalla storia plurisecolare, che fu proprietà di diverse famiglie le cui scelte e i cui gusti sono ravvisabili in ogni singola sala. Dalle teatrali finezze dei Balbi passando per il gusto carico e magniloquente dei Durazzo fino ad arrivare alla solennità regale dei Savoia. Gli affreschi di Giovanni Andrea Carlone furono dipinti, come ricorda Ratti, quando proprietari dell’edificio erano i Durazzo, che lo acquistarono nel 1679 e nel giro di poco tempo promossero l’ampliamento del palazzo con la costruzione dell’ala est e, più tardi, della Galleria degli Specchi e del terrazzo che regala una splendida vista sul porto di Genova.
La Galleria della Cappella nel Palazzo Reale di Genova |
Il percorso di visita di Palazzo Reale porta a visitare prima la Galleria degli Specchi e quindi la Galleria della Cappella: così, chi arriva dalla Galleria degli Specchi si troverà subito davanti agli occhi, sulla parete opposta della sala, l’affresco con il tormento di Tizio. Ovvero, quello a più forte impatto, tanto da essere l’unico dei tre episodi a essersi meritato il commento di Carlo Giuseppe Ratti. La scena, fortemente scorciata per darci l’impressione di trovarci davvero nel luogo in cui l’eroe mitologico sta subendo il suo tremendo supplizio, ci mostra il protagonista, Tizio, legato a una rupe da pesanti catene, mentre furibondo e disperato, con un’espressione terribile che manifestandosi attraverso un grido di estrema sofferenza gli deforma il volto, si contorce per il dolore provocatogli dall’avvoltoio che gli apre il petto per divorargli gli organi interni (per talune varianti del mito il cuore, per altre il fegato). Cosa aveva fatto questo personaggio, secondo la tradizione un gigante nato dall’unione di Zeus ed Elara, per meritarsi una tortura così atroce? Aveva avuto l’ardire di insidiare Latona, amante di Zeus: Era, moglie del sovrano degli dèi, nutriva una forte gelosia, e aveva sobillato Tizio al punto da indurlo a provare questa insana passione per la titanide oggetto delle attenzioni di Zeus. Una passione insana sfociata in un tentativo di violenza: scoperto, il gigante fu condannato al supplizio, anche se le diverse versioni della storia non concordano su chi fosse l’ideatore della punizione.
Giovanni Andrea Carlone, Il supplizio di Tizio (1694 circa; affresco; Genova, Palazzo Reale, Galleria della Cappella) |
Gli affreschi sarebbero tutti da ricollegare al tema della giustizia divina, come ci suggerisce l’affresco della volta, che rappresenta Astrea, divinità associata alla giustizia, dinnanzi a Giove: l’opera è del padre di Giovanni Andrea, ovvero Giovanni Battista Carlone (Genova, 1603 - 1684 circa), che la dipinse attorno al 1655. Peraltro, secondo un’ipotesi avanzata di recente, in occasione della grande mostra su Valerio Castello del 2008, dallo storico dell’arte Camillo Manzitti (tra i massimi esperti di Seicento genovese), sarebbe da ricondurre alla mano di Giovanni Battista anche l’affresco con Ercole che lega Cerbero (e non l’Idra, come Ratti scrive nel secondo tomo delle Vite): il raffronto è stato fatto su base stilistica e collocherebbe pertanto l’esecuzione del dipinto attorno alla data di realizzazione dell’affresco della volta. Vale a dire circa quarant’anni prima degli affreschi di Giovanni Andrea, che furono realizzati attorno al 1694. L’episodio rappresenta l’ultima delle dodici fatiche di Ercole, la serie di imprese che l’eroe mitologico aveva deciso di intraprendere per espiare le sue colpe (aveva infatti ucciso moglie e figli in un terribile accesso di folle ira provocatogli dalla dea Era). Nella scena, il pittore raffigura il cane infernale lungo tutto il bordo inferiore della composizione, in parallelo alla cornice della porta, mentre Ercole è intento a tenerlo fermo con la mano sinistra e a tirare, con la destra, la corda per legarlo. Anche in questo caso si tratta di un’opera che colpisce l’osservatore: l’espediente di raffigurare Cerbero lungo la cornice, mentre furiosamente si dibatte e con una delle tre teste tenta di raggiungere le braccia di Ercole, fa sentire partecipi della scena, quasi come se si stesse svolgendo sopra alle nostre teste.
Giovanni Andrea Carlone o Giovanni Battista Carlone, Ercole lega Cerbero (1694 circa o 1655 circa; affresco; Genova, Palazzo Reale, Galleria della Cappella). Credit |
L’episodio che compare sulla parete centrale ci presenta il titano Prometeo mentre, con la sua torcia alimentata dal fuoco divino, infonde la vita all’uomo: quella di Prometeo è una figura tragica, nonché tra le più amate della mitologia in quanto eroe amico dell’umanità e contrapposto all’inflessibile autorità degli dèi dell’Olimpo. Infatti Prometeo, dopo aver creato l’uomo, rubò il fuoco divino per donarlo all’umanità alla quale Giove lo aveva sottratto. Per questo, sempre secondo il mito, il titano andò incontro a un’atroce punizione divina, simile a quella di Tizio: anche Prometeo fu condannato a esser legato a una roccia e a vedersi divorare il fegato, ogni giorno, da un’aquila. Giovanni Andrea Carlone, in linea con le tendenze del barocco più spettacolare, fa fuoriuscire la gigantesca figura di Prometeo, che arriva trasportata da un grande velo sollevato dal vento, dallo spazio della finta nicchia entro cui dovrebbe essere collocata, in modo tale che la testa sporga oltre il cornicione: un espediente utilizzato per accrescere l’effetto illusionistico della rappresentazione. Anche in questo caso, la figura del primo uomo, animato da Prometeo, è collocata lungo il bordo inferiore della composizione: vediamo come la fiamma divina ravvivi anche il colore della carnagione per suggerire all’osservatore come l’uomo stia ricevendo il dono della vita. Peraltro, data la similitudine dei due supplizi, la storica dell’arte Ezia Gavazza ha avanzato l’ipotesi che la scena sulla parete d’uscita dalla sala debba essere, appunto, quella del tormento di Prometeo, e che tutti e tre gli episodi siano collegati al mito del titano (Ercole fu, infatti, il suo liberatore).
Giovanni Andrea Carlone, Prometeo anima l’uomo (1694 circa; affresco; Genova, Palazzo Reale, Galleria della Cappella) |
Sappiamo tuttavia poco su questi affreschi: certo è che questa teatralità cruda e brutale rappresenta quasi un unicum per la decorazione ad affresco seicentesca nei palazzi genovesi, dal momento che le famiglie della nobiltà cittadina erano orientate verso scene più pacate. Qui, le figure enormi, le loro espressioni dense di pathos e i loro gesti ampi creano sconcerto in chi osserva le pitture: “il truce aspetto di quel Tizio non è cosa da piacere ad occhi gentili e in luogo sì degno”, scrisse nell’Ottocento lo storico genovese Federico Alizeri, nella sua Guida artistica alla città di Genova, in merito alla più terribile delle scene del ciclo di Giovanni Andrea Carlone. E nello stesso testo, Alizeri scriveva che, stando a quanto qualcuno gli aveva riferito, era stata proposta l’idea di incaricare uno dei pittori genovesi più in vista dell’Ottocento, Giuseppe Isola, di dipingere dei quadri “di più lieto argomento” con i quali celare gli affreschi di Carlone. Ma per fortuna le opere non sono state nascoste: eventuali coperture avrebbero tenuto molti visitatori all’oscuro di una delle invenzioni più singolari di tutto il tardo barocco genovese.
Bibliografia di riferimento
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).