Si potrebbe dire che non sia esistito un solo Giovan Francesco Caroto: ne sono esistiti tanti quanti sono i generi coi quali s’è cimentato, gli artisti cui s’è accostato, l’esperienze che maturò durante i suoi numerosi viaggi. Artista, per molti versi, non così agile da inquadrare. Tutt’altro. E sebbene non sia mai stato un artista sconosciuto alla critica, e sia fiorita su di lui una letteratura piuttosto cospicua (parliamo, del resto, d’un pittore ch’era abituato a firmare le sue opere, e sul quale esistono diverse fonti documentarie), il suo riconoscimento è stato sempre confinato agli ambiti locali. Anche perché la critica lo ha sempre guardato con occhio storto: era del resto un artista discontinuo, dal carattere stravagante e arguto (“bizzarro cervello” lo definiva Vasari), capace di raffinatissimi ritratti e di minuziosi paesaggi ma anche d’inguardabili pastiche, e quel suo rifarsi alle fonti più varie (Berenson utilizzava però un altro termine: diceva che Caroto “acchiappava”) veniva letto come un incurabile difetto, come la cifra d’un artista abile a cavalcare le tendenze ma superficiale, privo di personalità.
Anche per queste ragioni fino al 2022 non gli era mai stata dedicata una mostra monografica. E percorrendo di cima a fondo le sale della Gran Guardia di Verona, sede della mostra Caroto e le arti tra Mantegna e Veronese che per la prima volta ha radunato in un unico luogo le principali opere di Giovan Francesco Caroto, la prima impressione è proprio quella d’un artista facilmente incline a cambiare idee e punti di riferimento per tutto il corso della carriera, con esiti talvolta decisamente discutibili: piace pensare, per esempio, che i canonici di San Giorgio in Braida di Verona abbiano sostituito il suo San Giorgio con un dipinto del Veronese dopo appena una ventina d’anni non per ragioni legate all’avvicendarsi delle mode, ma proprio perché il San Giorgio di Caroto, per quanto interessante, è un quadro brutto. Ad ogni modo, studî monografici e mostre servono anche a questo: a mettere in discussione i giudizî affrettati, a vedere se dai confronti inediti tra le opere è possibile ottenere riscontri più puntuali sulla personalità di un artista, a comprendere quanti spunti d’originalità si possano incontrare nel suo percorso. E in effetti, dalla pubblicazione della prima monografia su Caroto, quella di Maria Teresa Franco Fiorio del 1971, alla mostra della Gran Guardia, cinquant’anni di ricerche hanno prodotto risultati più che apprezzabili. Rimangono comunque problemi aperti: uno di questi è legato alla bella Sacra Famiglia con san Giovannino e santa Elisabetta ch’è conservata al Museo di Castelvecchio di Verona, opera firmata e datata 1531 e dunque opera chiave per ricostruire il percorso dell’artista.
La Sacra Famiglia figura in effetti tra i dipinti più noti e più citati della produzione di Caroto. L’opera apre la questione dei rapporti tra Caroto e Giulio Romano: il problema è tutt’altro che ozioso, dacché s’inserisce nel quadro delle relazioni che il pittore veronese ebbe con Mantova, e potrebbe esser centrale per capire, per esempio, perché nel 1534 Caroto rifiutò una commissione decisamente importante, l’esecuzione degli affreschi del Duomo di Verona su cartoni di Giulio Romano, incarico poi affidato a Francesco Torbido. Questa tela di Caroto potrebbe, dunque, fornire interessanti indicazioni.
L’artista sceglie una composizione a piramide, coi vertici posizionati sul capo della Vergine e sui piedi di Gesù Bambino e del san Giovannino, che si baciano sotto gli occhi di Maria, raffigurata da Caroto con dolci tratti adolescenziali, con sguardo amoroso, coi capelli castani raccolti in un velo trasparente, dipinto con qualche rigidità di troppo. Più riguardevole invece la resa della luce, che giunge forte da sinistra e col suo bagliore diffuso investe il volto delicato e aggraziato della Vergine e i corpi erculei di Gesù e di san Giovannino, colti in un abbraccio fraterno. Il bacio tra i bambini non è un’invenzione del veronese: nasce in ambito leonardesco, e noti sono i rapporti che Caroto ebbe con l’ambiente milanese. Nel dipinto conservato a Castelvecchio, dove arrivò nel 1871 dalla collezione di Cesare Bernasconi, l’artista riprende in maniera piuttosto fedele la Sacra Famiglia di Bernardino Luini conservata oggi al Prado, e che giunse in Spagna come dono di Cosimo I de’ Medici a Filippo II (curioso notare che negl’inventarî dell’Escorial del 1574 fosse assegnata a Leonardo da Vinci). Rispetto a Luini, che sposta le figure principali di lato per dare risalto anche a san Giuseppe, la composizione di Caroto è fortemente centrale e riserva un ruolo poco più che accessorio alle figure di san Giuseppe, che vediamo sulla sinistra, addormentato, con la mano destra che sorregge la testa e il gomito che s’appoggia su di un rilievo antico raffigurante una testa con berretto frigio, e di santa Elisabetta a destra, coperta quasi del tutto dalla spalla della Vergine. Ancor più indietro si nota un angelo nella penombra, alle spalle di Giuseppe, e nell’angolo destro si riescono a scorgere le foglie d’un albero. La firma del pittore, “Fr. Caroto / [M]DXXXI”, compare sul parapetto che vediamo vicino al braccio di Maria, coperto dalla pesante manica di velluto rosso, finemente indagata nelle pieghe dei panneggi, e che rimane in piena ombra dietro la schiena di san Giovannino. Curioso il gesto della mano destra, con l’indice che cerca di tenere il segno nel libro e al contempo prova ad accompagnare il movimento di Gesù che abbraccia il cugino.
Chiarito il legame con l’ambiente leonardesco, occorre indagare quello con l’ambito di Raffaello: la critica, com’è facile prevedere, da tempo s’interroga sull’eventualità che questa Sacra Famiglia possa esser nata dal contatto con le invenzioni di Giulio Romano, presente a Mantova fin dal 1524. “La tela”, scriveva Maria Teresa Fiorio nella monografia del 1971, “mostra l’accentuarsi della gravitazione di Giovan Francesco nell’ambito d’indagine di Giulio Romano, elemento concordemente riscontrato dalla critica”. Dello stesso parere Gianni Peretti, curatore, assieme a Francesca Rossi ed Edoardo Rossetti, della mostra del 2022: a suo avviso, su quest’opera “aleggia l’ombra di Giulio Romano”. Scettico s’era dimostrato Carlo Del Bravo, che preferiva intravedere in quest’opera la lezione di Callisto Piazza. E nella monografia su Caroto pubblicata nel 2020 come hors-d’oeuvre della mostra, anche Stefano L’Occaso ha espresso una posizione contraria (“tenderei a ridimensionare questo presunto rapporto con Giulio Romano”), ravvisando invece, sulla base d’uno spunto di Francesca Rossi, un avvicinamento al Michelangelo della Cappella Sistina, cui rimandano inevitabilmente le proporzioni massicce e muscolose dei due bambini. E in effetti, non sembra improprio affermare che quel “processo di rimeditazione su motivi raffaelleschi” che la Sacra Famiglia potrebbe richiamare può anche prescindere dal riferimento a Giulio Romano, col quale Caroto non condivide la tavolozza né gli originali cangiantismi e spesso neppure gli schemi compositivi, ma giusto il comune riferimento alle torsioni michelangiolesche e la resa monumentale delle figure.
Chi propende a favore di un solido rapporto tra Caroto e Giulio Romano ritiene che il veronese si sia rifiutato di eseguire gli affreschi del Duomo sui suoi cartoni perché aveva ormai assimilato bene il modello e non aveva bisogno di lavorare su invenzioni già pronte. Viceversa, la posizione contraria indica proprio nella lontananza di Caroto da Giulio Romano il motivo del rifiuto. Un solo elemento accomuna tutti: la difficoltà nell’approcciarsi all’arte di Caroto, uno dei pittori più ostici e insidiosi per uno studioso d’arte del Cinquecento. E proprio per questo motivo forse anche uno dei più affascinanti.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).