Nella chiesa fiorentina di Santa Maria Novella si trova un’opera che, alla fine del XIII secolo, segnò una cesura nella storia dell’arte italiana. Entrati in chiesa, alzando il nostro sguardo lungo la navata centrale, possiamo ammirare infatti una croce dipinta appartenente alla fase iniziale dello straordinario percorso di Giotto, che già alla fine del Trecento venne individuato da Cennino Cennini come colui che “rimutò l’arte del dipingere di greco in latino e ridusse al moderno”. Riguardo a quest’opera si possiede un’attestazione documentaria risalente al 1312: nel testamento di un certo Ricuccio di Puccio del Mugnaio è indicata la disposizione per indirizzare una somma di denaro da destinare alla fornitura di olio per poter alimentare e tenere accesa una lampada davanti al grande crocifisso che Giotto realizzò per la chiesa domenicana di Firenze. È la più antica documentazione riguardo alla croce realizzata dal pittore per la chiesa di Santa Maria Novella. In seguito viene ricordata nei Commentari di Lorenzo Ghiberti e nelle Vite di Giorgio Vasari. L’attuale collocazione all’interno della chiesa è stata studiata in base alla posizione dell’antico tramezzo, a cui quest’opera era in origine probabilmente destinata.
È questa la prima occasione in cui Giotto si confronta con la tipologia della croce dipinta. L’iconografia è quella del Christus patiens (Cristo sofferente), che compare nella pittura italiana alla metà del secolo con Giunta Pisano e che viene raccolta e impreziosita stilisticamente da Cimabue. Oltre alla figura dominante di Cristo inchiodato alla croce, nei capicroce laterali sono presenti la Vergine e san Giovanni dolenti. La parte inferiore della carpenteria termina con un suppedaneo trapezoidale, in cui il pittore raffigura il Golgota con il teschio di Adamo. Giotto in questa sua prima croce si presenta da subito con un linguaggio figurativo nuovo e potente rispetto al panorama pittorico contemporaneo, in grado di aggiungere nuovi valori a quell’immagine di devozione. Per la prima volta nella pittura italiana, la raffigurazione di Cristo in croce ci restituisce la percezione di un corpo umano vero, in cui non è rintracciabile alcun aspetto del divino. Al nostro sguardo viene offerto un corpo umano con una struttura ben definita, in cui si possono individuare muscoli, ossa e tendini. Di quel corpo così sofferente, possiamo percepire il peso grazie alla posizione che Giotto gli conferisce: la figura, infatti, non viene più raffigurata seguendo l’innaturale inarcamento che ancora permaneva nelle croci di Cimabue, ma viene attratta verso il basso e abbiamo l’impressione che sia aggettante rispetto alla superficie su cui è rappresentata.
Gli esiti raggiunti da Giotto con quest’opera sono straordinari e avrebbero aperto nuovi scenari nella pittura italiana a partire dalla fine del Duecento. Alcuni dettagli sono davvero eccezionali e illustrano già in maniera evidente le novità che Giotto introdusse nella pittura dell’epoca. Ad esempio, osserviamo il dettaglio, meraviglioso, delle mani inchiodate: Giotto cerca di rappresentare nella maniera più realistica possibile la posizione assunta dalle mani inchiodate alla croce, che non sono aperte e distese come in precedenza, ma si stanno chiudendo su se stesse. È evidente la volontà del pittore di cercare di riprodurre il dato naturalistico in maniera più fedele possibile alla realtà, distaccandosi dalla tradizione pittorica. L’attenzione e la capacità di Giotto di realizzare questi dettagli naturalistici permettono di conferire a quel corpo un aspetto davvero umano, senza far trasparire nulla di divino. Il corpo viene modellato tramite un sapiente e sicuro utilizzo del chiaroscuro, raggiungendo inediti esiti plastici. Max Seidel, nel suo magistrale saggio sulla Croce di Santa Maria Novella, ha messo in evidenza i rapporti di Giotto con la scultura dell’epoca. Quest’ultima, infatti, in Italia aveva raggiunto esiti fortemente naturalistici già dalla metà del XIII secolo, dapprima con Nicola Pisano e successivamente con il figlio Giovanni e con Arnolfo di Cambio.
Anche nelle figure dei dolenti, di dimensioni ridotte rispetto a quella centrale del Cristo, Giotto cambia il passo rispetto alla cultura pittorica contemporanea: infatti non è più la posizione delle braccia e del volto, e dunque il loro atteggiamento, ad esprimere il loro dolore, ma piuttosto questo sentimento va ricercato nei loro sguardi, a cui il pittore conferisce grande importanza nella rappresentazione e sarà uno dei grandi elementi innovativi della sua pittura.
Durante l’importantissimo restauro, terminato nel 2001, eseguito dall’Opificio delle Pietre Dure, le indagini diagnostiche hanno dato la possibilità di scoprire che Giotto aveva fatto modificare le dimensioni della carpenteria per poter realizzare la sua nuova idea di Cristo in croce: il pittore infatti aveva bisogno di maggiore spazio per poter realizzare la fisicità umana di Cristo. Inoltre, è stato osservato che aveva realizzato uno straordinario disegno preparatorio a mano libera, seppur con l’aiuto di un patrono. Alcuni dettagli del disegno preparatorio osservati agli infrarossi, come la rappresentazione della barba, sono pienamente rivelatori del nuovo approccio di Giotto verso la pittura: infatti sono disegnati non seguendo modelli della tradizione iconografica, ma traendo ispirazione dall’osservazione diretta della realtà. Nella resa pittorica finale Giotto dovette però poi mitigare questo sua nuova resa naturalistica, scendendo probabilmente a compromessi con l’aspettativa della committenza: la barba, infatti, appare all’osservatore curata, con i peli ordinati e pettinati, non riccioluti e incolti come si può notare nell’analisi agli infrarossi.
La paternità di quest’opera è stata oggetto di un dibattito molto intenso durante il Novecento. Robert Oertel nel suo saggio Svolta nella ricerca su Giotto del 1943, in cui venivavano pubblicate in maniera più analitica le sue idee sull’opera giovanile di Giotto pubblicate già nel 1937, pensava che la discussione riguardo all’attribuzione della croce dipinta di Santa Maria Novella si sarebbe esaurita in breve tempo in quanto la paternità dell’opera a Giotto risultava convincente. Nei decenni successivi, invece, il dibattito riprese deciso vigore. I detrattori di questa attribuzione contestavano, in particolare, il realismo del Cristo fiorentino rispetto all’idealismo delle figure della Cappella degli Scrovegni, opera attribuita a Giotto con certezza. Inoltre, quest’opera è in grado di creare un fecondo ambiente di confronto rispetto a un altro contesto artistico, quello della navata della Basilica superiore di San Francesco ad Assisi con le Storie di Isacco e le successive raffigurazioni, che ha infiammato il dibattito della storiografia artistica del Novecento che si è occupata di pittura italiana medievale e che ha preso il nome di “questione giottesca”. Osservando le figure presenti sulla Croce fiorentina e quelle delle due scene narrative delle Storie di Isacco, si possono individuare significative analogie stilistiche che indicano che le due composizioni sono state ideate e realizzate dallo stesso artista. Osserviamo, ad esempio, il particolare delle mani nella seconda delle due scene bibliche, quella in cui Esaù viene respinto dal padre Isacco, ingannato dall’altro figlio Giacobbe che voleva ottenere i diritti della primogenitura con la complicità della madre Rebecca. La mano di Esaù che impugna un cucchiaio con cui porge del cibo al padre è realizzata con lo stesso spirito di osservazione e riproduzione del dato naturalistico che è stato in precedenza rilevato nella mano di Cristo inchiodata alla croce. Un altro felice confronto si può riscontrare accostando il perizoma di Cristo e il lenzuolo del letto di Isacco: entrambi hanno una forte resa materialistica, ottenuta attraverso una sapiente modulazione della luce. Quest’ultimo elemento gioca un ruolo fondamentale: in entrambe le opere viene usata in maniera teatrale, nonostante la diversità di composizione. Nelle Storie di Isacco, in cui ci troviamo davanti a una scena corale, in cui i protagonisti si trovano su un palcoscenico, la luce inonda la stanza ricreata da Giotto, una delle novità più importanti della rivoluzione giottesca, e aiuta a sostenerne la spazialità. Nella Croce, invece, la luce colpisce il corpo di Cristo, esaltandone la singola figura. Mettendo a confronto il volto del San Giovanni e quello di Esaù, è possibile evidenziare un altro elemento di stretta analogia tra le due raffigurazioni: in entrambi, infatti, si può riscontrare la stessa soluzione per il naso, realizzato tramite un pennellata piatta accompagnata da una netta linea di luce.
É la filologia figurativa a dirci che è la stessa mano ad essere intervenuta in entrambe le situazioni. Una volta attribuita la Croce di Santa Maria Novella a Giotto, sostenuta anche dalla testimonianza pressocchè contemporanea presente nel testamento di Ricuccio di Puccio del Mugnaio datato 1313, bisogna riconoscere che colui che intervenne nel cantiere di Assisi, realizzando le Storie di Isacco (per questo spesso indicato come Maestro delle storie di Isacco) e le rappresentazioni successive fino ad arrivare alle Storie Francescane, portando dirompenti novità nella pittura italiana, che condizioneranno anche l’avvio dell’arte moderna, è Giotto, perchè il modo di intendere e realizzare la pittura (seppur con le dovute differenze dovute al contesto e al supporto impiegato) è analogo in entrambe le opere.
Per quanto riguarda la cronologia più specifica, è stata avanzata l’ipotesi che la Croce sia stata realizzata verosimilmente tra gli affreschi delle Storie di Isacco e l’inizio del successivo ciclo delle Storie di San Francesco. Si può ad esempio osservare la stretta analogia che intercorre tra la Vergine addolorata di Santa Maria Novella ed alcuni volti delle Storie francescane, in particolare il volto piangente di una donna nell’episodio della Morte del cavaliere di Celano, la sedicesima delle ventotto scene del ciclo: è probabile che sia stato riutilizzato un disegno preparatorio e in questo caso è lecito pensare che l’originale sia stato realizzato per l’icona sacra, la Croce. È possibile dunque ipotizzare di assegnare una priorità cronologica al dipinto fiorentino o perlomeno considerarlo pressocchè contemporaneo rispetto all’intervento di Giotto nel cantiere di Assisi con le Storie di Isacco, avanzando una proposta di datazione nella prima metà degli anni Novanta del Duecento.
L'autrice di questo articolo: Francesca Interguglielmi
Storica dell'arte, laureata in Arte Medievale presso l'Università degli Studi di Siena. Attualmente si sta formando in didattica museale presso l'Università degli Studi Roma Tre.