Il “Tramonto” di Giorgione, uno dei paesaggi più suggestivi della storia dell'arte


Il Tramonto del Giorgione è un dipinto realizzato all'incirca tra il 1506 e il 1508, conservato alla National Gallery di Londra. Ed è uno dei paesaggi più suggestivi della storia dell'arte.

Se dovessi indicare due o tre dei pittori più affascinanti della storia dell’arte, su un nome non avrei alcun dubbio, e assegnerei un posto in questa speciale graduatoria a Giorgione. È di lui che vi voglio parlare in questo post... o meglio: vi voglio parlare di quella che per me è una delle sue opere più suggestive, il Tramonto conservato alla National Gallery di Londra. La prima impressione che ho avuto, trovandomi dinanzi a questo dipinto, è stata un senso di calma, serenità e rilassatezza, suggerito da quello che è il vero protagonista di questo olio su tavola: il paesaggio.

Un paesaggio roccioso, per la precisione. Sulla destra, le ultime propaggini di una grotta scoscesa. Sulla sinistra, alcuni massi sulla cui superficie qualcuno, in passato, ha voluto distinguere dei volti mostruosi (ma si tratta di una ovvia forzatura), e ai quali è saldamente aggrappata una rigogliosa vegetazione. In basso, un tranquillo laghetto. I due elementi naturali agli estremi, vale a dire gli alberi a sinistra e la grotta a destra, si dispongono paralleli come tipico nell’arte di Giorgione, per permetterci di ammirare tutto quello che sta nel mezzo: un idilliaco paesaggio di campagna su cui si svolge la vicenda di alcune figure umane. Al centro, un arbusto con le foglie che sono appena spuntate e sullo sfondo, in lontananza, un borgo di campagna, elemento questo tipico dell’arte di Giovanni Bellini, da molti considerato maestro di Giorgione, pur senza evidenza storica. La meravigliosa luce rossastra del tramonto illumina il paesino e le sue case di legno, e quasi indora le acque del lago che osserviamo subito sotto alle colline che si perdono oltre l’orizzonte, e che appaiono blu per suggerirci il senso della distanza che ci separa da loro.

Giorgione, il Tramonto
Giorgione, Il Tramonto (1506-1508 circa; Londra, National Gallery)

La luce, naturale e innovativa, caratterizza il dipinto a punto tale da aver spinto Roberto Longhi, nel 1934, a suggerire il titolo con cui è oggi universalmente noto: appunto, il Tramonto. Longhi fu, peraltro, uno dei primi ad attribuire l’opera a Giorgione all’indomani della scoperta (se tralasciamo l’iniziale titubanza dello storico dell’arte piemontese, sciolta però quasi subito): un’attribuzione che fu pienamente accettata (benché avrebbe comunque dato adito in futuro a qualche contestazione) quando il dipinto, nel 1955, fu esposto alla mostra su Giorgione, che peraltro fu l’ultima esposizione dedicata al pittore prima dell’evento del 2010 di Castelfranco Veneto. L’opera spuntò fuori nel 1933 dalla Villa Garzoni di Pontecasale, un villaggio di campagna a metà strada tra Padova e Rovigo: all’epoca della scoperta, che si deve all’allora direttore del Museo Correr di Venezia, Giulio Lorenzetti, la villa era di proprietà della famiglia Donà dalle Rose, ma anticamente apparteneva ai Michiel. Quest’ultima era la famiglia dalla quale proveniva Marcantonio Michiel, il collezionista e letterato che, con i suoi taccuini e le sue descrizioni di opere da lui possedute oppure viste in collezioni private veneziane, ha aiutato gli storici dell’arte moderni a ricostruire alcune tappe della vicenda biografica e artistica di Giorgione. Non è quindi insensato ipotizzare, pur in assenza di prove certe, che il Tramonto provenisse dalle collezioni della famiglia. Il dipinto fu poi acquistato, nel 1934, dallo storico dell’arte d’origini russe Vitale Bloch, che lo possedette fino al 1957, anno in cui entrò a far parte, a seguito di un’ulteriore cessione, delle collezioni della National Gallery: questa la storia dei passaggi dell’opera.

Dettaglio del tramonto sul borgo
Dettaglio del tramonto sul borgo

Abbiamo detto che il protagonista principale dell’opera è il paesaggio: in molti però si sono affannati nel tentativo di sciogliere il nodo del significato dei quattro personaggi che incontriamo nel quadro. Ovvero il vecchio tra le rocce della grotta, il cavaliere che uccide il drago, e i due uomini seduti al centro: sembra che uno dei due, il più anziano, stia esaminando la gamba del più giovane, probabilmente perché ferito. Fino a non molto tempo fa, l’interpretazione più accreditata era quella che chiamava in causa la religione: il vecchio eremita nella grotta sarebbe sant’Antonio Abate, la cui presenza sarebbe anche spiegata dal maiale, animale che sempre lo accompagna e che nel dipinto compare nelle acque del laghetto sul bordo inferiore. Il giovane ferito al centro verrebbe identificato come san Rocco (per via della ferita, suo tipico attributo iconografico), il vecchio che lo assiste sarebbe il suo amico san Gottardo, mentre il cavaliere che uccide il drago sarebbe, come facile immaginare, san Giorgio: sono tutti santi connessi alla cura delle malattie, e in tal senso potrebbe essere interpretata l’opera. L’ipotesi fu formulata, per la prima volta, nel 1975 da Cecil Gould, conservatore della National Gallery, e fu quindi accettata da altri storici dell’arte. Maurizio Calvesi, nel 1970, aveva proposto di individuare il vecchio al centro come san Giacomo che cura un pellegrino, e ancora prima Maurizio Bonicatti, nel 1964, ipotizzava che il tema fossero le tentazioni di sant’Antonio, mentre in precedenza altri come Giorgio Sangiorgi (nel 1933) e Lionello Venturi (nel 1958) pensarono a Enea e Anchise agli Inferi.

Dettaglio del vecchio tra le rocce
Dettaglio del vecchio tra le rocce

Dettaglio dei due uomini al centro
Dettaglio dei due uomini al centro

L’ultima ipotesi, un’ipotesi che peraltro sta prendendo molto campo tra gli studiosi, è quella formulata da Enrico Dal Pozzolo nel 2009: la scena racconterebbe il mito di Filottete, l’eroe greco che, durante il viaggio verso Troia, si ferì a un piede nel corso di uno scalo e, diventato un peso per i suoi compagni, fu abbandonato sull’isola di Lemno. In seguito, i greci tornarono a riprenderlo perché un indovino aveva predetto che Troia non sarebbe caduta se ai combattimenti non avesse partecipato anche Filottete. Peraltro Filottete era anche il protagonista di una tragedia di Sofocle che nel 1502 era stata stampata a Venezia da Aldo Manuzio: è dunque probabile che la pubblicazione avesse destato un certo interesse per il personaggio anche tra gli artisti. Il giovane ferito al centro sarebbe dunque, secondo tale interpretazione, proprio Filottete, mentre l’uomo che lo aiuta e il vecchio tra le rocce sarebbero due compagni: il primo si sincera delle condizioni del giovane, e l’altro invece controlla che tutto stia filando per il verso giusto. Possiamo tralasciare l’interpretazione legata alla figura a cavallo: si tratta infatti, non lo abbiamo detto, di un’aggiunta spuria. Le immagini che accompagnano l’analisi tecnica del dipinto sul sito della National Gallery ci dimostrano come, nel 1933, del cavaliere non ci fosse traccia: fu infatti aggiunto dopo un restauro nel 1934, accostando frammenti di antiche tele, per coprire un’area particolarmente danneggiata del dipinto. Per cui, non ha più senso domandarci il perché della sua presenza.

Il Tramonto prima e dopo il primo restauro del 1933
Il Tramonto prima e dopo il primo restauro del 1933. Immagini della National Gallery di Londra

Tuttavia, niente ci impedisce di pensare che si tratti di una semplice scena pastorale immersa in un idilliaco paesaggio veneto, uno di quei dolci paesaggi di campagna che caratterizzano la regione di provenienza del pittore e che sono un tratto distintivo della sua arte. Un paesaggio dove gli uomini altro non sono che sparute comparse. Un paesaggio che si ammanta di un’atmosfera ovattata, abbandonando le descrizioni particolareggiate che costituivano una delle principali caratteristiche della prima produzione di Giorgione, e accogliendo invece da una parte un uso più esteso e capillare dello sfumato leonardesco, e dall’altra un estro più soggettivo (motivi che avrebbero spinto gli studiosi a una datazione tarda dell’opera, tra il 1506 e il 1508 circa): del resto, per donare lirismo a un paesaggio occorre leggerlo e interpretarlo secondo il proprio sentire.

È proprio questo lirismo ciò che distingue i paesaggi giorgioneschi da quelli nordici, fiamminghi soprattutto (anche l’uccellaccio che appare nelle acque del lago del Tramonto appare un chiaro omaggio all’immaginario di Hieronymus Bosch), che circolavano nella Venezia del tempo e che avevano spinto i pittori a creare opere che anche solo in un bel paesaggio trovassero la loro ragion d’essere. Senza dunque interpretazioni moraleggianti, senza necessità di inventarsi particolari allegorie per giustificare un’ambientazione, senza bisogno di trovare un soggetto definito. Lo faceva Giorgione, lo facevano anche suoi contemporanei come Giulio Campagnola, Bartolomeo Montagna e Cima da Conegliano, lo avrebbero fatto in seguito anche altri. Proprio perché nella Venezia dei primissimi anni del Cinquecento era aumentata, spinta dall’arrivo dei dipinti di area nordica, la richiesta per opere in cui il paesaggio rivestisse un ruolo di primo piano, e talvolta in cui addirittura fosse l’unico protagonista, senza che il quadro avesse una storia da raccontare. E talvolta non è forse bello evitare di pensare a eventuali soggetti, e lasciarsi trasportare dall’estro creativo del pittore e dalla sua capacità di affascinare l’osservatore solo con un meraviglioso paesaggio al tramonto?

Giulio Campagnola, Paesaggio con due uomini seduti vicino a un bosco
Giulio Campagnola, Paesaggio con due uomini seduti vicino a un bosco (1510 circa; Parigi, Louvre)

Bartolomeo Montagna, Paesaggio con castello
Bartolomeo Montagna, Paesaggio con castello (1500-1510 circa; Tokio, Museo Nazionale d’Arte Occidentale)

Cima da Conegliano, Paesaggio con duello
Cima da Conegliano, Paesaggio con duello (1510-1515 circa; Berlino, Gemäldegalerie)


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Federico Giannini

L'autore di questo articolo: Federico Giannini

Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).






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