Tra gli affreschi della Stanza dell’Incendio di Borgo, una delle quattro che Raffaello affrescò coi suoi collaboratori nel Palazzo Apostolico del Vaticano appena arrivato a Roma, ce n’è uno che raffigura l’incoronazione di Carlo Magno: il programma iconografico della decorazione, evidentemente, aveva inteso stabilire un parallelo tra il pontefice allora in carica, Leone X, firmatario d’un concordato col re francese Francesco I, e il suo lontano predecessore Leone III, che nel Natale dell’800 aveva posto la corona d’imperatore sul capo del re dei franchi. Nell’affresco, eseguito in maniera estesa dagli aiuti di Raffaello, la basilica è coperta da ricchi, pregiati, coloratissimi paramenti di seta che scendono dalle volte e inquadrano, come fossero le cortine d’un sipario, la cerimonia solenne. Ecco: con tutta probabilità, Gianluigi Colin aveva in mente qualcosa del genere quando, pensando alla sua mostra Quel che resta del presente, ha immaginato di drappeggiare l’interno della chiesa di Sant’Agostino a Piacenza coi suoi tessuti colorati, in parte appesi alla volta della navata centrale, e in parte sistemati là dove un tempo le cornici barocche accoglievano le pale d’altare che ornavano una delle chiese più imponenti della città.
Dentro a Sant’Agostino però non è rimasto più niente. Le cinque navate in passato traboccanti di stucchi, dipinti e sculture, oggi conservano soltanto le tracce di quello che un tempo era qui conservato. Son state le vicissitudini della storia a fare di Sant’Agostino un sontuoso guscio da riempire: prima, nel 1734, la trasmutazione dell’edificio in ospedale militare. Poi, nel 1798, la soppressione dell’ordine dei Canonici Lateranensi e la conseguente messa all’asta del patrimonio mobile: opere d’arte, libri, arredi liturgici. Probabilmente rimase solo quello che non era vendibile, incluse le statue delle navate laterali, danneggiate durante l’occupazione napoleonica: furono decapitate dai soldati francesi per spregio. Una nuova trasformazione nel 1801, questa volta in magazzino militare, e in seguito, nel 1863, il passaggio al Demanio pubblico: la chiesa fu così mutata in caserma. Di recente la nuova, ultima vocazione: una sede espositiva, centro dove vengono organizzate mostre, dove si tengono eventi di varia natura. Ed è su questa storia complessa che Gianluigi Colin ha deciso di agire.
È stato Jean Clair, qualche tempo fa, a scrivere che siamo passati dalla cultura del culto, fatta di chiese, pale d’altare, liturgie, magnificenza degli uffici, al culto della cultura, fatto di musei, installazioni, esposizioni, fiere d’arte. È anche diventata prassi consolidata, da parte di certi milieu intellettuali, ricordare d’infantili gite domenicali al museo organizzate da genitori con la passione del “bello”, che preferivano evitare di portare i pargoli a messa, e in sostituzione li sottoponevano a infinite passeggiate tra le opere d’arte, magari le stesse che in antico stavano dentro alle chiese. È un culto che oggi ha schiere di proseliti e ch’è fondato su di un cerimoniale costante e ripetitivo come quella della religione: non esiste allora luogo migliore d’una chiesa convertita in un museo (perché di fatto, per i più, “museo” e “sede espositiva” diventano spesso espressioni intercambiabili) per render manifesta la trasmigrazione delle nostre liturgie quotidiane. Colin si rifà ai parati che venivano allestiti nelle chiese in occasione di particolari solennità e, coi suoi tessuti colorati, celebra anche lui solennemente, e col massimo rispetto dovuto al luogo che lo ospita, la ritualità di queste nuove pratiche sociali, e in un certo senso anche il loro ecumenismo, dal momento che i grandi teli che Colin appende al soffitto della chiesa sono totalmente aniconici, e paiono parlare a tutti la stessa lingua.
Esiste poi un’altra dimensione ravvisabile nell’intervento di Colin, che s’apprezza forse ancor meglio ammirando le sue tele colorate sistemate dentro le cornici dove un tempo si trovavano le pale d’altare: quello dell’arte contemporanea come mezzo funzionale a far risaltare un significato ch’era dato per scontato, o al quale non si badava, con l’effetto che si corre il rischio concreto di perderne il senso. Oggi, anche quando entriamo in una chiesa, tendiamo a valutare le opere che vi troviamo per il piacere che suscitano quando le osserviamo, ma il loro portato è più ampio, e l’agglomerato di segni, manifestazioni, rimandi, riti, passioni cui le opere d’arte aprono s’estende decisamente oltre ciò che percepiamo a tutta prima. Ecco che allora, come scrive Aldo Colonetti, entrare nella chiesa di Sant’Agostino coi parati di Colin “significa in primo luogo contestualizzare nuovamente l’arte all’interno di una ritualità preesistente che non possiamo fare finta che non esista, pena la totale incomprensione della ricerca e del linguaggio, riducendo così l’arte a una funzione decorativa”. L’arte di Colin si pone dunque come una sorta di difesa contro l’appiattimento, un antidoto all’omologazione, una risposta puntuale “contro una globalizzazione”, sottolinea Colonetti, “capace di banalizzare ogni linguggio”, poiché “ci ha riportato all’interno di uno spazio che ci costringe di pensare nuovamente l’opera come protagonista rituale di una determinata storia”. Una forma di resistenza come quella che uno dei massimi astrattisti italiani, Roberto Floreani, ha di recente attribuito al linguaggio dell’arte astratta, quando dice che la coscienza dell’artista s’interroga anche sul “significato critico stesso della ricerca”, riflettendo “sui concetti estesi di contemporaneità, attualità e inattualità, spettacolarizzazione o interiorizzazione, prezzo e valore, distinzione dell’opera rispetto alla merce e di come, oggettivamente, questi aspetti riguardino compiutamente il suo mondo”.
Ma c’è anche un ulteriore livello di lettura. Si fa fatica a immaginare da dove provengano i grandi teli di Colin: si tratta, sostanzialmente, di materiale di reimpiego. Sono tessuti di scarto, utilizzati in origine per la pulizia delle rotative con cui tutti i giorni vengono stampate le migliaia di copie del Corriere della Sera che da Milano vengono spedite in Italia e nel mondo (Colin è l’art director del quotidiano di via Solferino, oltre che co-fondatore de La Lettura). La pratica artistica di Colin s’è spesso nutrita dei frutti, e talora anche degli scarti, del suo lavoro al giornale: forse è anche questa sua doppia anima, questa sua continua esperienza della realtà quotidiana, a renderlo “un artista lucido che sa benissimo di esserlo”, come lo ha definito, in modo laconico ma efficace, uno dei massimi scrittori spagnoli contemporanei, Arturo Pérez-Reverte. Gl’inchiostri della tipografia impregnano la sua vita e la sua arte per comporre un linguaggio fatto di segni e forme che ricordano quelle della scrittura: e “come gli antichi geroglifici”, nota Luigi De Ambrogi, “possiamo tentare di decodificarli, ma dopo un primo, apparentemente facile inizio, diventa impossibile continuare”. E questo perché hanno anche una componente epifanica ch’è difficile da trasmettere, ma che forse molti possono cercare d’esperire provando stupore nell’apprendere da dove arrivano queste grandi tele, che altro non sono che colossali ready made coi quali la pratica di Gianluigi Colin, ampiamente fondata sull’oggetto trovato (benché spesso frutto di un intervento a monte dell’artista durante il suo lavoro come art director, ha giustamente notato Bruno Corà), tocca probabilmente il vertice più elevato.
Per Colin, i suoi “stracci di parole”, i suoi “Sudari” com’è uso chiamarli, sono stati una rivelazione, come lui stesso ha raccontato in più occasioni. “In questi objet trouvé”, ha ribadito nel testo che lui stesso ha firmato per la mostra di Piacenza, “ho trovato la simbolica rimozione di infinite storie, metafora della dimenticanza che avvolge il nostro presente. È l’impronta di un tempo dissolto, traccia e testimonianza di tante esistenze celate. Tele prelevate nel cuore del mondo della comunicazione sulle quali sono intervenuto assemblando frammenti discontinui di una ricostruzione arbitraria: impronte rimosse di tante vite, dissoluzioni di infiniti racconti”. Questi teli, lunghissime lenzuola composte di tessuto non tessuto, ovvero quel prodotto industriale che assomiglia al tessuto ma nel quale le fibre non assumono la struttura tipica dei prodotti tessili, l’incrocio di trama e ordito, vengono fatti scorrere nelle rotative alla fine del processo di stampa, per pulire le testate delle macchine che lasciano l’inchiostro sui giornali: nascono così queste opere che serbano, in un certo senso, la memoria di tutto quello che accade nel mondo, assumendo le sembianze d’un continuo paesaggio astratto, multiforme e multicolore, dal quale emerge anche la straordinaria varietà in cui ci è dato di vivere.
Sui quotidiani gli eventi che rimarranno impressi sui libri di storia vengono catturati nel loro dipanarsi quotidiano e si mescolano a una realtà più feriale e ordinaria in un flusso ininterrotto che, si potrebbe dire, ha sempre rappresentato la principale priorità estetica di Colin: lo s’era visto con l’installazione The Wall, un’intera parete con centinaia di resti e frammenti di giornali, o ancora con l’imponente Caos apparente, soverchiante opera composta da tremila stampe fotografiche organizzate per coprire ogni centimetro quadro dei muri che la ospitavano, e soprattutto per trasmettere quel continuo senso di horror vacui generato dall’onnipresenza famelica e vorace dei mezzi di comunicazione contemporanei, che si nutrono del principale bene che garantisce la loro sopravvivenza, ovvero l’attenzione del pubblico: per ottenerla devono battagliare contro decine, a volte centinaia di concorrenti, e devono così inondare d’informazioni le piattaforme attraverso le quali i destinatarî ricevono i contenuti da chi li produce. Ma già negli anni Settanta l’economista Herbert Simon lanciava un’inevitabile ammonizione: la sovrabbondanza d’informazioni crea necessariamente povertà d’attenzione. E allora, da un lato gl’interminabili paesaggi colorati di Colin creano disagio, mettono un poco di soggezione in chi li osserva: quando apprendiamo il processo da cui nascono, si potrebbe provare un iniziale senso di scetticismo, di rifiuto mentale, che però poi lascia il campo a una forte sensazione di spaesamento. Lo stesso, se si volesse azzardare un paragone sicuramente arrischiato, che i viaggiatori del nord Europa d’inizio Ottocento provavano dinnanzi alle cime aguzze delle Alpi, di fronte ai loro orridi, alle loro cascate, alle loro strade impervie e difficili. Un senso di soggezione e anche d’inettitudine: si può far poco dinnanzi al flusso che Colin cattura con i suoi teli, ci si lascia soltanto travolgere dalla sua mostruosa maestosità. Poi però subentrano lo stupore, l’ammirazione di fronte a uno spettacolo che ai grand tourists di tre secoli fa provocava un piacere difficile da descrivere, e a chi guarda invece i Sudari di Colin provoca una diversa forma di consapevolezza.
E questo perché, contrariamente a quello che si potrebbe pensare, l’intento di Colin non è negare quello che succede nel quotidiano, né l’artista vuole presentare al riguardante una realtà “altra”, per così dire, ovvero che rappresenti un rifiuto di quella che viviamo ogni giorno. Tutt’altro: altrimenti non si spiegherebbe neppure perché Colin si sia adoperato per restituire una testa ai santi decapitati dalla soldataglia di Napoleone, con un atto estetico forte contro tutte le iconoclastie contemporanee. Per Colonetti, i Sudari di Colin anzitutto interrogano chi li osserva, domandandoci cosa resti del mondo dopo averlo “letto, interpretato, rivoltato da tutte le parti con tutti i mezzi che ‘l’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica’ ci offre”. Questi teli diventano pertanto una forma di riflessione sulla nostra epoca, un mezzo per cercare di stabilire una connessione tra il tempo nostro e quello dei mezzi di comunicazione. Ma allo stesso tempo sono opere che indicano, scrive ancora Colonetti, l’esistenza di “una possibilità creativa e progettuale capace di andare al di là della realtà, senza negarla”. Non è semplice leggere attraverso il caos informativo della nostra epoca, tanto meno è facile individuare chiavi di lettura globali per trovare un’ordine in tutta questa instabilità. Si possono però trovare forme di dialogo, forme di superamento, forme di conservazione della memoria. È questa forse l’idea che s’annida tra i paesaggi astratti di Gianluigi Colin, questa forse l’anima più riposta di un intervento che, pur prodotto di una società in cui l’informazione è divenuta un bene di consumo, ci trasmette una storia e il senso più profondo d’un luogo che la storia ha sottoposto a una lunga e complicata serie di trasformazioni nel corso dei secoli.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).