Il 5 febbraio del 1629, regnante il papa di casa Barberini, Urbano VIII, Gian Lorenzo Bernini (Napoli, 1598 – Roma, 1680) fu nominato nuovo architetto della Fabbrica di San Pietro, a pochissimi giorni dalla morte del predecessore Carlo Maderno (Capolago, 1556 – Roma, 1629). A quest’ultimo già il pontefice Paolo V aveva affidato, agli inizi del secolo, il compito di erigere le due torri campanarie della basilica petrina. Tuttavia l’operazione si era rivelata più problematica di quanto previsto, soprattutto a causa della presenza di torrenti sotterranei che rendevano il terreno instabile e che dunque avevano complicato la realizzazione delle fondazioni. Così né il committente, morto nel 1621, né l’architetto, scomparso otto anni più tardi, erano riusciti a vedere la conclusione dell’impresa, che passò nelle mani del Bernini con la sua nomina ai vertici della Fabbrica. Nel gennaio del 1638 l’incarico gli venne assegnato ufficialmente.
Maderno era arrivato a edificare le due strutture fino alla quota dell’attico della facciata, e da qui dovette riprendere il nuovo architetto, che però non si limitò a supervisionare la prosecuzione dei lavori secondo il programma del predecessore, ma, su richiesta di papa Urbano, ripensò i campanili e presentò un progetto che li prevedeva più elaborati e soprattutto più alti (si sarebbero dovuti elevare per altri 65 metri oltre l’attico di Maderno).
Per la festività dei Santi Pietro e Paolo, nel 1641, la prima torre campanaria, quella meridionale, fu finalmente portata a termine, se si esclude la copertura ancora provvisoria in legno. Tuttavia subito dopo i festeggiamenti Urbano VIII, insoddisfatto di quanto realizzato, inaspettatamente, comandò di smantellare la piramide lignea nonché il terzo ordine del campanile.
Per Bernini fu un colpo durissimo e, come se ciò non fosse abbastanza, di lì a breve fecero la loro comparsa sulla facciata della Basilica alcune preoccupanti crepe. A questo punto molte voci iniziarono a circolare circa il peso eccessivo del campanile berniniano e circa i presunti danni strutturali da questo causati all’intero edificio. L’anno successivo i lavori vennero ufficialmente interrotti. Ma, come suggerisce Sarah McPhee nel suo Bernini and the bell towers: Architecture and Politics at the Vatican, si può ritenere che le difficoltà finanziare dello Stato papale, riconducibili in massima parte ai costi della guerra di Castro intrapresa da Urbano VIII, avessero influito sulla decisione del papa di non riaprire il cantiere, ben più dei dubbi sulle capacità di Bernini come architetto.
In ogni caso, a peggiorare la situazione già piuttosto difficile di Gian Lorenzo si aggiunse, nel luglio del 1644, la morte di papa Barberini, il quale, pur avendo criticato l’artista in questa occasione (e non solo) ne era stato il più instancabile committente, fino ad averne fatto il principale interprete del proprio pontificato. Alla scomparsa di Urbano seguì l’elezione di Giovan Battista Pamphilj, che regnò con il nome di Innocenzo X. Il nuovo sovrano manifestò da subito una decisa disapprovazione nei confronti dell’operato del predecessore, in particolare in merito alla sua disinvolta gestione del denaro, e un’altrettanto evidente avversione per l’intero casato Barberini.
Come è facile immaginare, quindi, in tale mutato scenario, il rapporto professionale privilegiato che per un ventennio aveva legato Bernini a Urbano VIII, si rivelò per l’artista un significativo ostacolo nelle relazioni con il neoeletto pontefice, almeno nei primi anni. E fu proprio per volontà di Innocenzo X che, nel 1646, la vicenda giunse a una conclusione forse ancora più sfavorevole a Gian Lorenzo di quanto questi avesse temuto: la sua torre campanaria fu abbattuta, i lavori vennero abbandonati e i beni dell’artista sequestrati a garanzia di eventuali ulteriori danni che avrebbero potuto manifestarsi nella struttura della Basilica.
Gian Lorenzo Bernini, Autoritratto (1623 circa; olio su tela, 38 x 30 cm; Roma, Galleria Borghese) |
Diego Velázquez, Ritratto di papa Innocenzo X (1650; olio su tela, 140 x 120 cm; Roma, Galleria Doria Pamphilj) |
Matthaeus Greuter, La facciata con campanili del progetto definitivo di Maderno per il prolungamento di San Pietro (1613; incisione) |
Gian Lorenzo Bernini, Proposta per la facciata di San Pietro (1645; matita nera, inchiostro bruno e acquarello grigio e bruno su carta; Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana) |
Comprensibilmente, papa Pamphilj, prima di decidere cosa fare di ciò che restava del campanile, aveva ordinato una serie di riunioni della Congregazione della Fabbrica, per fare chiarezza sulle condizioni statiche di San Pietro, eppure, stando alle testimonianze che ci sono giunte, ancora oggi è difficile individuare un nesso tra quanto venne appurato durante tali incontri e la risoluzione finale del pontefice.
Filippo Baldinucci, nella sua Vita del Cav. G. L. Bernino scrisse che per prima cosa Innocenzo aveva voluto ascoltare Bernini, interrogandolo su quanto da lui eseguito, e che l’artista si era difeso senza indugi, fornendo la propria ragionevole spiegazione dell’avvenuto: “Soggiunse poi essere suo parere che la cagione del movimento della facciata fusse stata l’assettarsi che aveva fatto la fabbrica del campanile, cosa solita d’ogni edificio di straordinaria grandezza”.
Ovviamente la Congregazione aveva richiesto anche i pareri di altri architetti, incluso quello del più valido rivale di Bernini, Francesco Borromini (Bissone, 1599 – Roma, 1667), il quale, racconta Baldinucci, “là dove gli altri contrari del Bernino nel portare le loro contraddizioni non seppero parlarne se non con istima e rispetto, [...] alla presenza del Papa inveì contro di lui, di tutto cuore e di tutta lena”. L’accanimento dell’artista ticinese era senz’altro riuscito ad alimentare i dubbi di Innocenzo, ma entro certi limiti, considerando che, anche in forza di un esito evidentemente positivo dell’esame delle fondamenta, il papa inizialmente si era limitato a ordinare di alleggerire il campanile meridionale. Inoltre, fino all’ottobre del 1645 la Congregazione aveva chiesto agli architetti di presentare nuovi progetti per la prosecuzione dei lavori alle torri, segno del fatto che si intendeva andare avanti. E invece, come si è detto, nel febbraio del 1646, Innocenzo decise di chiudere bruscamente l’intero capitolo con l’ordine di demolire tutto fino ciò che era stato costruito da Gian Lorenzo, fino alla quota della facciata.
Nel 1713, quando Bernini era ormai scomparso da oltre trent’anni, il figlio Domenico ne pubblicò una biografia (alla quale aveva lavorato per anni e che aveva iniziato proprio su richiesta del padre) in cui ovviamente diede molto spazio alla dolorosa storia dei campanili e alle sue conseguenze. Nel testo, dopo un resoconto sulla vicenda, l’autore racconta che il padre “in quel medesimo tempo, in cui pareva abbandonato dalla fortuna, fece vedere a Roma le più belle Opere, che facesse giammai, autenticando co’ fatti il suo valore, che dagli Avversari era discreditato colle parole, persuaso eziamdio, che sì come suole il falso prender vigore dalla prestezza, così la verità della sua buona fede risorgerebbe più bella colla dimora, e col tempo. E quest’istesso sentimento, che fu a lui di consolazione, espose a noi con un maraviglioso gruppo, in cui rappresentasi il Tempo che scuopre la Verità”. La scultura a cui Domenico fa riferimento è la Verità svelata dal Tempo, alla cui lavorazione Gian Lorenzo si dedicò di propria iniziativa tra il 1646 e il 1652, mosso dal desiderio di far parlare il marmo al suo posto.
Dunque Bernini iniziò a meditare su quest’opera proprio nell’anno della sua clamorosa débâcle, periodo al quale risale il primo dei disegni relativi alla scultura, oggi conservato a Lipsia presso il Museum der Bildenden Künste. Ma, significativamente, si dedicò in modo più intenso alla lavorazione dell’opera dopo il 1651, dopo cioè che la Fontana dei Quattro Fiumi ebbe riaffermato pubblicamente (e soprattutto agli occhi di Innocenzo X) la verità della sua grandezza di artista e, in particolare, dopo che la sua ardita scelta di far poggiare l’obelisco della fontana in falso, su uno scoglio marmoreo vuoto nell’interno, ebbe dato definitivamente prova della sua capacità di gestire le grandi strutture e i relativi pesi.
Gian Lorenzo Bernini, La Verità svelata dal Tempo (1646; gessetto su carta, 252 x 369 mm; Lipsia, Museum der Bildenden Künste) |
L’obelisco agonale posto sulla Fontana dei Fiumi |
Ed è sufficiente leggere il passaggio che Gian Lorenzo dedicò alla Verità nel proprio testamento per comprendere quanto la storia di quella scultura fosse effettivamente legata al suo vissuto: “E perché delle mie opere, non senza raggione, ho ritenuta presso di me la statua della Verità scoperta dal Tempo, perciò cadendo questa statua sotto la presente disposizione testamentaria, voglio che stia in casa dove abiterà il primogenito, per aver sempre e in perpetuo una memoria, nella mia discendenza, della mia persona, come ancora perché guardando quella, tutti li miei discendenti potranno ricordarsi che la più bella virtù del mondo consiste nella verità: perché, alla fine, questa viene discoperta dal tempo”. Nondimeno, nel 1924 i suoi eredi posero la statua in deposito presso la Galleria Borghese di Roma, dove è ancora conservata. Tre decenni più tardi lo Stato italiano la acquistò.
Bernini scolpì una donna nuda con il capo reclinato in un atteggiamento di trasognato abbandono, la ritrasse seduta su di un masso, e, in aderenza all’iconografia canonizzata da Cesare Ripa, le pose un piccolo sole in una mano e il globo terrestre sotto a un piede, a significare che essa, la Verità, è illuminata dalla luce divina e che è più grande di qualunque cosa terrena. Alle spalle della figura è un voluminoso drappo sollevato, che evidentemente in un momento precedente la copriva.
La statua esprime una vibrante sensualità nella morbidezza del corpo svelato, complice anche la posizione più che disinvolta in cui è stata resa, con le gambe divaricate. Come osserva Matthias Winner nel suo saggio Veritas, pubblicato nel 1998, nonostante tale postura non mostri “sufficiente decoro come dovrebbe accadere in un nudo femminile”, la figura comunica “un tranquillo abbandono nella sua nudità, che non ha nulla di impudico. Fa parte dell’intima essenza della verità l’offrirsi senza veli alla vera luce»: la nuda veritas”.
L’artista utilizzò un solo blocco di marmo. La scultura, inoltre, mostra ancora ben visibili le varie fasi della lavorazione: accanto alle superfici perfettamente rifinite con la lucidatura, si osservano parti appena sbozzate. Il retro è stato solo sgrossato, e anche ai lati il marmo mostra zone non finite; in effetti è noto come spesso Bernini perfezionasse accuratamente solo le parti che dovevano essere in vista. Per quello che riguarda il corpo nudo della Verità, al contrario, Tomaso Montanari, nella sua monografia del 2004 dedicata allo scultore, nota che “Il metaforico splendore luminoso che si associa alla rivelazione della verità non trova equivalente solo nell’attributo del sole sorretto dalla statua, ma emana visivamente da tutto il corpo femminile, levigato tanto da riflettere la luce, e in calcolato contrasto con l’ombra che abita il grande drappo, denso di pieghe”.
Gian Lorenzo Bernini, La Verità svelata dal Tempo (1646-1652; marmo di Carrara, altezza 277 cm; Roma, Galleria Borghese, inv. CCLXXVIII) |
Gian Lorenzo Bernini, La Verità svelata dal Tempo, dettaglio. Ph. Credit Francesco Bini |
Gian Lorenzo Bernini, La Verità svelata dal Tempo, dettaglio. Ph. Credit Francesco Bini |
Gian Lorenzo Bernini, La Verità svelata dal Tempo, dettaglio. Ph. Credit Francesco Bini |
Gian Lorenzo Bernini, La Verità svelata dal Tempo, dettaglio. Ph. Credit Finestre sull’Arte |
Gian Lorenzo Bernini, La Verità svelata dal Tempo, dettaglio. Ph. Credit Finestre sull’Arte |
Gian Lorenzo Bernini, La Verità svelata dal Tempo, dettaglio. Ph. Credit Finestre sull’Arte |
Ad ogni modo l’opera non venne terminata; secondo il progetto del suo autore così come ci è testimoniato da alcuni disegni, infatti, la Verità avrebbe dovuto essere sormontata dal suo anziano padre, il Tempo, dotato di falce e ali e colto nell’atto di scostare dall’alto il panno, rivelandola così agli osservatori. Tra tali disegni rientra lo studio a matita di Lipsia, a cui si è già accennato. È importante sottolineare che, come osservò per primo Rudolf Wittkower nel 1966, questo bozzetto era con buone probabilità finalizzato alla realizzazione di un dipinto o di un’incisione, alla luce del generale impianto grafico e prospettico, ma soprattutto perché sarebbe difficile comprendere quale sia il senso della linea orizzontale tracciata sullo sfondo, se si ritenesse, invece, un progetto per una scultura; a meno che non si ipotizzi un rilievo. Esiste quindi la concreta (e affascinante) possibilità che inizialmente Bernini avesse pensato di esprimere in un quadro quanto poi scolpì nel marmo.
Torniamo però alla figura del Tempo. Testimoniano la volontà dell’artista di inserire questo secondo personaggio, non solo i suddetti disegni, ma anche alcune fonti dell’epoca. Il primo a menzionare un modello del gruppo scultoreo che comprendeva il Tempo fu il duca di Bracciano Paolo Giordano II Orsini, che ebbe modo di vederlo nel 1647 nello studio di Bernini, e informò al riguardo il cardinale Mazzarino con una lettera. Dal testo si apprende che le parti della scultura sarebbero state realizzate più grandi del vero (la Verità misura in effetti quasi tre metri) e che si sarebbe potuto trasportarle separatamente. Il duca, in particolare, considerò importante far avere quest’ultima informazione a Mazzarino perché in quel periodo esisteva la concreta possibilità che il cardinale acquistasse l’opera; fermo restando che non era stato con questa intenzione che Bernini aveva iniziato a scolpirla. E ad ogni modo la cosa non andò a buon fine, perché il cardinale, in sostanza, pose come condizione per l’acquisto la partenza di Bernini per Parigi, ma questi declinò. Si recò in Francia, invece, nel 1665, su richiesta del re Luigi XIV.
Nel suo Journal du voyage du cavalier Bernini en France, il cortigiano Paul Fréart de Chantelou racconta questo soggiorno, e in un passaggio riporta uno scambio tra Bernini, il sovrano e vari personaggi della corte sulla Verità svelata dal Tempo. “Il signore di Créqui ha poi parlato della statua della Verità, che è presso lo stesso Bernini a Roma, come di un’opera riuscita perfettamente. Bernini ha detto che l’ha fatta per lasciarla alla sua famiglia e che la figura del Tempo, che svela la Verità, non è ancora conclusa [...]. Ha detto che nel modello ha compreso delle colonne, degli obelischi, e dei mausolei, e che queste cose, che appaiono divelte e rovinate dal tempo, sono quelle che sostengono la figura del Tempo: senza di esse la statua non potrebbe sostenersi. ‘Sebbene abbia le ali’ ha aggiunto ridendo”. Dunque, anche se a quel punto la Verità era stata già realizzata come la vediamo oggi, Bernini non aveva ancora abbandonato l’idea di portare a compimento il progetto originario, e in effetti il blocco di marmo in cui avrebbe dovuto essere scolpita la figura del Tempo rimase davanti casa dello scultore fino alla sua morte, e solo allora fu venduto dalla famiglia. Inoltre il brano di Chantelou rivela chiaramente che, nell’intenzione di Bernini, il Tempo sarebbe stato rappresentato nel duplice ruolo di rivelatore della Verità e distruttore, permettendo così lo sviluppo contestuale del tema della Vanitas. Oggi sappiamo che tutto ciò non venne mai realizzato; del resto nessuno protestò per la mancata conclusione dell’opera perché, come si è visto, questa fu eseguita dall’artista in modo del tutto autonomo, senza l’intervento di alcun committente.
Nel corso della sua carriera Gian Lorenzo tornò sul tema della Verità svelata più volte. In un caso ebbe modo di raffigurare il Tempo nell’atto di rivelare sua figlia, la Verità, all’osservatore, pur non eseguendo affatto la figura femminile. Si tratta di un’opera purtroppo perduta, uno specchio commissionato dalla regina Cristina di Svezia, giunta a Roma nel 1655.
Gian Lorenzo Bernini, Disegno per lo specchio di Cristina di Svezia (1656 circa; penna, acquerello e gessetto su carta, 230 x 188 mm; Windsor, Royal Collection) |
Gian Lorenzo Bernini, Tomba di Alessandro VII (1672-1678; marmo; Città del Vaticano, San Pietro) |
Gian Lorenzo Bernini, Studio per la Tomba di Alessandro VII (1662-1666 circa; penna, acquerello e gessetto su carta, 440 x 307 mm; Windsor, Royal Collection) |
Gian Lorenzo Bernini, Tomba di Alessandro VII. Ph. Credit Karel Jakubec |
Gian Lorenzo Bernini, Tomba di Alessandro VII, dettaglio dello scheletro. Ph. Credit Francesco Bini |
Gian Lorenzo Bernini, Tomba di Alessandro VII, dettaglio della Verità. Ph. Credit Javier Carro |
Del manufatto possediamo alcuni disegni, tra i quali uno studio preparatorio del 1670 circa, eseguito da Bernini e oggi conservato presso il Windsor Castle di Londra. Grazie a queste testimonianze sappiamo che il prezioso arredo era decorato in modo molto particolare: si poteva ammirare, nella parte superiore, una scultura dorata del vecchio Tempo alato, intento a scostare una tenda, scoprendo così l’immagine di chi si serviva dello specchio, dunque della regina. In questo modo l’immagine della donna sarebbe apparsa come frutto della rivelazione del Tempo, sostituendosi alla raffigurazione della Verità. Ma l’intento era tutt’altro che lusinghiero: la verità raccontata dallo specchio era, infatti, quella del lento svanire della bellezza e della gioventù. Dunque, di nuovo una Vanitas.
Nella tomba di papa Alessandro VII in San Pietro, realizzata tra il 1672 e il 1678, Bernini (che la progettò per poi affidare la gran parte dell’esecuzione ad altri scultori) volle inserire una Verità tra le allegorie poste nella parte inferiore del monumento. La figura marmorea stringe al petto un sole dorato e poggia il piede sinistro su di un globo terrestre, ma, a differenza della statua della Galleria Borghese, non è nuda. In realtà lo era in origine, in buona parte. Infatti, da sotto la base su cui è posto il ritratto del papa inginocchiato, emerge uno scheletro alato in bronzo che, agitando una clessidra vuota a rammentare che il tempo terreno di Alessandro è terminato, scosta una splendida coltre in diaspro di Sicilia, tirandola via dal corpo della Verità.
Il fatto che si trattasse di una tomba papale e la sua ubicazione nella cattedrale petrina finirono per esercitare un significativo limite alla libertà dell’artista, spingendo il già rigido pontefice Innocenzo XI (al secolo Benedetto Odescalchi, salito al soglio pontificio nel 1676) a ordinare a Bernini, nel 1679, di coprire quella nudità. L’artista quindi fu costretto a intervenire realizzando la veste in bronzo poi dipinta di bianco che ancora oggi vediamo. Tuttavia l’idea originaria era potente ed è ancora intuibile; come efficacemente scrive Erwin Panofsky nel suo Tomb Sculpture del 1964: “Proclamando il trionfo del Tempo sulla Vita, la Morte ottiene, benché involontariamente, il trionfo della Verità sul Tempo”.
L’ordine di Innocenzo XI fu tanto ineludibile quanto inevitabilmente carico di significato simbolico, visto che la statua che voleva coperta raffigurava nient’altro che la Verità, e di certo per Bernini si trattò di un compito estremamente spiacevole: ce lo raccontano sia la biografia scritta dal figlio Domenico che quella di Filippo Baldinucci. Afferma Domenico che nello svolgere il lavoro il padre “provò una grandissima difficoltà”, e in entrambi i testi (che in molti passaggi sono pressoché identici) leggiamo che la causa del disagio dello scultore derivò dal dover «accomodare una cosa sopra un’altra fatta con diversa intenzione». D’altronde, stando al Journal di Chantelou, nel 1665, Gian Lorenzo aveva raccontato a Luigi XIV che a Roma esisteva un detto: “La verità si trova solo a casa del Cavalier Bernini”. E il riferimento era ovviamente alla nuda, sensualissima Verità marmorea, ispirata a Gian Lorenzo da quello che per lui era stato (e che probabilmente fu davvero) l’arbitrario giudizio di un altro pontefice.
La tua lettura settimanale su tutto il mondo dell'arte
ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER