Quando si parla della Germania degli anni Venti, si è soliti rievocare le immagini della spesa dal panettiere fatta con le carriole piene di soldi, oppure pensare ai bambini che giocano con castelli di carta fatti con mazzette di banconote, o alle code davanti ai negozi per comprare quanta più merce possibile. Negli anni della prima guerra mondiale la Germania fu infatti colpita da una severa inflazione che, stabilizzatasi per qualche tempo attorno al 1920, tornò poi a correre a ritmi vertiginosi, diventando iperinflazione nel 1923. A partire dal 1914 si verificò infatti una congiuntura economica estremamente sfavorevole, cominciata nel 1914 con l’abbandono, da parte della Germania, del cosiddetto gold standard (il “sistema aureo”), ovvero la convertibilità in oro della moneta: in uno Stato dove è in vigore il sistema aureo, circola una quantità di moneta pari all’oro conservato nelle riserve della banca centrale. La misura fu adottata per finanziare la guerra: la Germania, al contrario della Francia che si finanziò aumentando la tassazione, pensò di far fronte alle spese belliche emettendo nuovo debito (il governo tedesco era convinto di poterlo ripagare, e quindi di rientrare nella normalità prebellica, vincendo la guerra: il piano era inoltre quello di ripristinare il gold standard al termine del conflitto). Poco prima della guerra, assieme al Goldmark, la moneta in vigore con il sistema aureo, la Germania cominciò a emettere una banconota, il Papiermark, non convertibile, e garantito coi beni statali. L’abbandono del sistema aureo, che nei primi del Novecento aveva garantito la stabilità dei prezzi in tutta Europa, fu pesantemente criticato già allora, perché si riteneva che avrebbe portato a una forte svalutazione del marco, cosa che in effetti si verificò puntualmente: la quantità di moneta che la banca centrale tedesca mise in circolazione per far fronte alle spese di guerra comportò già negli anni del conflitto ripide impennate dei prezzi, tanto che nel 1920 il costo della vita in Germania era già nove-dieci volte superiore a quello del 1914 (se prima della guerra servivano 4 marchi per comprare un dollaro, nel giugno del 1920 si era arrivati a 40 marchi per dollaro).
Il problema però sta nel fatto che la Germania perse la guerra, e non solo la strategia del governo del paese (che nel frattempo aveva cambiato forma di governo: l’impero tedesco si era trasformato nella fragile Repubblica di Weimar, dal nome della città dove si era tenuta l’assemblea costituente) si era rivelata fallimentare, ma i tedeschi furono gravati da nuovi debiti, su tutti quelli delle riparazioni di guerra che i vincitori imposero col trattato di Versailles: 132 miliardi di Goldmark, che erano pari a circa tre volte il Pil tedesco, da pagare in rate da due miliardi all’anno con oro oppure con valuta estera, e in più il 26% del valore annuale delle esportazioni tedesche: a queste condizioni, si ipotizzava che la Germania avrebbe estinto il debito in quarantadue anni. La necessità, da parte della Germania, di comprare valuta straniera fece aumentare la quantità di Papiermark in circolazione, dando quindi nuovo vigore all’impulso inflazionistico, e nell’ottobre del 1921 il cambio col dollaro era salito a 180 marchi. Alle riparazioni si aggiungevano poi le numerose prestazioni sociali che la Germania doveva pagare dopo il conflitto. La strategia della Germania era quella di stampare moneta, col risultato che già nell’autunno del 1922 occorrevano 4.500 marchi per acquistare un dollaro e la Germania si era dichiarata incapace di far fronte alle riparazioni. Così, nel gennaio del 1923 la Francia e il Belgio occuparono la Ruhr, l’area più industrializzata del paese, a titolo di garanzia: l’occupazione non fece altro che accelerare la crisi, dal momento che la Germania assicurò supporto finanziario agli operai che decidevano di non lavorare per fare in modo che il frutto del loro lavoro non uscisse dal paese. E l’iperinflazione diventò incontrollabile: all’inizio del gennaio 1923 ci volevano 6.890 marchi per un dollaro, e alla fine del mese il cambio era salito a 48.390 marchi per un dollaro. E poi ancora a 193.500 a giugno, a 11,4 milioni ad agosto, per toccare la vetta nel novembre del 1923, quando per un dollaro servivano più di 4.200 miliardi di marchi.
Il marco, in sostanza, si deprezzava giorno dopo giorno, il che significava che occorreva spendere immediatamente i soldi che si guadagnavano per evitare che, già il giorno seguente, non valessero più niente. E naturalmente la fortissima domanda di beni di prima necessità, che tutti volevano acquistare prima che il Papiermark si svalutasse ulteriormente (oppure venivano barattati), aggravava di continuo la situazione. L’iperinflazione distrusse i risparmiatori (e naturalmente rese impossibile il risparmio), dal momento che pochi furono in grado di liquidare i loro patrimoni per investire in oro oppure in monete rifugio, e si abbatté su tutti i percettori di reddito fisso (salariati, dipendenti, pensionati) e poi in seguito anche sui lavoratori autonomi che non potevano più trovare una clientela in grado di pagare le loro prestazioni. “L’inflazione”, ha scritto Adam Fergusson, autore di uno dei più noti studi sull’iperinflazione tedesca del 1923, “aggravò ogni problema e distrusse qualsiasi possibilità di rinascita nazionale o di successo individuale e infine produsse proprio quelle condizioni che permisero a estremisti di destra e di sinistra di sollevare le masse contro lo Stato, mettendo classe contro classe, razza contro razza, famiglia contro famiglia, marito contro moglie, lavoratore contro lavoratore, città contro campagna. L’inflazione minò sottilmente la compattezza nazionale proprio quando il bisogno e la necessità avrebbero potuto agire da catalizzatori e da stimoli. A causa della sua natura discriminatoria e profondamente ingiusta, fece sì che ciascuno desse il peggio di se stesso, lavoratori e industriali, agricoltori e braccianti, banchieri e bottegai, politici e burocrati, casalinghe, soldati, mercanti, minatori, strozzini, pensionati, medici, sindacalisti, studenti e turisti, anche questi ultimi. Suscitò paura e insicurezza fra persone che ne avevano conosciuta già fin troppa, favorì sentimenti xenofobi, incoraggiò il disprezzo per il governo e la rivolta contro la legge e l’ordine. Fece opera di corruzione dove questa era sconosciuta e talvolta, troppe volte, dove questa avrebbe dovuto ritenersi impossibile. Costituì il peggiore dei preludi alla grande depressione (anche se distante cronologicamente da questa) e agli eventi che ne seguirono”. Si diffuse un clima di forte incertezza e di grande sfiducia (aggravato dal fatto che gran parte della popolazione tedesca non capiva il perché di quello che stava accadendo, e in situazioni simili è facile cercar di far ricadere la colpa su capri espiatori), la povertà aumentò in maniera considerevole, e lo stesso vale per la disoccupazione e per la criminalità.
Germania, 1923: bambini che fanno castelli di carta con mazzette di banconote |
Un carretto utilizzato per trasportare denaro |
Il cartello di un calzolaio nella Germania del 1923 che chiede pagamenti con baratto: “Acquisti e riparazioni in cambio di generi di prima necessità” |
L’arte del tempo non rimase a guardare quello che accadeva e furono molti gli artisti che reagirono. Una delle reazioni più scontate fu la satira, e in questo senso una delle opere più famose è una vignetta dell’illustratore Erich Schilling (Suhl, 1885 - Gauting, 1945), pubblicata nel novembre del 1922 sulla rivista Simplicissimus, un diffuso periodico umoristico fondato nel 1896 e che visse fino al 1967. Protagonista dell’illustrazione è l’inventore della stampa, Johannes Gutenberg, che assiste sgomento a una rotativa che assume sembianze antropomorfe e che getta migliaia di fogli da mille marchi sopra una calca di mani che paiono quasi animalesche tanto sono voraci, adunche e in alcuni casi avvizzite dalla fame. Vedendo questo turpe spettacolo, Gutenberg non può far altro che mettersi le mani nei capelli, osservare tutto con stupore ed esclamare “Das habe ich nicht gewollt!” (“non volevo questo”). È chiaro l’intento di Schilling: sottolineare come uno strumento, la stampa, che era nato per garantire la libertà alle persone, si sia trasformato nel simbolo principale di una specie di apocalissi economica, in un mostro che vomita pezzi di carta privi di valore. In letteratura, un’immagine simile si trova in un romanzo del 1937 di Hans Fallada (Greifswald, 1893 - Berlino, 1947), Wölf unter Wölfen (“Lupo tra i lupi”), ambientato nella Germania dell’iperinflazione: “Da qualche parte in città c’era una macchina che, giorno e notte, vomitava carta sulla città e sulle persone. La chiamavano ‘denaro’: ci stampavano sopra figure, belle figure nette con tanti zeri, che diventavano sempre più tondi. E quando avevi lavorato e sudato per metterne da parte un poco per la tua vecchiaia, diventava tutta carta priva di valore, carta straccia”.
Tra gli illustratori più prolifici del tempo figurava Karl Arnold (Neustadt bei Coburg, 1883 - Monaco di Baviera, 1953), autore di alcune delle satire più note sull’iperinflazione, anch’esse pubblicate sulla rivista Simplicissimus. Una delle più violente risale al 1923 ed è intitolata Papiergeld! Papiergeld! (ovvero “banconota”, “cartamoneta”), e raffigura una madre stremata dalla povertà che, sotto una pioggia di banconote, solleva un bambino scheletrico ormai consumato dalla fame. Si tratta, ha scritto lo studioso William Coupe, “forse del più memorabile di tutti i commenti alla sofferenza umana connessa all’inflazione galoppante che era andata del tutto fuori controllo”. Un’altra satira feroce fu quella che Arnold disegnò per la copertina di Simplicissimus del novembre del 1923, una sorta di riassunto dei vincitori e dei vinti della crisi dell’iperinflazione. Quattro riquadri mostrano i tesori di altrettanti attori della crisi: la chiesa, la corona, i trafficanti del mercato nero e la gente comune. Nei primi tre riquadri si vedono grandi accumuli di ricchezze materiali (opere d’arte, armi, gioielli, beni di lusso), mentre nella quarta si vedono i corpi di un uomo e due bambini, morti di stenti, mentre galleggiano tra le banconote. La copertina gioca sull’assonanza tra i sostantivi “Gold” (oro) e “Geld” (denaro), illustrando le quattro caselle con altrettante espressioni: “Kirchengold” (“Oro della chiesa”), “Kronengold” (“Oro della corona”), “Schiebergold” (“Oro dei trafficanti”) e “Papiergeld” (“Cartamoneta”).
Alcuni artisti affrontarono direttamente il tema delle conseguenze sociali dell’iperinflazione. Tra questi figura uno dei più importanti esponenti della Neue Sachlichkeit (la “Nuova Oggettività” dell’arte tedesca dopo la prima guerra mondiale), Otto Dix (Gera, 1891 - Singen, 1969): alla Morgan Library di New York si conserva un suo celebre disegno, intitolato Wir wollen brot! (“Vogliamo pane!”), dalla scritta che compare sul cartello portato da un gruppo di poveri manifestanti. È un’opera del 1923 che, come spesso accade nell’arte di Dix degli anni Venti, si concentra sui forti squilibri della società tedesca del tempo: da una parte il ceto medio e i poveri colpiti dall’inflazione (nella folla dei manifestanti troviamo un’umanità varia: lavoratori, una donna incinta, un pensionato, un invalido), dall’altra i ricchi, tratteggiati con i soliti connotati grotteschi che spesso li caratterizzano nelle opere di Dix, che non avvertono i colpi dell’inflazione perché hanno già provveduto a mettere le loro ricchezze al sicuro e a ripagare i loro debiti interni con moneta ormai priva di valore (come spesso accade in situazioni di grave sconvolgimento economico, c’è anche chi ne esce fortemente arricchito), e possono quindi gozzovigliare allegramente. Uno dei ricchi peraltro porta sul revers della giacca la svastica nazista: l’NSDAP, il Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori, era nato solo tre anni prima, nel 1920, ma Dix aveva già ben presente quale fosse la forza politica che si stava approfittando del caos sociale. L’opera forse più tragica è però una stampa di una donna, Käthe Kollwitz (Königsberg, 1868 - Moritzburg, 1945), intitolata Das Letzte (“L’ultima cosa”) che rende con angosciante evidenza il dramma dei risparmiatori che avevano visto andare in fumo i soldi messi da parte in una vita di lavoro e i pensionati che si erano ritrovati privi di sostentamento: il tetro protagonista della scena è un uomo, dal volto sfigurato (la crisi lo ha ridotto a una specie di bestia), che, in una stanza vuota e misera, trova nel suicidio la soluzione estrema.
Erich Schilling, Das habe ich nicht gewollt! (illustrazione sulla rivista Simplicissimus del 15 novembre 1922) |
Karl Arnold, Papiergeld! Papiergeld! (illustrazione sulla rivista Simplicissimus del 15 giugno 1923) |
Karl Arnold, Sold und haben (copertina della rivista Simplicissimus del 19 novembre 1923) |
Otto Dix, Wir wollen Brot! (1923; matita e inchiostro su carta, 38,7 x 42,6 cm; New York, The Morgan Library) |
Käthe Kollwitz, Das Letzte (1924; xilografia, 29,4 x 12,8 cm; New York, The Metropolitan Museum) |
Lo studioso Dennis Crockett ha analizzato anche lo stato del mercato dell’arte durante la crisi dell’iperinflazione. Come spesso accade in periodi di incertezza, le opere d’arte degli artisti più riconosciuti diventarono beni su cui investire, il che portò a una fervida attività del mercato artistico già negli anni che subito seguirono la fine della prima guerra mondiale. I beni di lusso, e le opere d’arte erano incluse in questo novero, si vendevano con relativa facilità (tanto che nel dicembre del 1919 il governo impose una tassa proprio sui beni di lusso, esentando però le opere realizzate da artisti viventi o scomparsi da poco, a condizione che venissero acquistate direttamente dall’artista o da un suo immediato familiare). Il mercato si calmò negli anni della relativa stabilizzazione dei prezzi, tra il 1920 e il 1921, per poi riprendere vigore nel 1922: in una crisi simile trae vantaggio chi possiede beni e si libera della cartamoneta, con la conseguenza che gli acquisti continuarono nel periodo dell’iperinflazione. Gli artisti che vendevano all’estero furono favoriti: Crockett ricorda che, ad esempio, Franz Radziwill, nell’ottobre del 1923, riuscì a vendere due dipinti in dollari americani, e pochi giorni dopo, col ricavato, riuscì a comprarsi una casa, data la svalutazione del marco. C’erano però anche risvolti negativi per gli artisti che lavoravano in Germania: i materiali per la pittura a olio erano molto costosi e soprattutto questo mezzo espressivo richiedeva tempo, se si volevano massimizzare i profitti bisognava essere veloci, ragion per cui l’arte della Germania dell’iperinflazione è sostanzialmente un’arte su carta. Alcuni artisti cercavano appositamente di sollevare scandali per ottenere riconoscimento sul mercato: era il caso, ad esempio, di uno dei più grandi artisti del tempo, George Grosz (Berlino, 1893 - 1959), che sfruttò ampiamente questo meccanismo. “Dall’inizio dell’inflazione”, scrive Crockett, “l’opera d’arte aveva assunto un nuovo status, quello di un oggetto di reale valore, come i gioielli o le automobili, e per molti il mercato artistico era diventato un sostituto del mercato azionario. Le opere d’arte sul mercato erano investimenti senza rischio per gli speculatori se erano realizzate da artisti che godevano di una reputazione, e la reputazione non era limitata dal talento”. Gli acquirenti erano tipicamente persone ricche, che non badavano molto alla qualità. La speculazione favorì gli artisti, che poterono arricchirsi notevolmente: il mercato si popolò così di collezionisti improvvisati, attenti solo al valore economico delle opere, e di lavori di scarsa qualità. Si tornò a una situazione di normalità solo nel 1924, a crisi finita, quando le vendite calarono e il mercato cominciò lentamente a ripopolarsi di veri collezionisti.
I dipinti legati alla crisi dell’inflazione non sono molti, dato che sui risvolti dell’attualità gli artisti del tempo preferivano esprimersi, come s’è visto, con mezzi più economici o in grado di raggiungere una più ampia diffusione, ma è possibile leggere gli eventi della Germania del tempo anche attraverso alcune opere più “nobili” di quelle viste sin qui. Talvolta la crisi entra nelle opere da una porta secondaria, come accade in un’opera di Otto Dix conservata al Metropolitan di New York, il ritratto dell’imprenditore Max Roesberg, che tiene in mano un volantino di carta: si tratta di un foglio stampato sulla carta rosa di poco valore che veniva impiegata durante la crisi in quanto materiale a bassissimo costo. Il divario tra i ricchi e i poveri è poi oggetto di un acquerello del 1921 di Georg Scholz (Wolfenbüttel, 1890 - Waldkirch, 1945), Arbeit Schändet (“Vergognarsi di lavorare”), dove un ricco e grasso industriale passa sulla sua macchina guardando quasi divertito un operaio che passa per la strada con suo figlio.
Infine, altri artisti, anche perché spinti da esigenze, ricorsero alla tecnica del collage utilizzando... la valuta corrente! La storica dell’arte Erin Sullivan Maynes ha ricordato l’esperienza di László Moholy-Nagy (Bácsborsód, 1895 – Chicago, 1946) e Kurt Schwitters (Hannover, 1887 - Ambleside, 1948), che tra il 1922 e il 1923 si trovarono a condividere lo stesso studio nella Spichernstrasse di Berlino: i due artisti lavoravano senza accendere il riscaldamento, perché non se lo potevano permettere. Ma non era questa l’unica cosa che i loro guadagni non potevano sostenere: “Non avevamo soldi per comprare i colori o le tele”, avrebbe ricordato in seguito Moholy-Nagy, “così Kurt mi spinse a seguire il suo esempio e a usare i soldi come materiale d’uso quotidiano per i collage”. L’Israel Museum di Gerusalemme conserva uno dei primi collage di Moholy-Nagy, 25 Pleitegeler (“25 avvoltoi della bancarotta”), dove il profilo del rapace che dà il nome all’opera incombe sulla silhouette nera di un uomo (che per Moholy-Nagy è dunque il vero avvoltoio, più dell’uccello in carne, ossa e piume), e tutt’intorno ritagli di giornale e di banconote descrivono bene la situazione (il “25” che ricorre ossessivamente nell’opera, tratto dalle banconote ma anche dai giornali, si riferisce al tasso di cambio dell’epoca in cui fu realizzato il collage, ovvero 25 milioni di marchi per un dollaro). Anche Schwitters utilizzò i soldi per i suoi lavori: per esempio, in un’opera senza titolo del 1925 circa conservata al Los Angeles County Museum troviamo il frammento di un Notgeld, la banconota d’emergenza, coperto da frammenti geometrici, in modo che sia evidente la scritta “centomila marchi”.
Otto Dix, Ritratto di Max Roesberg (1922; olio su tela, 94 x 63,5 cm; New York, The Metropolitan Museum) |
Georg Scholz, Arbeit Schändet (1921; acquerello su carta; Karlsruhe, Kunsthalle) |
László Moholy-Nagy, 25 Pleitegeier (1922–23; collage su carta, 30 x 23 cm; Gerusalemme, The Vera and Arturo Schwarz Collection of Dada and Surrealist Art in the Israel Museum) |
Kurt Schwitters, Senza titolo (One Hundred Thousand Marks) (1925 circa; collage su carta, 12 x 9 cm; Los Angeles, Los Angeles County Museum of Art) |
La crisi dell’iperinflazione si risolse a partire dalla fine del 1923, quando il politico Hans Luther diventò ministro delle finanze a metà ottobre e l’economista Hjalmar Schacht venne nominato, il 12 novembre, presidente della Reichsbank, con il preciso obiettivo di porre fine all’iperinflazione. Il piano di stabilizzazione prevedeva il divieto, per la Reichsbank, di emettere nuove obbligazioni statali, e la creazione di una nuova banca, la Deutsche Rentenbank, che avrebbe emesso una nuova moneta, il Rentenmark (“marco di rendita”), garantita attraverso beni reali, come terreni per uso agricolo o industriale. I beni per garantire l’emissione di moneta furono valutati in 3,2 miliardi di Goldmark, e venne emessa una quantità pari di Rentenmark che andò a sostituire il Papiermark, col cambio fissato a 4,2 Rentenmark per dollaro americano (il tasso di cambio del marco prima della guerra). L’idea ebbe successo per il fatto che, al contrario del Papiermark, il Rentenmark era agganciato ad asset realmente esistenti e di conseguenza i prestiti erano garantiti con ipoteche su beni reali. Venne poi avviata una politica di austerità che ebbe ulteriori devastanti conseguenze per l’occupazione, ma con queste misure, e con la conseguente fiducia nella nuova moneta transitoria, la Germania riuscì nell’intento di fermare il vortice inflazionistico e stabilizzare i prezzi.
Nel mondo odierno è ancora possibile una crisi come quella che sconquassò la Germania negli anni Venti? Tecnicamente sì: è successo di recente in Argentina (nel 2019 ha chiuso l’anno con un’inflazione al 53,8%: non quindi ai livelli della Repubblica di Weimar, ma comunque un tasso fortemente sostenuto), nello Zimbabwe (uno dei casi più gravi della storia: un’inflazione divenuta insostenibile al punto che il governo del paese africano, nel 2008, ha sospeso l’utilizzo della valuta del paese) e in Venezuela (dove a dicembre del 2019 l’inflazione ha sfiorato un disastroso tasso del 9.600%). Nei paesi economicamente più forti si tratta però di uno scenario improbabile: le banche centrali hanno l’obiettivo di tenere i prezzi su livelli accettabili proprio per evitare il ripetersi di scenari simili (l’articolo 127 del Trattato del Funzionamento dell’Unione Europea stabilisce che l’obiettivo principale del Sistema europeo di banche centrali è proprio il mantenimento della stabilità dei prezzi), e il Consiglio direttivo della BCE ha l’obiettivo di mantenere l’inflazione su livelli inferiori al 2% nel medio periodo. Le strategie economiche odierne dovrebbero dunque scongiurare pericoli di un’inflazione troppo elevata.
Bibliografia essenziale