Non occorre necessariamente pensare a romanticismi infantili quando, nella prima sala dei fiamminghi di Palazzo Bianco a Genova, si legge la didascalia che accompagna la splendida tavoletta di Gerard David sulla parete destra, e si nota che qualcuno ha scelto di chiamarla Madonna della pappa. Già nella Toscana del Settecento una Madonna del senese Francesco Vanni era nota con questo nome, poiché, spiegava lo storiografo Giovanni Gori Gandellini nelle sue Notizie istoriche degli intagliatori, “con un cucchiaro somministra al Bambino Gesù il cibo”. Il termine “pappa” qui sta semplicemente a denotare il nutrimento che si dà ai bambini: in antico non esistevano altri usi d’indicare quell’alimento a base di pane cotto nel latte che sosteneva i piccoli appena dopo lo svezzamento, tanto che in Toscana è poi passato a designare comunemente ogni minestra preparata nello stesso modo (si pensi alla pappa al pomodoro).
Dunque, veder chiamata Madonna della pappa un’opera come quella di David non suonava sicuramente puerile. È vero poi che questa sfumatura è completamente assente nella titolazione in inglese: fuori dall’Italia si parla d’una Virgin and Child with the milk soup, denominazione decisamente meno espressiva. Va specificato che della Madonna col Bambino di David si conoscono sette versioni, la migliore delle quali è quella dell’Aurora Trust di New York, che s’è conservata meglio delle altre e si distingue comunque per una stesura pittorica più accurata e di maggior qualità. Lo schema di fondo però rimane invariato, come invariati rimangono i modelli: Gerard David guardava all’Italia, guardava ai leonardeschi, per esempio alla Madonna del latte di Bernardino de’ Conti, conservata all’Accademia Carrara di Bergamo, indicata dalla storica dell’arte Maryan Ainsworth come il più probabile precedente, anche se tutte le strade conducono inevitabilmente alla Madonna Benois di Leonardo da Vinci.
Dunque, per inglesi e americani l’opera di Gerard David è la “Madonna e il Bambino con la zuppa di latte”. Però con questo titolo uno è portato a domandarsi automaticamente cosa sia la zuppa di latte, a cosa serva, che relazione abbia con la Madonna e col Bambino. “Pappa” è invece vocabolo infinitamente più saporoso dell’asettica “zuppa di latte” degli anglofoni. È il modo in cui i bambini fin da tempi antichissimi chiamano il pane, con la ripetizione della prima sillaba tipica della lallazione. C’è quindi nella “pappa” un rimando semantico al pane, presente peraltro sul tavolo che David colloca in primo piano, con un ulteriore richiamo al sacrificio di Cristo, che la milk soup non riesce a esprimere. Così come “pappa” è più immediato nel trasmetterci l’idea della Vergine che sta dando da mangiare al Bambino, immagine che potrebbe esser letta anche come allusione alla Chiesa che sostiene i suoi fedeli, non già secondo il concetto di Maria mater Ecclesiae, del quale non si trovano che sparute testimonianze nella documentazione liturgica del tempo (di Maria come madre della Chiesa, del resto, si sarebbe cominciato a parlare estesamente dall’Ottocento innanzi, e il titolo sarebbe stato proclamato solo nel 1964, da Paolo VI), ma semplicemente sulla base dell’analogia tra il ruolo materno di Maria e quello della Chiesa, un’analogia della quale si trovano ampî riscontri nella patristica. Nella lettera di sant’Agostino a Leto, per esempio, si legge che “la Chiesa è tua madre. […] è stata ed è essa a nutrirvi col latte della fede, e mentre essa vi prepara un alimento più solido, vede con orrore che volete restare a vagire come poppanti privi di denti”. E poi, ha osservato ancora Ainsworth nella sua monografia su Gerard David, la Madonna della pappa potrebbe esser legata agli scritti d’alcune teologhe medievali, come Ildegarda di Bingen, Elisabetta di Schönau, Caterina da Siena e Giuliana di Norwich, che nelle loro opere si riferivano alle donne per significare l’intera umanità, e alla maternità come simbolo dell’amore e del nutrimento che l’anima riceve da Dio. “A noi convien fare”, scriveva per esempio Caterina da Siena, “come fa il fanciullo, il quale volendo succiare il latte, prende la mammella della madre, et se la mette in bocca; onde col mezo della carne trahe a sé il latte. Così dobbiamo fare noi, se vogliamo notricare l’anima nostra; percioché ci dobbiamo attaccare al petto di Christo crocifisso”.
Naturalmente la Madonna della pappa di Gerard David andrà interpretata anche in maniera letterale, come tenera e affettuosa immagine d’una mamma che sta cercando di far mangiare il Bambino: la vediamo mentre lo tiene delicatamente sulle ginocchia, reggendolo con la mano sinistra per non farlo cadere, e raccogliendo una cucchiaiata dalla scodella con la destra. Ce la possiamo figurare mentre a breve comincerà a imboccare il Bambino, che appare curioso, quasi divertito, mentre a sua volta, per imitare la madre, regge nella manina destra un cucchiaino. La scena è ambientata in un interno domestico fiammingo: in alto a sinistra, un brano di natura morta con una brocca di peltro, una mela e un vaso di fiori. Dietro, gli oggetti che si potevano trovare in una casa del tempo: un cesto, un libro, un sacco. Alle spalle della Vergine e di Gesù Cristo, una finestra s’apre su di una città divisa in due da un fiume che le passa attraverso, con un albero che fa da quinta sulla sinistra.
Sulle prime si potrebbe dunque pensare quasi a una sorta di scenetta di genere, in grado di soddisfare le aspettative d’una committenza privata che, nell’icona sacra, voleva vedere un’immagine familiare, spontanea, coinvolgente. Non è tuttavia pensabile che Gerard David si tenesse lontano da qualunque tentativo d’innestare allusioni simboliche in ogni singolo elemento della scena: ogni più minuto dettaglio della sua composizione rimanda a una dimensione ulteriore. Nel dipinto di New York, per esempio, sullo sportello della credenza si può vedere la raffigurazione di Adamo, assente nella versione genovese: David ci presenta così la Vergine come nuova Eva e Cristo come nuovo Adamo, mentre assieme riparano alla disobbedienza dei progenitori, tanto più che nel quadro dell’Aurora Trust il Bambino, invece del cucchiaio, tiene in mano un ramoscello di ciliegie, ulteriore riferimento al frutto del peccato originale. I fiori dietro la Vergine rimandano alla morte di Cristo e al dolore di sua madre, mentre la brocca potrebbe esser letta come simbolo eucaristico che accenna al vino e quindi al sangue di Cristo. La cesta coi panni richiama il sudario con cui il corpo di Gesù fu avvolto nel sepolcro, e forse anche per render più immediato questo riferimento Gerard David potrebbe aver deciso di vestire il Bambino con una camiciola nel dipinto genovese, quando invece in quello di New York è nudo. Il libro ci riporta alle pratiche devozionali del tempo, mentre gli oggetti sul tavolo svelano il significato complessivo del dipinto, un’allegoria dell’incarnazione e della redenzione: il frutto in primo piano è un’allusione diretta al peccato originale riscattato da Cristo con la sua morte in croce, a cui rimanda invece il coltello.
La versione di Genova, dove il dipinto è presente dal 1874, acquistato a Parigi dai Brignole Sale per la loro collezione e poi passato alla città per legato, è meno carica di sottesi allegorici rispetto a quella di New York, ed era stata di certo pensata per un committente meno esigente. Un committente ch’era in grado di riconoscere sì le implicazioni teologiche della Madonna della pappa, e che naturalmente vedeva in questa madre un modello di virtù che segnalasse il valore della famiglia nelle Fiandre d’inizio Cinquecento, in una società che abbandonava i suoi antichi modelli basati sull’agricoltura e sulla dimensione collettiva della vita sociale, e cominciava a sviluppare un nuovo paradigma borghese e capitalista all’interno del quale il ruolo della famiglia e del singolo individuo assumevano meriti del tutto diversi. Ma probabilmente il committente era anche desideroso di vedere una Vergine più vicina, più umana, più terrena. Cercava forse una dimensione più immediata, la stessa che più affascina la maggior parte di coloro che oggi vedono la Madonna della pappa di Gerard David a Palazzo Bianco. In una parola: una mamma. Una mamma amorevole colta in un gesto intimo e naturale, che tocca nel vivo e commuove gli esseri umani del ventunesimo secolo come toccava quelli del sedicesimo.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).