Un inno alla luce: si potrebbe definire così, riprendendo una felice immagine di Domenico Tumiati, la Danza delle Ore di Gaetano Previati. Uno dei suoi capolavori più poetici, più misteriosi, più elevati, più luminosi, più trionfanti: le dodici Ore della mitologia romana, le personificazioni dei diversi momenti della giornata, danzano tenendosi per mano in volo sulla terra, mentre il sole inonda di luce dorata l’intera composizione. Tra stella e pianeta, le dodici donne, bionde, leggiadre, lievi e piene di grazia nel loro volo, sorreggono con la punta delle dita un’ellisse sottile e sfolgorante: è il cerchio della luce, il ciclo continuo del giorno e della notte che s’alternano all’infinito, il cerchio del tempo che scorre senza sosta. E le Ore di Previati sono creature divine, che ci appaiono quasi prive di corpo. Si guardino la pennellata filamentosa del maestro del divisionismo in uno dei momenti più felici della sua carriera, lo scintillio dei raggi del sole, il moto circolare che il pittore imprime a tutta la composizione semplicemente adoperando il pennello: tutto concorre ad azzerare l’evidenza corporea delle figure delle danzatrici. Il colore, che si fa luce, sfibra i volumi, li spoglia della loro sostanza, cancella la loro fisicità: ciò che rimane è ritmo, movimento, luce, danza, musica, sogno. “Pura vibrazione”, direbbe Tumiati.
Quello di Previati è un universo di luce che si nutre di poesia simbolista (Baudelaire, per esempio: il sole che “commande aux moissons de croître et de mûrir / dans le cœur immortel qui toujours veut fleurir”), che nasce sotto i cieli tersi e sfavillanti della Liguria, durante i primi soggiorni a Lavagna, dove l’artista conobbe e approfondì ulteriori possibilità del colore, e che sembra prender vita dalle note di Amilcare Ponchielli: la prima de La Gioconda, l’opera del compositore cremonese celebre soprattutto per la musica immortale della Danza delle Ore, s’era tenuta alla Scala l’8 aprile del 1876, e quel ballabile aveva riscosso un successo immediato e unanime. Non altrettanto si può dire per l’opera in sé, criticata per l’eccessiva lunghezza: curiosamente, è la stessa critica che, quasi quarant’anni dopo, sarebbe stata mossa alla Parisina di Mascagni e D’Annunzio, illustrata dai disegni dello stesso Previati. Il pittore ferrarese conosceva sicuramente la Danza delle Ore di Ponchielli, tanto che s’è voluto vedere nel dipinto una sua traduzione in pittura. Un accostamento che forse continua in parte a condizionare la fortuna di questo capolavoro. Un capolavoro che fu accolto con freddezza anche quando venne esposto per la prima volta al pubblico.
Gaetano Previati, Danza delle Ore (1899; olio e tempera su tela, 134 x 200 cm; Milano, Collezione Fondazione Cariplo, Gallerie d’Italia di Piazza Scala) |
Era la Biennale di Venezia del 1899, la terza. Secondo quanto riporta Nino Barbantini nella sua sontuosa monografia su Previati data alle stampe nel 1919, l’ideazione del grande dipinto rimontava a cinque anni prima: l’artista dovette dunque rimuginare a lungo sul suo lavoro, ma ciò non bastò a evitargli critiche, anche pesanti, all’indomani dell’esposizione. Le recensioni di quella Biennale furono ingenerose nei riguardi della Danza delle Ore. Per Vittorio Pica, uno dei più grandi critici d’arte del tempo, l’opera, “colle sue dodici donzelle che, vestite di tenui veli e colle chiome svolazzanti, sorreggono un sottil cerchio sul disco terrestre, mentre il sole le irraggia di sbieco, è troppo semplice e troppo poco nuovo come invenzione per un quadro da cavalletto”, e sempre a suo avviso “il disegno delle figure ne è eccessivamente trascurato”. Per Ugo Fleres il quadro è una “sorta di rebus con segni geometrici, dipinto a due colori smorti, gialliccio e violaceo, con la solita tecnica filamentosa dell’autore”. Per Mario Morasso è addirittura “un meschino simbolo della Danza delle Ore”, naturalmente quella ponchielliana. Mario Pilo, dalle pagine della Gazzetta letteraria, richiamava i colleghi facendo lor presente che la Danza delle Ore “può piacere più o meno, ma […] ad ogni modo dev’esser presa sul serio”. Persino Barbantini, uno degli amici che furono più vicini a Previati e uno dei suoi critici di riferimento, nella monografia pubblicata vent’anni dopo gli rimproverò d’aver dipinto la Danza delle Ore “senza calore e senza passione, concludendo a un decorativismo asciutto e superficiale”, simile a quello del preraffaellita George Frederic Watts, tra i pittori inglesi più vicini alle istanze del simbolismo, probabilmente noto a Preivati, così come noti gli erano, ha puntualizzato di recente Chiara Vorrasi, i principî sull’unità e sull’armonia dell’opera teorizzati da John Ruskin (ripetizione, curvatura, irradiamento), le teorie sul colore e sulla luce di Charles Henry, il simbolismo vittoriano che adoperava la decorazione per creare “una spazialità autonoma rispetto alla realtà”.
L’abbandono d’ogni registro narrativo, la virata verso una pittura di pura luce, l’apertura all’esperienze internazionali son forse le ragioni per cui il misterioso dipinto di Previati non venne compreso e apprezzato, anche se l’ostilità della critica nei suoi confronti non durò a lungo: già nel 1901, nell’ambito della quarta Biennale, lo stesso Pica curò una personale dell’artista che fu invece accolta con sostanziale favore, e Alberto Grubicy, gallerista di Previati, cercò di sfruttare ogni occasione buona per esporre la Danza delle Ore, che ancora nel 1901 veniva mostrata non solo alla personale veneziana, ma anche all’ottava rassegna internazionale di Monaco di Baviera al Glaspalast, per conoscere poi, negli anni successivi, numerose altre esposizioni. Il risultato finale fu l’acquisto dell’opera, nel 1927, da parte della Cassa di Risparmio di Milano: e ancor oggi la Danza delle Ore figura nella raccolta dell’ultimo erede di quella banca, il gruppo Intesa Sanpaolo.
Quali furono gli alti risultati che Previati raggiunse col suo etereo, raffinato, fulgido dipinto? Il primo è di carattere formale: è l’ulteriore perfezionamento delle sue ricerche sulla luce. La luce aurea del pittore ferrarese è qui la vera protagonista del dipinto, modulata secondo accordi tonali che ne moltiplicano l’intensità e che son divisi tra i filamenti lunghi e sottili che incontrano e assecondano la linea sinuosa di Previati e conferiscono al dipinto il suo turbinoso moto circolare. Umberto Boccioni, che conobbe personalmente Previati, sarebbe stato sempre debitore alla sua poetica divisionista: studiò con attenzione i suoi scritti e i suoi dipinti, visitò anche il suo studio, si confrontò con Previati. Per Boccioni, Previati “è il primo veramente che tenti di esprimere per mezzo della luce in sé una emozione all’infuori della convenzionale riproduzione delle forme e dei colori”.
Il secondo invece è di carattere ideale: nella sua unione di pittura, letteratura, danza e musica, Previati era riuscito a dar vita a una Gesammtkunstwerk wagneriana, un’opera d’arte totale ch’è in grado di suscitare sensazioni sinestetiche e di dar forma a quell’ideismo musicale che già Vittore Grubicy riconosceva al ferrarese parlando, nel 1891, della sua Maternità: “un’idea astratta, mistica, indefinita nelle sue parti, la cui bellezza estetica […] risiede appunto in questa sua indeterminazione simbolica”. Quest’anima della pittura di Previati fu ben intuita da Domenico Tumiati: il grande poeta ferrarese, convinto fautore d’una critica estetizzante, aveva ben compreso come Previati, coi suoi dipinti, fosse riuscito a far emergere l’inconscio, il mistero, il sogno, una “nuova forma di spiritualità, una astrazione dei sensi”, l’“idea immateriale”, l’essenza della vita stessa. La Danza delle Ore è l’opera che chiude l’articolo pubblicato da Tumiati, nel 1901, sulla rivista Emporium: fu quasi una sorta di viatico alla riabilitazione dell’artista dopo una prima parte di carriera dalle fortune alterne. Qui, scriveva Tumiati, “il segreto che rivela la commozione dell’artista, sta nel metodo impiegato, tenendo divisi i pochi colori componenti, e distendendoli sempre in tratteggi sottili, di forma circolare. Dalla fotosfera al cerchio, dal cerchio al globo terrestre, dall’atmosfera raggiante alle volute dei veli e delle chiome delle danzatrici, tutto disegna il circolo della luce vitale”, quel cerchio ch’è “origine prima della vita”, perché tutto nell’universo è frutto della luce. E con quelle danzatrici, con quell’“inno di dodici strofe verso il Sole”, con quella luce radiosa che si spande per tutta la composizione, Previati sarebbe stato degno d’illustrare il Paradiso di Dante. Tanta era, secondo Tumiati, l’affinità di Previati col padre della nostra letteratura.
L'autore di questo articolo: Federico Giannini
Nato a Massa nel 1986, si è laureato nel 2010 in Informatica Umanistica all’Università di Pisa. Nel 2009 ha iniziato a lavorare nel settore della comunicazione su web, con particolare riferimento alla comunicazione per i beni culturali. È giornalista iscritto all’Ordine dal 2017, specializzato in arte e storia dell’arte. Nel 2017 ha fondato con Ilaria Baratta la rivista Finestre sull’Arte, iscritta al registro della stampa del Tribunale di Massa dal giugno 2017. Dalla fondazione è direttore responsabile della rivista. Collabora e ha collaborato con diverse riviste, tra cui Art e Dossier e Left, e per la televisione è stato autore del documentario Le mani dell’arte (Rai 5) ed è stato tra i presentatori del programma Dorian – L’arte non invecchia (Rai 5). Ha esperienza come docente per la formazione professionale continua dell’Ordine e ha partecipato come relatore e moderatore su temi di arte e cultura a numerosi convegni (tra gli altri: Lu.Bec. Lucca Beni Culturali, Ro.Me Exhibition, Con-Vivere Festival, TTG Travel Experience).